Il filosofo francese Tristan Garcia ha osservato come quella di una vita intensa, con tutte le elettriche aspettative e gli ideali vitalisti che essa porta con sé, sia l'ossessione che contraddistingue l'uomo della civiltà moderna. Nulla di più lontano dai desideri e dalle prospettive del giovane Pietro Benati, protagonista di Randagi (Bollati Boringhieri, 2021) di Marco Amerighi. Avanzandone la candidatura per il Premio Strega, la scrittrice Silvia Ballestra lo ha descritto come «una storia in grado di cogliere l’essenza di un tempo e dei giovani che, impotenti e spaesati, lo hanno abitato». Muovendosi lungo la deriva di questo spaesamento, i randagi di Amerighi cercano di intravedere possibili vie di fuga da un mondo che non mantiene le promesse che fa, trovando forme di resistenza affettiva in rapporti e momenti di tenerezza radicale. Randagi è un libro intenso quasi suo malgrado così come lo è la vita del suo protagonista, una storia di apprendistato e fallimento in cui si (dis)impara sempre più dal secondo che dal primo.

Dopo Bacà e Desiati, Marco Amerighi è il terzo ospite della nostra rubrica L’ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del premio.

Biagio Mazzella: Prima domanda di rito: immagino sia un periodo un po’ intenso dopo l'annuncio della dozzina, come ti vivi la situazione?

Marco Amerighi: La situazione la vivo con la stessa ansia con cui vivo la vita di tutti i giorni. Mi sento come se mi fossi sparato troppi caffè, già dal momento in cui metto il piede giù dal letto percepisco una certa effervescenza. Sono però anche molto concentrato sul viverla serenamente, divertendomi e prendendomi quello che viene da questo strano carrozzone, ecco.

BM: Il tuo romanzo si apre con la maledizione dei Benati e mi ha fatto sorridere che, in una delle prime presentazioni, Sandro Veronesi l’abbia introdotto facendo riferimento a un’altra maledizione, ovvero quella del secondo libro, da cui a suo dire tu sei riuscito a scampare confermando le aspettative del tuo esordio Le nostre ore contate. Tu stesso hai raccontato di come non ci si senta scrittori dopo il primo libro perché ci si chiede se si hanno altre storie da raccontare: anche tu hai quindi sentito il timore di cadere in questa maledizione, e come hai fatto a uscirne trovandone un’altra che è stato poi l’innesco per questo secondo romanzo?

MA: Ho cercato la risposta nella letteratura e ho dato la mia risposta dentro la letteratura, con le pagine del mio libro. Quando si scrive il primo libro c’è la sensazione che ci si voglia liberare di qualcosa. Uso non a caso questo verbo perché “liberarsi”, “essere liberi” e la parola “libro” sono quanto di più vicino possa esistere: c’è quella vocale di mezzo e basta. Il primo libro serve per liberarsi, per dire “Ho alzato la voce. Io sono qui, sono questa cosa qua”, però è ancora molto poco: nonostante tutti i primi libri spesso accompagnano per tanto tempo chi li scrive, di fatto poi lasciano molto indecisi su come procedere. Io mi sono chiesto se fossi uno scrittore o se avessi tra le mie frecce soltanto quel libro lì.

Ho cercato una risposta dove la vado a cercare sempre, cioè nei libri. Sono tornato a studiare e a leggere una serie di testi apicali che sono la bussola del mio stare al mondo, come i grandi scrittori di primo Novecento toscano. Penso a Federigo Tozzi, ma anche a Romano Bilenchi, oppure nel momento della seconda guerra mondiale un autore monster per me come Vasco Pratolini, per certi versi anche il primo Cassola e Malaparte: sono tutti autori che si interrogano per esempio sul rapporto con la tradizione e con i genitori, spesso tormentato (quasi sempre con il padre), e in un certo senso hanno raccontato anche loro una forma di randagi.

La maledizione di cui parli è una maledizione che hanno tutti gli scrittori, è fondamentalmente quella di dover essere all’altezza delle proprie aspettative. La scrittura è un’opera di traduzione da un pensiero che, per quanto confuso, sta silenziosamente nella nostra testa e deve manifestarsi con un altro linguaggio, attraverso la parola. Qualunque scrittura è quindi destinata al fallimento, è impossibile arrivare a rendere quel pensiero iniziale che ci aveva portato a dire “Voglio scrivere questo libro”. Nonostante io sentissi su di me la maledizione al fallimento è come se avessi sentito che quegli autori c’erano passati e avevano tracciato una via: io potevo riprendere quella strada e aggiornarla per forme, per tematiche, per contenuti, però con un po’ meno paura e un po’ più di spirito di compagnia. Come se loro fossero lì e mi dicessero “Dài, adesso vai e fallo a modo tuo”. Anche se si scrive da soli poi soli non si è mai, ci sono tutta una serie di riferimenti e di autori che stanno là e ti indicano la strada.

