Javier Alcalde è professore in diverse università (Universitat Autònoma de Barcelona, Universitat Oberta de Catalunya, Tolouse Business School). Ha studiato scienze politiche nella sua città di origine, Barcellona, e si è specializzato in scienze sociali presso l’Instituto Carlos III-Juan March di Madrid. Nel 2009 ha conseguito il dottorato a Firenze, presso lo European University Institute. Il suo lavoro di tesi si è incentrato sul ruolo del movimento pacifista transnazionale nell’ottenimento di trattati per il disarmo. Successivamente, ha ricoperto il ruolo di ricercatore presso l’International Catalan Institute for Peace, ha partecipato attivamente in discussioni sul controllo delle armi all’interno delle Nazioni Unite ed ha indagato il rapporto tra esperanto e pacifismo. Fa parte del Centre on Social Movement Studies (COSMOS), che fa capo al dislocamento fiorentino della Scuola Normale Superiore.

L’intervista si è originariamente tenuta in esperanto ed è stata tradotta in lingua italiana dall’autorə, secondo le norme dell’italiano inclusivo.

Alessio Sacha Giordano: Gentile prof. Alcalde, grazie per aver accettato di partecipare a questa intervista. Tra i tuoi campi di ricerca figura l’esperanto, indagato però come movimento sociale. Come ti sei interessato al movimento esperantista?

Javier Alcalde: Il mio approccio all’esperanto è avvenuto in maniera del tutto naturale, grazie alla conoscenza della sociologia dei movimenti sociali, più o meno come è capitato a Peter G. Forster (autore di The Esperanto Movement, de Gruyter, Munich 1982) e Roberto Garvía (autore di Esperanto and Its Rivals: The Struggle for an International Language, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2015). In breve, la comunità dellз parlanti esperanto forma un movimento sociale, esattamente come il movimento femminista o quello ecologista. Tutti questi movimenti rappresentano diversi (e complementari) tentativi di trasformazione mirati alla creazione di un mondo altro, che, a parer loro, è possibile.

A.S.G.: Quali particolarità contraddistinguono lз esperantistз da un punto di vista sociologico?

J.A.: Per entrare a far parte del movimento esperantista non basta essere presenti durante le manifestazioni: si deve imparare una lingua. Perciò è possibile incontrare persone creative, capaci di portare a termine iniziative che richiedono un grande impegno personale. In secondo luogo, si tratta di attivistз emarginatз dalle logiche egemoniche e abituatз a difficili relazioni con chi è al potere. Dalla censura zarista al tempo di Tolstoj fino alle liste nere del maccartismo nordamericano, passando per i tentativi di sterminio messi in atto da Hitler e Stalin, la storia degli attacchi contro lз esperantistз ha provocato in questз una maggiore robustezza. Di conseguenza, non è incomune una straordinaria fiducia in se stessз, come se si preoccupassero ben poco delle opinioni altrui. Un terzo punto: quello esperantista è un movimento trasversale, la cui eterogeneità fa sì che i suoi membri possano incontrarsi con altrз attivistз sociali. In altre parole, è difficile trovare unǝ esperantista che non difenda un’altra nobile causa, conosciuta il più delle volte proprio grazie all’esperanto. Quarto, l’esperantista tipo non ha imparato la lingua per migliorare la propria posizione lavorativa. Il motivo spesso si lega a un certo tipo di idealismo, che, a differenza di un’utopia irraggiungibile, lǝi si impegna a costruire giorno dopo giorno. E infine spicca l’empatia per le discriminazioni linguistiche, poiché lз esperantistз hanno particolarmente a cuore la dimensione linguistica dei conflitti. In un volume di prossima pubblicazione, Esperantistas. Simiente de lucha, rifletto per l’appunto sulla dimensione storica di questi elementi.

A.S.G.: Sembra che tutti i tratti da te elencati abbiano una connotazione positiva.

J.A.: In effetti, c’è anche l’altro lato della medaglia. Ad esempio, proprio a causa di questa volontà di agire, a volte i progetti dipendono a tal punto da un solo individuo di enorme talento, che la sua possibile sostituzione rischia il totale collasso del progetto. Ecco alcuni esempi: Vilhelmo Lutermano ha animato il MAS (Monda Asembleo Socia) fin dalle sue origini nel 2005, Rogener Pavinski è redattore della rivista Kontakto dal 2010, Vinko Markovo è presidente di SAT (Sennacieca Asocio Tutmonda) dal 2012, Bernhard Tuider è a capo dell’Esperantomuzeo e della Kolekto por Planlingvoj di Vienna dal 2013, Claude Gacond gestisce il Centre de documentation et d'étude sur la langue internationale da decenni, ecc. Si può dire di essere fortunatз ad avere dellз attivistз così competenti e capaci, ma quali sono i piani per il futuro? In tal senso, il sistema di equipé di Beletra Almanako e la struttura quasi-federale di Monato possono ispirare dei modelli possibili e duraturi. Trovare un equilibrio non è facile.

