23 febbraio 2021

Braccia, non persone. Il caporalato e la normativa di contrasto allo sfruttamento lavorativo

In aperta campagna, lontano dal frastuono del traffico cittadino, sorgono baracche fatiscenti che ospitano lavoratori e lavoratrici impegnati nella raccolta di frutta e verdura. In alcuni casi si tratta di presenze sporadiche, come cattedrali nel deserto, che si ergono quasi a sfidare il paesaggio rurale circostante; in altri, invece, si assiste al sorgere di veri e propri insediamenti informali – comunemente chiamati ghetti – come quello che sorge a Rignano Garganico (FG), uno dei più grandi in Italia, così esteso che sono stati individuati ben tre “quartieri”: Bamako, Abidjan e Washington.

 

Per quale motivo oggi i braccianti e le braccianti sono costretti e costrette a vivere in accampamenti senza acqua né corrente, dormendo in materassi appoggiati al terreno che galleggiano nel fango non appena inizia a piovere? Per comprenderlo è necessario interfacciarsi con il fenomeno del caporalato, cui le cronache fanno riferimento in merito ai settori lavorativi più disparati.

 

Il caporale è anello di congiunzione tra dipendente e datore, il quale si rivolge al caporale affinché assolva il tedioso compito dell’individuazione delle braccia disposte ad accettare salari irrisori. L’inefficienza del sistema di collocamento pubblico in settori – primo fra tutti quello agricolo – che necessitano di molta manodopera dequalificata ha reso impossibile il superamento di quest’altro sistema di collocamento. La figura del caporale è quindi assimilabile a quella di un intermediario nel quale lavoratori e lavoratrici si trovano ad imbattersi se intendono lavorare: non potrebbero essere assunti altrimenti. Come infatti riporta la Professoressa Valeria Torre in un articolo,

 

«Il caporale è parte di un modello sociale che può considerarsi vasto, complesso e trasversale, non circoscrivibile dentro categorie sociologiche rigide ma necessariamente aperte, in grado di aggiornarsi all’evolversi del fenomeno e al suo strutturarsi localmente e globalmente. Che può prevedere la partecipazione di diversi soggetti, con funzioni correlate tra loro. A questo modello “liquido” e resistente di impresa non importa il colore della pelle del lavoratore, i suoi tratti estetici ed etici o la sua condizione giuridica, quanto, invece, la sua fragilità sociale, la sua vulnerabilità e ricattabilità, tanto da sfociare talvolta in forme contemporanee – e a volte anche antiche – di riduzione in schiavitù o servitù».

 

Il guadagno del caporale viene dedotto dalla retribuzione percepita dai braccianti, e spesso ammonta a più del 50% della paga giornaliera complessiva, come riporta il Prof. Giuliani nell’articolo Profili di (Ir)Responsabilità da Reato delle Persone Giuridiche Rispetto ai Fatti di c.d. «Caporalato». (Art. 603-bis c.p. e D. lgs. 231/2001 a confronto).

 

Inoltre, il caporalato si pone come fenomeno intrinsecamente razzista: riconosce infatti ai lavoratori italiani un salario nettamente superiore ai loro colleghi stranieri, nella consapevolezza che lo stato di vulnerabilità di quest’ultimi li pone nelle condizioni di accettare ogni somma di denaro. Secondo quanto riportato dal quarto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, i lavoratori sottoposti a grave sfruttamento percepiscono una paga media tra i €20 e i €30 al giorno, a fronte di una giornata lavorativa che oscilla tra le 8 e le 12 ore. In media in queste ipotesi si guadagnano €2,50 all’ora: cifre lontane anni luce dagli standard retributivi indicati nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.

 

Il reclutamento del bracciante straniero avviene in madrepatria, dove un conoscente promette un’occupazione ben retribuita ed una sistemazione: il “sogno italiano”. Il datore di lavoro approfitta della vulnerabilità di chi non conosce la lingua italiana, non ha punti di riferimento una volta giunto nel Bel Paese, non ha contezza dei propri diritti e non è in grado di prendere in affitto neanche una stanzetta in periferia. È in questo frangente che il caporale fa nuovamente capolino, affittando ai braccianti un materasso in una tenda che, insieme a quelle di altri colleghi, formano un accampamento informale dove non ci sono bagni, acqua corrente né elettricità.

