Nella società odierna, la parola crisi ha assunto un connotato negativo, spesso sinonimico di sofferenza, povertà, tristezza. Tuttavia, come il suo stesso etimo testimonia, la crisi rappresenta un momento di pericolo ma anche di opportunità, ed impone ai singoli soggetti coinvolti di prendere una decisione, di scegliere, di agire tempestivamente per non soccombere. Il diritto e l’economia, per antonomasia, sono da sempre fortemente connessi: nei momenti di crisi economica, dove il potere politico è chiamato a scegliere (o a non scegliere) il diritto rappresenta lo strumento privilegiato per stimolarel’attività economica. Sin dall’antichità, infatti, le grandi evoluzione normative, anche quelle dirette a regolamentare i rapporti infra-privatistici, sono state trainate dall’esigenza di tutelare e favorire i traffici, con intensità proporzionale alla complessità e importanza dei medesimi.
La prima grande manifestazione dello stretto rapporto d’interdipendenza fra diritto ed economia si rinviene analizzando il periodo storico di massimo sviluppo della società romana (III sec. a.C. – III sec. d.C.). Dalla prima grande conquista di Veio, nel 396 a.C., Roma inizia ad espandersi e le popolazioni vinte vengono ridotte in schiavitù. Si determina, così, una prima grande crisi del sistema produttivo della società romana, chiamata, in forza delle novità economico-sociali, a mutare i propri assetti giuridici (fonti riferiscono che nel mercato di Delo, in Grecia, venivano compravenduti circa 10.000 schiavi al giorno).
Più nel dettaglio, la crescente tendenza dell’aristocrazia romana , a delegare agli schiavi l’esercizio dell’attività economica, soprattutto di tipo mercantile, mal si convogliava negli schemi rigidi dell’arcaico ius civile del V sec. a.C., secondo il quale l’unico soggetto avente capacità giuridica di diritto privato era il pater familias, unico soggetto di diritto a potersi obbligare nei confronti dei consimili. Il difetto di capacità, pertanto, si poneva come un limite allo sviluppo dell’azione economica e si manifestava all’orizzonte la necessità di superarlo, pur conservando gli antichi (e immodificabili) schemi giuridici.
Tale momento di impasse veniva sbloccato attraverso la produzione dello ius honorarium (complesso di norme giuridiche contenute nell’editto dei pretori) e di un grandissimo arteficio della tecnica giuridica, ancora oggi largamente praticato da tutti gli ordinamenti: la c.d. fictio iuris. Attraverso gli editti dei pretori prendeva così forma un’articolata organizzazione giuridica volta a regolamentare e “regolarizzare” la figura dello schiavo-imprenditore (oggetto e non soggetto di diritto). In questo contesto, una prima fondamentale innovazione pretoria è rappresentata dall’actio institoria****, mediante la quale i terzi contraenti, che interagivano con gli schiavi preposti allo svolgimento dell’attività economica (c.d. institores) per conto del dominus (unico soggetto di diritto), potevano agire in giudizio direttamente nei confronti dell’imprenditore preponente per ottenere da quest’ultimo il soddisfacimento dei diritti originati dai rapporti commerciali intessuti con i suoi preposti.
Per il tramite di quest’azione, quindi, i singoli creditori dell’impresa entravano nella disponibilità di uno strumento che permetteva loro di agire direttamente nei confronti dell’imprenditore per richiedere il pagamento di tutti i debiti dell’impresa esercitata dagli schiavi: nasceva così una prima forma di responsabilità illimitata dell’imprenditore per fatto altrui. Col crescere dei traffici commerciali, però, si palesava nell’economia romana una nuova problematica: la responsabilità illimitata dell’imprenditore si poneva come un freno inibitore allo svolgimento dell’attività commerciale. Si poneva il problema di escogitare uno strumento giuridico che fosse idoneo a legittimare l’imprenditore a parzializzare il rischio d’impresa, autorizzandolo a rispondere degli obblighi assunti (anche da terzi) nell’esercizio della sua attività d’impresa soltanto con il capitale preposto per la stessa. Si trattava, quindi, di trovare un meccanismo giuridico che garantisse e legittimare la responsabilità limitata dell’imprenditore. Invero, la prassi economica aveva da tempo iniziato ad utilizzare in modo esteso il peculium (VI-V sec. a.C.), un piccolo patrimonio separato che veniva lasciato dal pater familias a coloro che erano sotto la sua potestas (generalmente i figli). Per ovviare all’esposizione alla responsabilità illimitata, i capitalisti romani iniziavano a devolvere nel peculio dello schiavo tanta ricchezza da poter permettere a quest’ultimo di agire autonomamente e senza il preventivo consenso del dominus. Tale prassi economica, però, metteva in crisi l’antico diritto civile romano, dal momento che ad esercitare l’attività d’impresa era direttamente lo schiavo (avente valore giuridico di una cosa), pertanto “non citabile in giudizio”.