A.S.G: Se si parla di struttura federale, forse l’esempio più opportuno viene dalla Esperanta Civito. Cosa ne pensi del concetto di “popolo esperantiano”?

J.A.: Da un punto di vista filosofico, si tratta di un’idea molto interessante. Le prime volte che ho riflettuto sulla questione ne sono rimasto affascinato. E sono consapevole che storicamente esistono diversз esperantistз di rilievo che hanno usato espressioni simili nelle loro opere. Tuttavia, forse per deformazione professionale, quando ho studiato più nel dettaglio la questione sono arrivato alla conclusione che fosse più utile analizzare lз esperantistз come movimento sociale. La mia opinione è che questo approccio ci permette di comprendere il loro ruolo rispetto ad altre lotte sociali. Inoltre, mi pare che attraverso la lingua internazionale sia possibile un dialogo interetnico [interpopola nell’originale, ndr].

A.S.G.: È possibile che il tuo contributo al progresso dell’esperanto sia ascrivibile in ultima istanza alla tua attività scientifica?

J.A.: Non sono bravo con le poesie e non sono nato per guidare un’associazione, sebbene per cinque anni sia stato parte del direttivo dell’Associazione Esperantista Catalana. Mi impegno principalmente nel mostrare alla comunità scientifica che l’esperanto e il movimento esperantista sono importanti come discipline e validi oggetti di studio. Ad esempio, se mi capita l’occasione di partecipare ad una conferenza o in una miscellanea, mi sforzo di proporre un contributo sul rapporto tra esperanto e il tema trattato. Così ho avuto l’occasione di trattare del movimento esperantista in congressi internazionali di storia culturale, in un congresso europeo sull’utopia, e in un congresso italiano di politologia, ecc. Mi è capitato di scrivere a proposito delle traduzioni di Marx in esperanto, sulle relazioni tra esperanto e transumanesimo, e sull’esperanto durante la Prima Guerra Mondiale.

A.S.G.: Ecco, proprio in riferimento alla Prima Guerra Mondiale, qualche anno fa hai dato alle stampe il tuo libro Antaŭ unu jarcento. La granda milito kaj Esperanto [Un secolo fa. La Grande Guerra e l’esperanto, ndr], SAT-EFK, Paris 2018. Come hai iniziato ad occuparti di questo tema?

J.A.: Per il centenario della Prima Guerra Mondiale ci fu la possibilità di curare un numero speciale della rivista pubblicata dall’istituto di ricerca catalano per la pace. In forza di ciò, proposi a Ulrich Lins, principale storico del movimento esperantista, di redigere un articolo sull’esperanto. Scusandosi, mi risposte che gli era difficile comporre un testo su quel tema, così decisi di scrivere l’articolo io stesso. Da qui iniziò la mia ricerca; seguì una proposta dalla SAT per partecipare ad un progetto collettivo, e alla fine mi ritrovai come cocuratore di quel testo sull’esperanto e la Prima Guerra Mondiale. Tra l’altro, il volume contiene materiali d’archivio fino a quel momento non pubblicati, come il diario di un soldato inglese scritto originariamente in esperanto. L’introduzione fu poi pubblicata in inglese, dimostrando al di fuori della nostra nicchia culturale che è possibile (e doveroso) studiare l’esperanto in una prospettiva storica.

A.S.G.: Dopo le opere di Ziko van Dijk sull’UEA (Die neutrale Sprache. Eine politische Geschichte des Esperanto-Weltbundes, Skonpres, Bydgoszcz 2006; Historio de UEA [Storia dell’UEA, ndr], Espero, Partizánske 2012) e di Ulrich Lins sulla persecuzione dellз esperantistз (La danĝera lingvo. Studo pri la persekutoj kontraŭ esperanto [La lingua pericolosa. Studio sulle persecuzioni contro l’esperanto, pubblicato anche in italiano dalla casa editrice TraccEdizioni nel 1990, ndr], Progreso, Moskvo 1990), secondo te si può dire di conoscere abbastanza bene la storia del movimento?