 

Per le lavoratrici donne la situazione è ancor peggiore: come documenta il quarto rapporto sopra menzionato, queste percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi uomini. Questo non è tutto: la donna rappresenta un’importante fonte di reddito anche per attività extra perché, a differenza degli uomini, può offrire anche il proprio corpo a caporali e braccianti.

 

Questo settore attira altresì gli appetiti delle mafie: queste non si interessano direttamente del reclutamento, quanto di tutto ciò che ruota intorno alla raccolta, come il settore della logistica: ad esempio, l’inchiesta Aleppo 2 testimonia che nel MOF di Fondi (LT) – il mercato ortofrutticolo più grande d’Italia – operava la famiglia D’Alterio che secondo gli inquirenti, ha «cercato di monopolizzare i trasporti per la Sardegna e per Torino, terrorizzando le altre ditte e gli altri autotrasportatori e arrivando a imporre il pizzo a chi lavorava in quelle stesse aree: cinque euro per ogni pedana trasportata». I soggetti, arrestati per estorsione, illecita concorrenza e minaccia aggravate dal metodo mafioso, sono legati alla camorra casalese. Di fatto, la criminalità organizzata guarda a questo settore da anni: l’inchiesta Sud Pontino condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli nel 2014 ha fatto emergere «la capacità della camorra di imporre i prezzi dei prodotti agricoli e indirettamente i bassissimi salari dei braccianti», come sottolinea Marco Omizzolo in Sotto padrone. I laboratori della camorra e della ‘ndrangheta si occupano infine della produzione delle metanfetamine assunte dai braccianti con più anni di lavoro alle spalle per sopportare le fatiche quotidiane.

 

In alcune zone del sud Italia, in particolare in Basilicata, come sottolineato in Ghetto Italia, è possibile rilevare l’esistenza di un caporalato “fortemente gerarchizzato”, dove si riscontrano vari livelli di potere; questo assetto è confermato dal quinto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che identifica a capo della piramide il cosiddetto caporale-boss, che mantiene i contatti con le imprese, che si avvale poi di tecnici e professionisti amministrativi. Al terzo gradino si collocano l’addetto alla logistica o vice-capo e i consulenti legali; alla base infine i caporali di coordinamento delle squadre, i caporali reclutatori, gli autisti, e quelli in contatto diretto con i braccianti. Da suddetto organigramma è possibile constatare fino a che punto il fenomeno sia strutturato in alcuni territori.

 

Dato il quadro appena tratteggiato, è imprescindibile confrontarsi con il dato normativo per comprendere come l’ordinamento si sia attivato per contrastare suddette pratiche. Con la L. n° 148/2011 è stato introdotto l’art. 603-bis c.p., rubricato Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Tuttavia, la disposizione ha destato non pochi interrogativi: reo secondo quanto sancito al 1° comma, era colui o colei che svolgesse «un'attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori». Pertanto, la norma non coinvolge nell’illecito né il datore di lavoro né l’ente impresa agricola – quest’ultimo, in virtù di quanto sancito nel D. Lgs. n°231/2001, dovrebbe essere coinvolto se il reato fosse commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.

 

La normativa in esame è stata successivamente novellata dalla L. n° 199/2016, che ha riformulato l’art. 603-bis c.p.: ad oggi, il fatto è penalmente rilevante anche se è il datore di lavoro a commetterlo ed anche qualora non beneficiasse dell’intermediazione di alcun caporale. Scatta la sanzione penale anche qualora non si possa apprezzare il ricorso a modalità di sfruttamento violente o minacciose, essendo sufficiente che il reclutamento avvenga approfittandosi dello stato di bisogno della vittima. Un’importantissima novità è la previsione che inserisce l’istituto de quo tra i reati che fanno scattare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ex D. Lgs. n°231/2001.

