L’interrogarsi su un problema di natura dottrinale e l’aderire ad una qualificazione giuridico-formalistica di un fenomeno, piuttosto che ad un’altra, comporta sempre risultati applicativi diversi delle norme che circostanziano quella figura. Uno dei casi in cui questo accade in maniera evidente è rinvenibile nel diritto societario, dove tra i problemi più discussi troviamo quello relativo alla natura giuridica dell’istituto della Società per Azioni, conteso tra ente giuridico e contratto. In via del tutto semplificatoria e preliminare, ai fini della fruibilità dell’articolo anche ai “non addetti ai lavori”, si può descrivere la S.p.a. come un tipo societario, la cui peculiarità principale sta nel fatto che le quote di partecipazione dei soci vengono definite da azioni, tra loro omogenee, standardizzate e di regola liberamente trasferibili.

Dall’analisi del problema che ci avviamo a trattare sulla natura giuridica della Società per Azioni tenderà ad emergere un dato: quello del ruolo pragmatico della dogmatica, capace di assumere una funzione non meramente classificatoria e speculativa, ma al contrario quella servente della pratica e che mira alla risoluzione concreta di problemi e di patologie configurabili nell’ambito dei rapporti tra privati.

Per l’appunto, la dimensione pratica del problema in questione può essere riassunta nel seguente quesito: il diritto di voto del socio nell’assemblea della S.p.A. è libero oppure funzionale al perseguimento di un interesse della società autonomamente apprezzabile? Detto in altri termini, il socio, quando esercita il suo diritto di voto in assemblea, può decidere di perseguire unicamente il proprio interesse oppure deve bilanciare la sua posizione con quella di altri?

Muovendo da tali premesse, il dibattito sulla natura giuridica dell’istituto in questione, muove in primo luogo dalla necessità di definire la portata del concetto di interesse sociale, sulla definizione del quale «la dottrina scorge il problema fondamentale della S.p.A. [e il cui studio] rappresenta la ricerca dei principi essenziali dell’istituto visto sotto il suo aspetto dinamico-funzionale» (P. G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964). Per offrire una soluzione alla questione occorre analizzare le diverse teorie dell’interesse sociale. Data la complessità della questione, si può fare innanzitutto riferimento alla nozione di interesse, per la quale richiamiamo una pagina di autorevole dottrina:

Per interesse intendiamo la relazione tra un soggetto, cui fa capo un bisogno, ed il bene idoneo a soddisfare tale bisogno, determinata nella previsione generale ed astratta di una norma». (P. G. Jaeger, op. cit.).

Dal lato di fatti conguagliabili con le norme, l’interesse costituirebbe proprio la relazione tra un soggetto, il suo bisogno ed il bene che lo soddisfa. Ciò considerato, a livello classificatorio le dottrine dell’interesse sociale si distinguono in due macro correnti: da una lato, si hanno le teorie istituzionaliste, che guardano alla S.p.A. come un ente giuridico; dall’altro, le teorie contrattualiste, che invece qualificano l’istituto come un contratto fra soci. Le teorie istituzionaliste nascono nella Germania del primo dopoguerra: la teoria dell’Unternehemen an sich («teoria dell’impresa in sé») ne è una prima manifestazione. Partendo da un’accentuata impostazione pubblicistica dei problemi della S.p.a., vista come la forma giuridica tipica della grande impresa, questa comprenderebbe altri interessi oltre a quelli dei soci: quelli dei lavoratori e dei dipendenti, dei consumatori e dell’interesse collettivo nazionale. La teoria risente dell’influenza statalista e gerarchicamente orientata tipica del periodo nazionalsocialista. Ne risulta quindi una visione della S.p.a. quale ingranaggio all’interno dell’economia collettiva del paese. L’interesse della società sarebbe quindi un interesse proprio, autonomo e indipendente da quelli di coloro che vi partecipano, incapace di essere orientato semplicemente dalla scelta del socio di maggioranza.

