Fin dal periodo formativo dell’Islam (VII-XI sec. d.C.), il mondo occidentale ha percepito l’universo Islamico come un qualcosa di antitetico rispetto alla Res Pubblica Christiana e, in seguito, agli Stati Nazionali. Tuttavia, come dimostra il fatto che il kosmos Islamico abbia in parte ridefinito la propria identità basandosi sull’antitesi del modus vivendi occidentale, questa contrapposizione valoriale, ideologica, dottrinale e quindi di modelli non si può considerare unidirezionale. Questa forma estrema di rifiuto, che porta alla definizione di sé sulla base della negazione dell’altro, altro non è che un’iperbole causata da una generale disinformazione e conseguente polarizzazione delle tensioni socio-culturali, il cui maggiore punto di scontro è sicuramente la “legge islamica”, cioè la Sharia. Infatti, seppur la Sharia nella visione stereotipata occidentale sembra diametralmente opposta a tutti i principi liberal democratici su cui l’ordinamento statale occidentale è basato, un’analisi più approfondita sul concetto di Islamic law nel Sunnismo può destrutturare tali ideologie per poi scoprire che può presentare dei tratti funzionali agli apparati statali.
Con il termine Sharia si intende “un luogo irrigato, un sentiero verso l’acqua, un dono di Dio, una strada donatrice di vita”. Di conseguenza, la Sharia non viene percepita dal credente musulmano come un’imposizione esterna ma come qualcosa proveniente dall’intimo dell’individuo. Idealmente infatti, ogni passo della vita di tutti i giorni dovrebbe essere determinato dalle direttive della Sharia, in quanto essa riguarda tutti i doveri dei musulmani, sia quotidiani che religiosi. Ma se la Sharia è un insieme di indicazioni di natura prettamente spirituale, il mondo islamico si può dire effettivamente in possesso di un corpus giuridico più “concreto” a cui fare riferimento per quanto riguarda sia l’amministrazione statale che le interazioni tra gli individui?
La risposta a questa domanda si trova nel Fiqh, un concetto utilizzato sempre in ambito giuridico, ma con un’accezione diversa rispetto alla Sharia. Il significato puramente coranico del termine Fiqh è “discernimento” o “comprensione” che si è poi sintetizzato nell’idea di espressione normativa a partire dallo studio della metodologia e dei principi presentati dalle fonti di diritto. Perciò, con questo termine si indica il processo di discernimento dei precetti espressi nel Corano e la successiva traduzione in norme dal valore giuridico, non solo spirituale, che assumono quindi un effetto vincolante. In breve, il Fiqh è ciò a cui si fa riferimento nel mondo occidentale quando in modo fuorviante si cerca di individuare una sorta di corpus positivistico di leggi islamiche.
Bisogna notare, a questo punto, che la definizione di Fiqh non si basa solo sull’estrapolazione dal Corano, ma prevede la liceità di altre fonti. Perciò, al fine di delineare un sistema estremamente complesso, le fonti di diritto alla base del Fiqh possono essere riassunte riferendosi al Corano, alla Sunnah, agli Hadith, ai costumi e ad alcune specifiche tecniche interpretative, come la creazione di norme per analogia o per consenso comunitario. Naturalmente, se il Corano non necessita di presentazione, sarà bene spendere due parole sulle altre sources of law. In breve, per Sunnah si intende una sorta di biografia della vita del Profeta Maometto che riporta le sue azioni e le tradizioni da lui avviate con l’esplicito fine di far conoscere alla comunità dei credenti la umma, il modello perfetto di condotta. Gli Hadith sono anch’essi strettamente collegati alla vita del profeta e si possono intendere come dei report delle sue azioni, classificati in base alla credibilità. Infine, questo complesso sistema di creazione del diritto sulla base dell’interpretazione di testi comprende, anche se in misura minoritaria, l’introduzione di pratiche costumarie presenti sia nell’Arabia preislamica che nel Medioriente musulmano e l’affidamento su tecniche interpretative. Queste ultime sono molteplici e il privilegiare l’utilizzo di alcune a discapito di altre si può dire alla base dell’enorme particolarismo giuridico che caratterizza il mondo Sunnita.