 

L’art. 7 modifica l’art. 12 della L. n° 228/2003 sancendo che «i proventi della confisca ordinata a seguito di sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti» per il delitto ex art. 603-bis c.p., vengono fatti convogliare nel Fondo per le misure anti-tratta. Ciononostante, non viene garantito ai lavoratori l’accesso al programma di assistenza sovvenzionato dal fondo stesso, che «garantisce, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria». È un cortocircuito normativo, fungendo questa circostanza da deterrente la denuncia: il lavoratore si troverebbe privo di un alloggio e di un’occupazione lavorativa, con la paura di subire ritorsioni per la denuncia.

 

L’art. 8, infine, si pone nella prospettiva di potenziare la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, istituita nel 2014, per prevenire il lavoro nero in agricoltura.

 

Dal quadro appena tratteggiato si trae che il legislatore ha preso atto delle critiche al precedente impianto normativo, ma si tratta di un intervento che si pone in un’ottica emergenziale, che non incide alla base del fenomeno. Ne è testimonianza l’assenza del riferimento all’accesso ad un programma di protezione per i braccianti e le braccianti sfruttati e sfruttate e la mancata previsione di un sistema di incentivi per gli imprenditori virtuosi.

 

Tra le proposte per migliorare l’impianto disciplinare, vi è quella del magistrato Bruno Giordano, che si sofferma sulle criticità del sistema: l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (I.N.L.) non dispone del personale sufficiente a garantire controlli capillari e qualora sorgesse il sospetto del reato, per intervenire è tenuto a chiamare in causa la Polizia, la quale deve coordinarsi con l’A.S.L., l’I.N.L., l’ispettorato dell’I.N.P.S., dell’I.N.A.I.L. ed i Carabinieri del Lavoro. In queste circostanze, è facile comprendere quanto possa essere difficile garantire l’arresto in flagranza di reato.

 

La tutela sostanziale e non meramente formale del lavoratore può essere garantita dalla razionalizzazione e dal rafforzamento dei servizi ispettivi; al tempo stesso, questa soluzione, da sola, potrebbe non essere sufficiente a fungere da panacea. Per contrastare il caporalato in ambito agricolo, si dovrebbe optare per un approccio integrato, che vede la disciplina sanzionatoria armonizzarsi con un quadro generale di riforma riguardante la normativa giuslavoristica, l’accoglienza dei migranti, la residenzialità pubblica e l’accesso alle strutture sociosanitarie.

 

Nella lotta a questa forma contemporanea di schiavitù, non solo le istituzioni, ma anche consumatori e consumatrici possono ricoprire un ruolo chiave, per esempio scegliendo consapevolmente i prodotti quando si va a far spesa, abbandonando la logica ossessiva del risparmio, premiando le imprese agricole locali a km0, andando a fare acquisti al mercato settimanale.

 

Il prezzo che non grava sulle spalle dell’acquirente si traduce infatti in sfruttamento che arriva ad assumere i connotati della schiavitù.

 

 

Per saperne di più:

Per una vasta panoramica sul fenomeno consiglio Agricoltura senza caporalato della Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, volume che raccoglie i contributi di economisti, giuristi e sociologi sul tema.

Per calarsi nella vita del bracciante medio, segnalo Ghetto Italia, di Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet, e Sotto padrone di Marco Omizzolo.

È importante confrontarsi con il quinto rapporto Agromafie e Caporalato elaborato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, consultabile al seguente link: https://www.flai.it/osservatoriopr/osservatorio-placido-rizzotto/.

Per approfondire il tema del consumo critico, è interessante il saggio Lo sfruttamento nel piatto di Antonello Mangano.

Infine, se si intende indagare la normativa in tema, consiglio Il delitto di caporalato di Domenico Giannelli. 

 
Immagine fornita con autorizzazione all'utilizzo limitato sul magazine online "Il Chiasmo" dall’autrice Michela Cancian, detentrice dei diritti. Titolo dell’immagine: Caporalato.

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