Da questa prima teoria istituzionalista, molto criticata per la difficoltà di attribuire un interesse ad organismo immateriale quale l’impresa, si passa ad una seconda, definita teoria della Person in sich («persona in sé»). In questo caso, si attribuisce alla Società per Azioni un’autonoma personalità giuridica che permette di riconoscerle un interesse, anche in questo caso autonomo rispetto a quello dei soci, escludendo tuttavia – al contrario della prima teoria – la rilevanza degli interessi dei terzi. Anche qui permane la preclusione al socio dell’esercizio di un voto per il perseguimento di propri obiettivi, che non si controbilancino con l’interesse autonomo della società.

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale prende corpo una terza visione conclusiva, definita teoria del Lebender Organismus («organismo vivente»). Come nella prima, anche in questo caso l’interesse della società è composto da soggetti ulteriori rispetto ai soci: quello dei creditori e quello dei dipendenti. Tuttavia se ne discosta per l’eliminazione dei profili prettamente “statalisti”: ciò non deve sorprendere nella misura in cui si assiste al progressivo abbandono dell’interesse nazionale pervasivo tipico del periodo nazionalsocialista. Di questa riscoperta della sfera privata dell’individuo, ne risente dunque anche la teoria in questione. Si comincia per questo ad accogliere la possibilità per il socio di votare per perseguire un interesse personale, mantenendo tuttavia il divieto di votare mirando all’ottenimento esclusivo di un gesellschaftsfremde Interessen («interesse extrasociale») in contrasto con quello della società stessa. In questo modo il socio rimane comunque obbligato a tenere conto dell’interesse della società ed agire in conformità alle guten Sitten: non dovrebbe cioè agire in mala fede.

Per quel che concerne invece le teorie contrattualiste, queste si basano sul fondamentale presupposto che l’interesse della società è costituito dall’interesse del gruppo dei soci. Il contratto di società non creerebbe un ente autonomo rispetto ai soci, con un interesse quindi composito e diverso dal loro: venendo meno l’attenzione ai soggetti esterni alla società (es. i lavoratori, i creditori ecc.) l’interesse sociale che ne risulta è in senso stretto limitato a quello del gruppo dei soci, definendosi interesse collettivo del gruppo.

Introdotte le dottrine che compongono il quadro del dibattito, il punto rilevante sta nella loro traduzione in termini pratici. Ci si chiede infatti se l’interesse sociale sia capace o meno di orientare il voto dei soci e le risposte non possono che essere ovviamente differenti a seconda che si aderisca all’una o all’altra teoria. Infatti, soltanto se si accolgono le teorie istituzionaliste, sia pure nelle loro diverse forme, si affermerebbe per il socio un dovere di perseguire con il proprio voto un obiettivo favorevole all’impresa in sé. In questo caso il voto in assemblea dovrebbe tendere a soddisfare un interesse più ampio di quello dei soci, che tiene conto anche dei creditori, dei lavoratori e degli interessi pubblici. Il voto sarebbe concepito in definitiva come un diritto-funzione. Al contrario, se il nostro ordinamento accogliesse una visione contrattualista della S.p.A., il socio potrebbe votare in assemblea considerando i suoi soli ed unici scopi, non solo agendo a prescindere dagli interessi altrui in maniera neutrale, ma anche potendosi porre in contrasto aperto rispetto ad essi. Fornito il contesto teorico nelle sue linee essenziali, si potrà passare nella seconda parte dell’articolo ad un’analisi tecnica di come sia stato affrontato il problema nel nostro ordinamento, con il riferimento specifico alle norme coinvolte.

Per saperne di più

Per un’analisi sistematica delle teorie contrattualiste o istituzionaliste si veda P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Giuffrè, Milano, 1964. Sui rilievi che le teorie comportano nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 2373 c.c. si vedano poi: A. Gambino, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni (abuso di potere nel procedimento assembleare), Giuffrè, Milano, 1987; A. Maisano, L’eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Giuffrè, Milano, 1968; D. Preite, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Giuffrè, Milano, 1992.

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