Infatti, questo complesso sistema di fonti alla base della creazione della norma di diritto prevede un enorme lavoro interpretativo che storicamente non si è sempre tradotto in un processo lineare e concorde. Sulle tecniche interpretative delle fonti di diritto, infatti, già dal periodo formativo dell’Islam, è possibile individuare un dibattito teorico che porterà, all’interno dell’universo Sunnita, alla creazione di quattro diverse scuole giuridiche islamiche – dette madhahib, basate su diversi gradi di affidamento sulle tecniche interpretative. Queste scuole, ancora in auge oggi, sono: l’Hanafita, la Malikita, la Shafiita e l’Hanbalita.
La prima scuola in ordine cronologico è quella di Abū Ḥanīfa al-Nuʿmān. Questa madhhab prevede un preponderante uso del ragionamento individuale, del ragionamento analogico e dell’approvazione comunitaria nell’elaborazione di norme. La scuola Hanafita è ancora oggi principalmente diffusa nel subcontinente Indiano, in Asia Centrale, in Afghanistan e nel resto dell’ex-impero ottomano, rendendola, con il 30% di Sunniti aderenti ai suoi precetti, la scuola giuridica di maggiore importanza. Invece, per quanto riguarda i paesi del Magreb e della penisola arabica, la scuola più diffusa è quella Malikita, che essendo nata a Medina, attribuisce maggiore importanza ai precetti elaborati dal profeta dopo l’egira – la fuga da La Mecca e l’arrivo a Medina del profeta – riservando perciò più attenzione alla Sunna. La terza scuola in ordine di creazione è quella Shafitta che nasce dal tentativo di conciliare le scienze interpretative più speculative e quelle più aderenti alla tradizione ed è diffusa principalmente in Indonesia, Africa Orientale e Arabia Meridionale. L’ultima scuola, invece, è quella fondata da Ahmad Ibn Hanbal che agisce in una Baghdad del IX secolo così fortemente scossa da una crisi religiosa tanto da portarlo a sostenere il ritorno intransigente e senza compromessi alle origini, ossia il Corano e la Sunnah. Quest’ultima scuola è infatti diffusa in aree geografiche storicamente caratterizzate da un approccio più rigido verso le norme, ossia l’Arabia Saudita e piccole parti della penisola arabica e del golfo persico.
Perciò, il quadro di ciò che in occidente viene in modo semplicistico chiamato con l’appellativo di Sharia e che quindi comprende tutte le varie fonti di diritto elencate, è estremamente complesso. Logicamente, tale complessità comporta l'instaurarsi di relazioni complesse con gli enti, siano essi individui, stati o organizzazioni, che la Sharia incontra sul proprio cammino. Inoltre, una multistratificazione come quella alla base del mondo Sunnita chiarisce la difficoltà nel fornire una definizione unitaria ed esaustiva del diritto Islamico e quindi nel provare a stabilire che relazione esso intrattenga con gli apparati statali sia mediorientali che occidentali, basati, a causa del worldwide export del modello liberal democratico, su una concezione prettamente positivistica del diritto.
Nonostante ciò, l’attuale relazione tra stato nazionale e Islamic law non presenta solo criticità, ma anzi, potrebbe aiutarci a guardare sotto rinnovata luce il ruolo della legge statale. Non è un segreto, infatti, che sotto le spinte della globalizzazione economica e dell’internazionalizzazione delle strutture di governance (es. ONU, EU, WTO, etc.), un ripensamento, o per lo meno una riconsiderazione, dell’ordine statale, sia necessario. Il vecchio modello di sovranità nazionale, infatti, è basato su una percezione del potere propria dell’età moderna e delle correnti filosofiche del giusnaturalismo e dell’illuminismo. In questo modello, che ci ha accompagnati fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lo stato e le sue ramificazioni amministrative sono l’unico ente che può avvalersi del legittimo esercizio del potere su soggetti appartenenti ad un ben definito territorio. È facile quindi comprendere come la globalizzazione economica e l’internazionalizzazione delle strutture di governance mettano in crisi la concezione tradizionale di stato nazionale che viene minacciata sia in quanto non più unico ente in possesso della sovranità (si pensi ad esempio al caso dell’Unione Europea in cui stati nazionali e sovrani rinunciano a legiferare a livello nazionale su particolari questioni a fare di un processo legislativo transnazionale), sia data la perdita di stabile appartenenza di individui ad un preciso territorio (si pensi al concetto di cittadinanza europea, migrazioni commerciali, etc).
