Veniamo ora al nostro ordinamento. La dottrina italiana, al contrario di quella tedesca, risulta pressoché unanime nell’accogliere la concezione contrattualista della S.p.A., la quale troverebbe un sicuro fondamento nell’art. 2247 c. c., che per l’appunto menziona l’esistenza di un contratto tra i soci. Sulla base di questa norma non sembrerebbero esserci dubbi: la Società per Azioni è un contratto e ciò comporta, almeno in teoria, la non suscettibilità del voto di essere orientato in funzione di un autonomo interesse della società – come invece accade nelle teorie istituzionaliste – e di conseguenza, una libertà del singolo socio di perseguire i  propri interesse personali, mediante un diritto di voto de-funzionalizzato, non vincolato da oneri di sorta, purché il socio agisca nella neutralità o comunque non contro l’interesse della società stessa. Nonostante questa presa di posizione forte, la stessa dottrina che accoglie la visione contrattualista sembra poi porsi in contraddizione rispetto alle sue premesse per così dire liberiste, interrogandosi sulle modalità con cui limitare eventuali abusi a danno della minoranza perpetrati mediante l’esercizio del voto assembleare.

La strada per questo obiettivo è tutt’altro che agevole. Un limite per la tutela della minoranza societaria deve potersi fondare su una norma, che tuttavia si fatica a trovare nel nostro sistema. Si osserva infatti come le norme relative alla nullità (art. 2379 c. c.) e all’annullabilità (art. 2377 c. c.) della delibera assembleare non costituiscono un’adeguata tutela per i soci di minoranza, dato che questi possono essere pregiudicati anche da deliberazioni in cui l’interesse sociale viene perseguito (si veda A. Gambino, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987).  Un esempio pratico contribuirà a chiarire: si immagini una delibera assembleare che approvi l’aumento del capitale sociale a pagamento, e lo faccia segretamente al solo scopo di escludere dalla società quei soci di minoranza che non hanno le finanze per sottoscrivere la nuova porzione di capitale, esercitando il diritto di opzione. Ora, tale delibera non potrebbe essere annullata sulla base dei dispositivi sopra menzionati in quanto gli ambiti di applicazione delle norme che si riferiscono a nullità e annullabilità non contemplano il caso di delibere che avvengono nel rispetto dell’interesse (almeno astrattamente) della società, interesse che in ultima istanza coinciderebbe con la sanità del suo patrimonio. Detto in modo più semplice, siccome una delibera di aumento del capitale sociale a pagamento non può nuocere il patrimonio della società, questa non è annullabile per il tramite dei dispositivi che dettano la disciplina generale di nullità e annullabilità.

Nascono così una serie di problemi relativi alla tutela delle minoranze assembleari, sintetizzabili in due momenti: quello dell’an, relativo al se tutelare le minoranze; quello successivo del quomodo, relativo al come eventualmente tutelarle. Nel tentativo di dirimere la questione, il pensiero della dottrina italiana sul tema si può riassumere in tre posizioni.

Una prima è relativa a quelli che potrebbero essere definiti contrattualisti puri. Secondo questa impostazione, la S.p.a. permette e legittima il socio a compiere una autonoma valutazione degli interessi liberamente perseguibili mediante lo sfruttamento dello schema societario; da ciò discende che nessuna tutela deve essere ideata per arginare dei comportamenti “abusivi”, in quanto nessun comportamento può essere qualificato come tale. Rimane fermo il solo vincolo di non arrecare un danno patrimoniale alla società. Risulta dunque precluso ogni sindacato dell’autorità giudiziaria sul merito delle deliberazioni assembleari, cioè sulla convenienza e sull’opportunità delle decisioni della maggioranza; a bene vedere infatti,  la ratio che spinge la dottrina italiana ad aderire alla teoria contrattualista, si fonda proprio sull’esigenza di temperare l’eventualità che il giudice possa discrezionalmente individuare un interesse sociale astratto, per poi apprezzare la conformità delle azioni dei soci in relazione ad esso.