J.A.: Certamente abbiamo scoperto cose interessanti grazie a quelle opere capitali, ma anche grazie ad altre. Tuttavia, c’è ancora molto da scoprire. A me interessa notevolmente la storia sociale dell’esperanto; in altre parole, non solo l’opera delle associazioni esperantiste, ma anche il ruolo dell’esperanto e dellз esperantistз nelle altre dimensioni della vita sociale. Ad esempio, ho indagato la persona di Silvio Gesell, riformista sociale ed economista tedesco, il quale, sebbene non fosse esperantista, propose di utilizzare la lingua in diversi contesti internazionali dopo la Prima Guerra Mondiale. Peraltro, sono stato eletto membro dell’Akademio de Esperanto proprio per lavorare su questo approccio, e in quest’ottica sono riuscito a far creare una commissione di storia sociale per diffondere i racconti di vita di persone di una certa fama che erano o sono anche esperantistз. Purtroppo, altri impegni impediscono di portare avanti questo progetto, ma spero che questa commissione sia capace di mostrare nel tempo qualcosa di interessante.

A.S.G.: Quando parli di storia sociale, fai riferimento anche alla storia del movimento operaio?

J.A.: La storia del movimento operaio è spesso misconosciuta. Vi sono diverse ragioni che giustificano tale oblio: lз storicз classicз appartengono alla borghesia, i gruppi proletari hanno conservato pochissime fonti, vengono investite scarse somme di denaro per questo tipo di studi, ecc. Inoltre, nella storia del movimento operaio, si è studiato meno l’anarchismo rispetto al comunismo, forse a causa dell’egemonia della storiografia marxista. Nel caso del movimento esperantista, alcune di queste tendenze si ripetono (ma non sempre, si pensi infatti alla situazione – ben studiata – dell’anarchismo esperantista in Giappone e Cina). In altre parti del mondo, tuttavia, ancora nessunǝ ha indagato sistematicamente questi fenomeni. Quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si è creata l’Internazionale Giovanile Anarchica a Tolosa, i suoi membri decisero di pubblicare il proprio organo informativo esclusivamente in esperanto. Questo evento appartiene forse alla storia del movimento esperantista? A quanto ho appreso, sarebbe parte della sua storia sociale. Quella gazzetta ha facilitato i rapporti tra anarchicз europeз e asiaticз, e ha permesso il contatto tra lз spagnolз esiliatз e le loro famiglie in Spagna. Su questi temi si può consultare il progetto di ricerca Militrakonto [Racconto di guerra, ndr]

A.S.G.: Si tratta di un approccio molto interessante all’esperanto.

J.A.: Ci sono molti approcci interessanti all’esperanto! Questo aspetto è stato ampiamente mostrato dal libro curato da Probal Dasgupta, Renato Corsetti e Christer Kiselman (Aliroj al esperanto [Approcci all’esperanto, ndr], Kava-Pech, Prago 2018). Tuttavia, sarebbe necessario un secondo volume per includere approcci non convenzionali, principalmente provenienti dalle scienze sociali. Dovrebbero contribuire non solo linguistз, ma anche storicз, sociologз, politologз, economistз, espertз di relazioni internazionali, antropologз, filosofз, ecc. Io stesso, nei corsi in cui insegno (Economia dell’Unione Europea, Geopolitica e Relazioni Internazionali, Teoria della Democrazia), sono solito trattare l’esperanto come oggetto di ricerca. Su questa esperienza di docenza ho scritto un articolo, pubblicato in Pedagogia Internacia Revuo [Rivista Internazionale di Pedagogia, ndr], con la speranza che altrз insegnanti e professorз siano ispiratз e si facciano coraggio a parlare di esperanto nei propri corsi. I possibili approcci sono davvero molti.

A.S.G.: Un altro approccio, ad esempio, viene dalla giustizia linguistica.

J.A.: Proprio così! Si tratta peraltro di uno dei più importanti, e il tema continua ad essere attuale. Non molto tempo fa, unǝ coredattorǝ del Journal of Contemporary History ha scritto su Twitter che la maggior parte dei manoscritti in lingua inglese ricevuti e non pubblicati presentavano lo stesso problema: linguisticamente, erano scritti male. Ho avuto la fortuna di partecipare a diversi dibattiti su questi temi, osservando purtroppo con amara ironia che si cerca senza sosta la soluzione più complicata e ricercata per combinare al tempo stesso giustizia ed efficacia... come se non esistesse una maniera più semplice per farlo. Ma la si conosce! Moltз dellз più importanti espertз sul tema, come François Grin, László Marácz e Robert Phillipson, sono notevolmente informatз sull’esperanto e sul suo potenziale, peraltro grazie al serio lavoro svolto da collegз come Michele Gazzola, Bengt-Arne Wickström, Mark Fettes, Humphrey Tonkin e Federico Gobbo.