Ancora una volta, quindi, i pretori romani venivano chiamati a prendere posizione (a risolvere la crisi), decidendo come “regolarizzare e legittimare le condotte imprenditoriali” diffusesi. Veniva così coniata la c.d. actio de peculio, azione che il terzo creditore poteva intentare contro il padrone per i debiti contratti dal servo durante l’esercizio dell’attività imprenditoriale ma soltanto nei limiti del valore del peculio. In questo modo_,_ anche il diritto romano introduceva una generica possibilità di partizionare il rischio d’impresa dal momento che, per il tramite del peculio, l’imprenditore romano poteva determinare con anticipo l’entità della somma che era disposto a rischiare (poteva perderla tutta), avendo contezza che se l’attività fosse andata bene i proventi sarebbero stati a lui destinati.
Si riesce a comprendere, pertanto, come con l’actio de institoria, l’actio de peculio (e la successiva actio de peculio annalis), l’ordinamento giuridico romano riconoscesse l’esistenza di due sostanziali modalità d’esercizio dell’attività d’impresa: quella a responsabilità illimitata dell’imprenditore (l’esercente attività economica deve pagare i suoi debiti con tutti i suoi beni presenti e futuri) e quella a responsabilità limitata (l’esercente attività economica deve pagare i suoi debiti con i soli beni presenti in un patrimonio determinato), entrambe imperniate sulla figura dello schiavo-imprenditore, oggetto (e non soggetto) di diritto. Tali innovazioni determinavano una cesura con il passato, e sempre più, con l’aumentare dei flussi e delle relazioni economiche, la possibilità per l’imprenditore di determinare con anticipo l’ammontare del proprio patrimonio da esporre al rischio d’impresa diveniva un volano imprescindibile allo svolgimento di qualsiasi attività economica, fosse essa più o meno rischiosa.
In tempi più recenti, però, con la caduta del sistema schiavista, è emersala necessità di continuare a legittimare tale agevolazione all’esercizio d’attività d’impresa: ancora una volta, il diritto veniva chiamato a immettere stabilità e fiducia nel tessuto economico, e tale operazione veniva effettuata ricorrendo all’antico strumentario degli artefici giuridici già teorizzati ed applicati al tempo dell’antica Roma. In particolare, i giuristi ricorrono alla fictio iuris dogmatica della personalità giuridica e della responsabilità patrimoniale limitata.
Con tale espressione ci si riferisce (prendendo a memoria l’insegnamento di Savigny e Jhering) all’umanizzazione di creazioni artificiali e virtuali, a “menzogne tecniche consacrate dalla necessità”. Più nel dettaglio, concentrandosi esclusivamente sull’attività d’impresa, con la personalità giuridica l’ordinamento legittima e riconosce la creazione di un nuovo soggetto di diritto, la società di capitali, diverso rispetto all’essere umano (c.d. persona fisica), sebbene non sia dotato di umanità e personalità in senso stretto. Per quanto qui interessa, caratteristica fondamentale di tale soggetto è rappresentata dalla sua soggettività piena e dalla sua autonomia patrimoniale perfetta, rispettivamente da intendersi come la concreta idoneità ad essere titolare di rapporti giuridici patrimoniali (crediti e debiti) nonché titolare di un patrimonio autonomo e separato rispetto a quello della persona, fisica o giuridica, che l’ha costituita.
In questo modo, oggi, l’ordinamento permette di ottenere il medesimo risultato che, tempo addietro, i giuristi romani avevano realizzato con l’actio de peculio: difatti, mediante tale strumento, la società (per sua essenza, ai sensi dell’art. 2247 c.c., destinata a esercitare un’attività economica) di capitali, per sua natura soggetto di diritto, viene trattata come un imprenditore persona fisica, come centro autonomo di imputazione di attività col beneficio ulteriore di rispondere delle passività limitatamente a quanto contenuto nel proprio patrimonio. In questo modo, se gli affari vanno bene, la ricchezza generata potrà essere trasferita a uno o più soci mediante la distribuzione degli utili mentre, in ipotesi negative, i debiti della società (che, in assenza di tale finzione, sarebbero della generalità dei soci) andranno imputati alla sola società nei limiti delle attività patrimoniali esistenti.
tale agevolazione all’imprenditoria puòcomportare non pochi problemi sul piano della tutela del credito e della garanzia dell’adempimento delle obbligazioni. Infatti, se da una parte si pone l’esigenza di incentivare l’attività d’impresa, dall’altra si pone la contrastante necessità economica di tutelare i titolari di credito che, a qualsiasi titolo, abbiano intessuto rapporti di tipo economico con l’imprenditore-società di capitali, rimanendo insoddisfatti.