BM: Hai detto che la scrittura è una pratica destinata quasi intrinsecamente al fallimento rispetto a quelle che sono le aspettative di chi scrive, e mi viene da riconoscere che il rapporto tra vocazione e fallimento è uno dei temi che ti stanno più cari. Entrambi i protagonisti dei tuoi due romanzi sentono un’urgenza di trovare una vocazione e una realizzazione, anche a prescindere dalle loro capacità. Questa fiducia è anche sottolineata dall’esergo di Randagi, in cui James H. Chase parla di un «innato talento» che bisogna solo scoprire per ottenere «fama e fortuna». Da dove nasce questo sentire?

MA: Nasce forse dall’incapacità di avere una vocazione e quindi dal desiderio di averla. Tutti noi aspiriamo a essere bravi in qualcosa e abbiamo dentro di noi quel pensiero che ci fa dire “Se io scoprirò quello in cui sono veramente bravo allora la mia vita sarà tutta felicità e successo”. Si tratta per altro di una serie di argomentazioni frutto della globalizzazione: come se la felicità e il successo fossero lo scopo della nostra vita, cosa che tenderei a rivedere in toto. Io mi sento spesso di fronte a questo bivio: da un lato si ha fretta di scoprire in che cosa si è bravi e dall’altro c’è una sorta di vettore contrario che ti fa dire “Rallenta, non ti buttare in questo altrove così rischioso, stimolante ma anche pericoloso, perché può essere foriero di fallimento, di delusione, di dolore”. È un bivio tra due strade, una rischiosa e una invece accomodante, e c’è quindi il rischio di restare bloccarti in un’impasse. Quei due protagonisti, Sauro nel primo libro e Pietro Benati in Randagi, si trovano proprio a questo bivio e un carattere come Pietro è incapace di scegliere perché ha una paura terribile per il mondo.

È un tema effettivamente che mi sta molto a cuore, questo continuo doversi spingere verso un’idea di successo e di felicità che debba accontentare sia noi e i nostri talenti, ma che sia anche una felicità che possa essere vista dagli altri. Dobbiamo farci vedere come quelle persone che hanno trovato questo benedetto posto nel mondo di cui si parla in maniera molto retorica ma che, tradotto in maniera spicciola, è fare bene qualcosa. Fare bene qualcosa affinché gli altri si accorgano che siamo bravi, perché se potessimo farlo soltanto per noi stessi saremmo degli asceti: sarebbe bellissimo, sarebbe l’unica cosa giusta della vita, ma nel mondo in cui viviamo non è così.

BM: Un altro vettore che lega i due romanzi è il movimento tra l’assenza e la ricomparsa. Se nel primo romanzo Sauro chiamava suo padre «Re dell’assenza» e questo poteva fare di lui un eventuale «principe dell’assenza», in Randagi abbiamo una vera e propria monarchia della scomparsa, in quanto vi è questo continuo sparire e riapparire. Questo tema della sparizione e del disvelamento si ricollega forse con il discorso che hai appena fatto?

MA: In una vita improntata all’apparire e al mostrare quanto siamo bravi in qualcosa, quando non si riesce a tener fede a questo tipo di modello quale altra soluzione possiamo trovare se non quella di fuggire e toglierci di dosso il peso di questa responsabilità che certe volte diventa veramente insostenibile?

A me piace molto scrivere certi tipi di libri che operano per strati come se fossero dei terrari così da costruire una sorta di simbologia sotterranea: puoi pensare che quella maledizione sia soltanto uno strumento narrativo, puoi però accorgerti pian piano che quei personaggi che scompaiono poi riappaiono con una sorta di correlativo oggettivo. Tutti riappaiono con qualcosa in meno: il nonno Furio è stato colpito da una granata e ha un problema all’omero, il padre Berto torna senza un mignolo e non sappiamo perché, il fratello Tommaso è anche lui, per quanto non lo si possa immaginare inizialmente, destinato a un tipo di sparizione. A scavare ancora poi ci sono tanti altri livelli di simbologia su questo aspetto della sparizione, penso ad esempio a quell’e-mail che a un certo punto del romanzo Tommaso scrive al fratello, un’e-mail molto intima nella quale forse per la prima volta i fratelli si dicono davvero ciò che provano. In quel caso alla tastiera su cui scrive Tommaso manca una lettera, e quindi nonostante i due fratelli siano così vicini intimamente, in realtà di nuovo il loro rapporto è segnato da una scomparsa, un correlativo oggettivo se vuoi molto piccolo ma che rende difficile la comunicazione tra i fratelli e anche la nostra lettura.