A.S.G.: Questз intellettuali conoscono anche l’idea interna dell’esperanto?

J.A.: Di questo non sono certo. A volte una eccessiva enfasi sui vantaggi pratici dell’esperanto non comprende quell’aspetto chiave della lingua. Ultimamente, ho fatto notare un paradosso a La Ondo de Esperanto [L’onda dell’esperanto, rivista pubblicata in Russia, ndr]: mentre il numero dellз nuovз esperantistз che iniziano a studiare la lingua attraverso internet sta esponenzialmente aumentando, le associazioni ristagnano e affogano nei loro problemi, sì economici, ma non solo. Ho argomentato che soltanto se lз nuovз apprendenti inizieranno a considerare l’esperanto come tratto principale di un movimento sociale che mira al miglioramento del mondo, questз si faranno attivistз. Perciò occorre rimarcare con forza l’idea interna dell’esperanto; in altre parole, i valori dell’esperanto vengono prima della lingua stessa.

A.S.G.: Stai proponendo di valorizzare l’attività pratica dellз esperantistз?

J.A.: Già Hector Hodler, il primo presidente dell’Associazione Universale di Esperanto, parlava di un “internazionalismo pratico” in relazione all’esperanto. Continuo a credere che lз esperantistз più autenticз non siano solo individui che condividono una lingua, ma anche persone che condividono un’idea comune. Ovviamente, ciò non significa che tuttз la pensano ugualmente su tutto, ma sì che questз si interessano alle sfide proposte dal mondo esterno: è il caso dellз rifugiatз, della disuguaglianza, della discriminazione su più livelli, del cambiamento climatico, del riconoscimento dei diritti delle comunità LGBT+ e tanto altro. Lз esperantistз sono prontз a collaborare con altri movimenti sociali, senza dimenticare il notevole strumento linguistico a loro disposizione.

A.S.G.: Sei ottimista riguardo alle ricerche future sull’esperanto?

J.A.: Sto osservando un crescente interesse a livello universitario sul movimento esperantista. Ultimamente sono apparsi libri da tempo attesi, come quello di Brigid O’Keefe, professoressa presso il Brooklyn College di New York, sulla Russia rivoluzionaria (Esperanto and Languages of Internationalism in Revolutionary Russia, Bloomsbury, London 2021) e quello di Carolyn Biltoft, della Princeton University, sulla Società delle Nazioni (A Violent Peace: Media, Truth and Power at the League of Nations, University of Chicago Press, Chicago 2021), più nuovi contributi come quello di Camilla Peruch sul Primo Dopoguerra (La lingua neutrale. Una voce fuori dal coro per ricostruire l’Europa, Kellerman, Vittorio Veneto 2020) e quello di Marine Englert su Hector Hodler (Hector Hodler: Un engagement pacifiste / Pacifisma sinteno, Notari, Genève 2021). Spero inoltre di vedere presto in formato cartaceo la tesi di dottorato di Guilherme Fians (Of Revolutionaries and Geeks: Mediation, Space and Time among Esperanto Speakers, University of Manchester eTheses, 2019). È da rimarcare il nascere di nuovi centri di ricerca dedicati all’esperanto, come quello della St. Andrews University e altri. Io stesso nel maggio a venire terrò un corso di storia sociale dell’esperanto presso la scuola di dottorato dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Verosimilmente, questa visibilità nella scienza ha in qualche modo a che fare con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (ad esempio, si consideri la comparsa dell’esperanto in film come Captain Fantastic e L’incredibile storia dell’Isola delle Rose), nonché dei corsi online come quelli presenti in Duolingo. Ma l’ottimismo richiede azione. Se si semina, forse lз nipoti ne raccoglieranno i frutti [allusione al verso la nepoj vin benos, riferimento al poema “La vojo” di L.L. Zamenhof, ad indicare la consapevolezza, già agli albori del progetto linguistico, della necessità di attendere diverse generazioni affinché l’esperanto si faccia lingua internazionale, ndr].

Per saperne di più:

In lingua italiana si consiglia la lettura di questi testi e di altri contibuti dell'autorǝ su questo magazine.

Lins, Ulrich, La lingua pericolosa. Storia delle persecuzioni contro l'esperanto sotto Hitler e Stalin, TraccEdizioni, Torino 1990.

Tonkin, Humphrey, Una lingua e un popolo. Problemi attuali del movimento esperantista, Edizioni EVA, Venafro 2009.

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