Banalizzando, si pensi ad A., creditore per € 20.000 della B s.r.l., titolare di un patrimonio di soli 5.000 euro. In questo caso, salvo interventi esterni, la società non sarebbe in grado di pagare quanto dovuto. Invece, se B fosse stato un imprenditore persona fisica, ai sensi dell’art. 2740 c.c. avrebbe risposto con tutti i suoi beni presenti e futuri. Si comprende come tale istituto vada ad impattare sulle regole tradizionali in materia di credito: non a caso, autorevole dottrina è arrivata a definire la personalità giuridica della società di capitali (e la relativa autonomia patrimoniale perfetta) come un “diaframma rigido, limitativo del principio di responsabilità soggettiva ex art. 2740 c.c”.
Si pone allora, innanzi al giurista, un ulteriore momento di crisi nella risoluzione del problema di bilanciare il diritto alla certezza del rischio d’impresa con la tutela del credito e dell’assolvimento degli obblighi giuridici patrimoniali, che rappresentano un sostrato fondamentale dell’economia contemporanea e dei rapporti commerciali. Ancora una volta, di tale esigenza economica, gli interpreti del diritto, sia a livello normativo che dottrinale e giurisprudenziale, si sono fatti carico, provando a porre correttivi alla limitazione della responsabilità patrimoniale della società di capitali nella consapevolezza che un’esenzione assoluta di responsabilità avrebbe rappresentato uno scudo ingiusto a tutela di potenziali debitori abituali.
A questo proposito, di recente, tale esigenza è stata oggetto d’attenzione da parte del legislatore che, chiamato a riformare (o meglio abolire) l’istituto mercantile del fallimento, ha inteso irrigidire sensibilmente (almeno nel senso di esplicitare alcuni contenuti impliciti della precedente disciplina sulle società di capitali) gli obblighi di amministrazione e controllo delle piccole e medie imprese, soprattutto se esercitate in modo collettivo. In particolar modo, il d.lgs. n. 14/2019 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), introducendo un secondo comma all’ormai risalente art. 2086 c.c., ha esplicitato due obblighi specifici dell’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva: quello di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (con l’intento di favorire il monitoraggio costante della salute dell’impresa), nonché quello di attivarsi senza indugio e con le modalità indicate dalle legge, nei casi di sofferenza dell’attività d’impresa, in modo da contrastare tempestivamente e superare la crisi, recuperando la continuità aziendale. In complemento, si inseriscono le modifiche all’art. 2476, volte a determinare la conseguenza giuridica (o meglio la punizione) per l’omesso rispetto dei predetti obblighi.
Oggi, infatti, diversamente da quanto avveniva ai sensi del precedente disposto, anche i creditori sociali delle s.r.l. (e non più soltanto i soci), quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti, potranno agire con azione diretta nei confronti degli amministratori della società (che spesse volte sono soci) se riescono a provare che tale situazione sia derivata dall’inosservanza degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio.
Pertanto, con riferimento alla sola attività d’impresa in forma collettiva sembrerebbe potersi sostenere che nel tempo presente, a seconda della fase di vita dell’impresa, l’ordinamento propenda verso la tutela dello sviluppo dell’attività economica ovvero del credito. Infatti, se nella fase iniziale dell’attività, l’ordinamento favorisce l’imprenditoria in forma associata (a determinate condizioni permette la costituzione di una società a responsabilità limitata anche con patrimonio un euro), le norme che ne regolamentano la gestione nei periodi successivi alla costituzione, con particolare riferimento a quelle relative alle fasi di crisi, sembrano oggi voler responsabilizzare, più di quanto fatto sino ad ora, la componente umana (gli amministratori della società) della società di capitale, in un’ottica di maggior tutela delle ragioni dei creditori.
In definitiva, quindi, in modo forse ancora avventuroso, si ritiene che l’ordinamento, ancora una volta chiamato a rispondere alle manifestazioni delle prassi economiche (nel momento di stagnazione che caratterizza il nostro tempo), sembrerebbe oggi guardare all’istituto della responsabilità limitata con meno entusiasmo rispetto a quanto non avesse fatto poco tempo addietro con l’introduzione delle società a responsabilità limitata con capitale sociale un euro.
Per saperne di più:
Guastini, Finzione giuridica nella teoria generale, in Digesto, IV Edizione, p. 356 vol. VIII Civile, 1992.
Irti, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Rivista di diritto civile, p. 1-29, Cedam, 1999, Padova
La Torre, La finzione nel diritto, in Rivista di diritto civile, p. 315-334, Cedam, 2000, Padova
Orestano, Il problema della persona giuridica in diritto romano. Vol. 1, Giappichelli, 2015, Torino
Avolio, D. Di Majo, Compendio di diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Simone, 2019, Napoli
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