Una seconda posizione, forse quella più contraddittoria rispetto alle premesse contrattualiste, come si dirà nelle conclusioni, è quella che ammette la possibilità di arginare il comportamento del socio di maggioranza sopra descritto, mediante un’applicazione estensiva della norma di cui all’art. 2373 c.c., e prende il nome di teoria dell’eccesso o abuso di potere. Al fine di comprendere tale impostazione, risulta necessaria una spiegazione sommaria di quanto indicato nella fattispecie (per un’analisi dettagliata della norma si veda P. Rescigno, Commentario al Codice civile, Milano, 2018). L’art. 2373, 1° comma c. c. prende in considerazione il caso della deliberazione assunta con il voto del socio che ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società. Se il socio non si astiene dal voto, la deliberazione è impugnabile (ex art. 2277 c. c.) in presenza di due elementi: a) che la deliberazione possa arrecare danno alla società nella forma del pericolo di danno (cd. danno potenziale); b) che il voto del socio in conflitto di interessi sia stato fondamentale per il raggiungimento della maggioranza (cd. prova di resistenza). Il socio deve aver dunque sacrificato l’interesse sociale a quello personale perché si produca l’annullabilità. Come si diceva, gli autori che si rifanno a questa impostazione desumono dalla norma ex art. 2373 c.c. il principio generale secondo cui il diritto di voto non può essere esercitato validamente dal socio per realizzare interessi particolari, estranei alla causa del contratto di società, poiché è configurabile l’esistenza di un interesse sociale composito, radicalmente distinto da quello particolare dei soci uti singuli. Per avallare tale impostazione, la dottrina si riferisce ad alcune pronunce giudiziali di annullamento di «deliberazione di aumento di capitale, [che] se tendente a ledere gravemente, manifestamente ed intenzionalmente la posizione di uno o più soci di minoranza, è annullabile per eccesso o abuso di potere, tale per cui l’agire della maggioranza si configura come un abuso (In questo senso A. Gambino, op. cit., con riferimento a Cass. n. 818 del 1979).

Ora, come si è anticipato, questa seconda teoria ritiene legittima un’applicazione estensiva della norma sul conflitto di interessi anche laddove la delibera non sia adottata a danno del patrimonio della società, bensì a danno della sola minoranza, come nell’esempio della delibera di aumento del capitale sociale. Come afferma lucidamente la dottrina questa impostazione non merita di essere accolta. Per dimostrare la posizione contraria infatti si può procedere con la ricognizione di due ordini di motivi. Il primo motivo viene messo in luce da F. Galgano, (Manuale di diritto privato, Cedam, Padova, 2017) e verte su un confronto con la norma corrispettiva all’interno dell’ordinamento tedesco, la quale può essere menzionata al fine di comprendere una profonda differenza rispetto il nostro sistema. La norma in questione è quella della § 243 della legge azionaria, che dopo aver stabilito che «le deliberazioni dell’assemblea sono impugnabili per violazione della legge o dell’atto costitutivo», aggiunge:

L’impugnazione può anche venire fondata sul fatto che un azionista abbia cercato con l’esercizio del diritto di voto di ottenere per sé o per un terzo, vantaggi particolari a danno della società o degli altri azionisti, ove la deliberazione sia idonea alla realizzazione di tale scopo» (traduzione in F. Galgano, op. cit.).