Ma cosa hanno a che fare diritto Islamico e crisi dello stato liberal democratico? La risposta sta nel vero e proprio assetto composito del panorama Sunnita. Infatti, il mondo Sunnita, e quindi Islamico, data la convivenza di ben quattro scuole giuridiche diverse, equamente praticabili e con eguali possibilità di regolare la vita di un individuo sulle basi di una scelta personale, presenta un concetto che, seppur appartenente all’assetto giuridico medievale, è totalmente estraneo alla percezione occidentale del diritto: il meccanismo della personal law. Per personal law si intende una legge applicabile ad un individuo particolare o una specifica classe di persone a prescindere dal territorio – distinta quindi dalla legge del territorio, e quindi un concetto di norma non strettamente collegato alla territorialità, come invece proposto dal positivismo liberal democratico.
Il concetto di applicazione personale del diritto, cioè la personal law, è alla base della percezione della legge da parte dei giuristi islamici. I dotti della legge islamica, infatti, sono i primi a promuovere un costante dialogo tra le scuole e ad incoraggiare gli individui ad avvalersi di norme di diversi madhahib al fine di sopperire a degli ipotetici vuoti normativi della scuola di appartenenza originaria. Inoltre, in caso di conflitto tra due individui aderenti a due scuole giuridiche diverse, la tanto annosa questione riguardo quale ordine legale applicare, propria dei sistemi nazionali occidentali, viene risolta permettendo ad entrambi gli individui di fare fede al proprio modello di riferimento e al giudice di pronunciare una sentenza basata sulla mediazione delle norme delle diverse scuole.
In conclusione, questo sistema di pluralismo legale basato sul concetto di personal law sembra essere estremamente rilevante nel nuovo contesto di esercizio del diritto delle democrazie liberali fortemente scosse dalle odierne spinte globalizzanti. Infatti, l’assetto statale che il mondo occidentale ha ereditato dall’età moderna e che ora richiede delle manovre radicali, è basato, come già sottolineato in precedenza, sui concetti di liberalismo, egualitarismo e quindi di produzione positiva del diritto. Conseguentemente, dato che la conditio sine qua non del positivismo legale è il poter identificare un’istituzione legittima – generalmente lo stato – che produca norme applicabili a tutti i sottoposti a tale istituzione inseriti in un determinato territorio e dato che le spinte alla globalizzazione minacciano la fattualità di questi presupposti, l’applicazione personale del diritto, così come avviene nell’Islam, potrebbe essere una valida risposta ai problemi statali. In breve quindi, ciò che è importante sottolineare è come un assetto di pluralismo legale possa, almeno fino ad un certo punto, aiutare i “vecchi” stati nazionali e reggere il peso della globalizzazione e come in questo processo sia importante riconoscere la centralità di quell’assetto giuridico che il cristianesimo prima e il liberalismo poi hanno considerato antitetico rispetto a quello occidentale: ossia, il sistema retto sull’Islamic law.
Per saperne di più:
Naturalmente, l’articolo ha solo sfiorato temi di estrema importanza in un mondo sempre più globale ed interconnesso che deve fare i conti con un’eredità coloniale ed imperialista basata su pregiudizi, stereotipi e ideologie che vogliono i sistemi altri da quello occidentale come antitetici al paradigma liberale basato sui diritti umani o addirittura come non affidabili o funzionanti. In questo contesto, e specialmente dopo l’11 settembre, è necessario compiere uno sforzo comparativo e decostruire i pregiudizi che circolano riguardo al mondo Islamico e in particolar modo riguardo questa fantomatica Sharia , spesso demonizzata dei media occidentali ed additata come base legittimante del terrorismo. Per fare ciò si consiglia la lettura di due testi fondamentali per la comprensione dell’Islam: il primo è il testo di Carole Hillenbrand, edito nel 2015, dal titolo Islam: una nuova introduzione storica e il manuale di Giovanni Filoramo Islam del 1999, in particolar modo il capitolo di Alessandro Ventura titolato L’Islam Sunnita nel periodo classico . Inoltre, se si è interessati ad approcciarsi ad uno studio sistematico della crisi dello stato liberale e i possibili risvolti del pluralismo legale, si consiglia la lettura dell’articolo di Merry del 1988 Legal pluralism. The Globalization of International Law .