Il legislatore tedesco ha inteso fare espresso riferimento non solo al danno potenziale contro la società, ma anche contro i singoli soci che ne fanno parte. Questo dimostra come nel nostro ordinamento, il richiamo al solo e generico interesse della società mostrerebbe come evidente il fatto che il legislatore, qualora avesse voluto, avrebbe inserito il riferimento anche ai soci della minoranza proprio come accade in Germania. Dal momento che ciò non accade, sarebbe evidente l’intenzione di limitare l’applicazione della norma sul conflitto di interessi ai soli fini della tutela del patrimonio sociale, non anche della minoranza. Il secondo motivo per cui questa impostazione rimane non condivisibile viene spiegato invece da G. Campobasso (Manuale di diritto commerciale, Vol. 2, Torino, 2018): la norma stessa sul conflitto di interessi dimostrerebbe che il diritto di voto non può essere concepito come un diritto-funzione da esercitarsi per il perseguimento di un interesse sociale predeterminato. Si noti infatti come la norma non vieta al socio – anche se in conflitto di interessi – di votare e di perseguire con la delibera un proprio interesse personale: non basta la posizione in conflitto, ma occorre anche il danno potenziale e la necessità del voto per il raggiungimento della maggioranza. Cosicché, pur in presenza di un interesse personale ed extrasociale del socio, la delibera non è annullabile in re ipsa, occorrendo anche gli altri due elementi. In conclusione, sarebbe possibile desumere dalla stessa norma sul conflitto di interessi il carattere libero e non funzionalizzato del diritto di voto del socio della società per azioni.

Infine, una terza via, riconducibile per lo più a A. Gambino (ma anche a  C. Angelici, La società per azioni, Principi e problemi, in Trattato Cicu-Messineo, 2012), è quella in cui si ammette da un lato la necessità di una censura relativamente ai comportamenti abusivi della maggioranza, ma al contempo si prendono le distanze dall’applicazione dell’art. 2373 c.c., facendo invece riferimento ai canoni generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) o il più generale principio di correttezza nel procedimento deliberativo, prevenendo così l’annullabilità della delibera quando la stessa si sia ispirata al solo scopo di danneggiare i singoli soci (in questo modo Cass. n. 2009 del 2016; e prima Cass. n. 11151 del 1995). Il richiamo alla disciplina del contratto in generale non è casuale: concepire la società per azioni come un istituto che si costituisce e si regola mediante un contratto tra privati, consente un utilizzo delle clausole generali come buona fede e correttezza per la risoluzione delle patologie di un rapporto che è essenzialmente di tipo contrattuale. Queste conclusioni permettono di tutelare le minoranze dagli abusi, in armonia con le premesse fondamentali della teoria contrattualista.

Avviandoci a concludere, si può affermare come da un lato una visone istituzionalista – come accade in Germania – permette di far discendere espressamente dalla norma sul conflitto di interessi anche una tutela per le minoranze, in quanto è concepibile un interesse autonomo della società.  Dall’altro, da una visione contrattualista pura, dovrebbe sempre discendere la possibilità per il singolo socio di perseguire un proprio interesse personale anche extrasociale. Per tale motivo un’applicazione della norma sul conflitto di interessi, eccedente i casi in cui l’interesse extrasociale è contrario all’interesse della società, risulta contraddittorio rispetto alle premesse della visione contrattualista stessa, cui comunque gli autori della teoria dell’eccesso di potere aderiscono. Da ciò consegue che l’applicazione estensiva dell’art. 2373 c. c. rischia di risolversi in una contaminazione istituzionalista di una posizione contrattualista, con tutte le problematiche connesse all’ambiguità terminologica del concetto di interesse sociale.  Dall’altro lato la terza impostazione, oltre ad essere quella da un punto di vista dogmatico più corretta, è anche quella più coerente con i presupposti della teoria dell’interesse sociale contrattualista da cui muove i suoi passi. Ferma restando l’importanza dell’assunzione di una posizione chiara da parte del legislatore circa la portata del concetto di interesse sociale, le soluzioni coerenti al problema sono due: da un lato l’adesione ad una visone istituzionalista pura ispirata al modello tedesco; alternativamente l’adesione alla visione contrattualista che rifiuta l’applicazione estensiva dell’art. 2373 c. c.

Per saperne di più

Per un’analisi sistematica delle teorie contrattualiste o istituzionaliste si veda P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Giuffrè, Milano, 1964. Sui rilievi che le teorie comportano nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 2373 c.c. si vedano poi: A. Gambino, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni (abuso di potere nel procedimento assembleare), Giuffrè, Milano, 1987; A. Maisano, L’eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Giuffrè, Milano, 1968; D. Preite, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Giuffrè, Milano, 1992.

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