BM: Invece una delle differenze che saltano all’occhio tra i due libri è lo scarto di complessità: se nel primo vi era una singola voce (seppur presa in due momenti diversi della propria vita) Randagi è un romanzo sicuramente più polifonico. Per conservare la tua metafora del terrario, si tratta di un giardino dai sentieri molto spesso interrotti: ci sono delle false piste che caratterizzano tipi di esperienza, come può essere quella dell’Erasmus, in cui ci si ritrova a conoscere gente senza effettivamente sapere in che direzione quel rapporto andrà.

MA: Mi fa molto piacere questa considerazione perché riflette un’idea di fondo: io non volevo scrivere un libro che fosse, come certi romanzi di formazione, esemplificativo soltanto dei momenti fondamentali della vita di un personaggio, come se questi fossero dei gradoni che il personaggio sale o scende, a seconda della gravità o della leggerezza della parabola, all’interno di un processo di crescita. Quello che volevo, e che riflette l’idea dei randagi stessi, era aprire delle finestre su un certo punto della vita di queste persone, e questo comportava anche un rischio: quello di trovarsi difronte non soltanto la scena madre, che pure c’è perché è un romanzo molto denso e con molta trama, ma anche dei passi in cui di fatto non accade niente. Penso a quanto capita nella seconda parte quando Pietro è a Madrid ed è in biblioteca dove trascorre le sue giornate a studiare in compagnia di una persona che gli fa da guida: in quei momenti crediamo che potrebbe accadere qualcosa ma qualcosa poi non accade, o meglio a un certo punto il sentiero si interrompe e si lascia al lettore l’idea o anche il desiderio di colmare queste lacune. Cosa sarà dell’altra persona? Non lo sappiamo. Non di tutti i personaggi abbiamo una conclusione.

Di fatto questo è un romanzo di incontri e alcuni incontri ci segnano in maniera fondamentale anche quando non riusciamo a capirlo lì per lì, così come i randagi si incontrano soltanto in un momento della loro vita nella quale forse non sono ancora pronti per stare insieme, o almeno non in maniera definitiva, e si allontanano.

BM: Un’altra differenza è quella temporale: se nel primo libro vedevamo Sauro tornare a casa a distanza di vent’anni, Randagi si ferma molto prima, sembra vi sia una deliberata scelta di muoversi molto nello spazio per poi fermarsi in un determinato momento nel tempo e osservare una cesura ben specifica. Quando hai saputo dove fermarti?

MA: Il romanzo si conclude con Pietro che ha ventotto anni, a quell’età non può aver risolto tutto e non volevo che risolvesse tutto. L’avrei sentito come un tradimento. Per quanto si tratti di un romanzo di finzione, sarebbe un’idea di letteratura secondo me sbagliata. Quello che volevo fare era stare con i miei personaggi e accompagnarli per un certo periodo, vivendo anche dei momenti nei quali ci si chiede “Perché mi hai portato qui se di fatto non succede qualcosa di mostruosamente importante?”. Il tempo in questo romanzo è allungato, ridotto, stiracchiato. Ci sono tutti i modi possibili di indagine sul tempo, che è una di quelle categorie, nella scrittura e in generale nella vita, che difficilmente è spiegabile e rappresentabile. Tanto vale quindi affidarsi al tempo affettivo della memoria, che si dilata quando i momenti sono particolarmente importanti e ci segnano fondamentalmente: guarda caso nel romanzo lo spazio più grande a livello di numero di pagine è occupato dalla parte centrale, che racconta soltanto nove mesi. È come se il libro fosse nato come un sasso scagliato nello stagno, come se si fosse formato a cerchi concentrici allargandosi da un nucleo centrale, ovvero i tre personaggi che risiedono in copertina.

La mia volontà era quella di fermarmi in un momento nel quale potesse iniziare un altro libro: è come se questo romanzo fosse la cronaca dei tentativi fallimentari di un personaggio di diventare libero, di diventare uomo e di diventare una persona che ha chiaro il mondo. Pietro ci riesce soltanto alla fine, l’ultima pagina è il momento in cui si toglie di dosso tutti i pesi che ha e da qui è come se iniziasse un altro libro che naturalmente non c’è. Una volta portati i personaggi su quella soglia il mio compito era finito, poi se ne apre un altro ma questo è più materiale per il lettore: rientra in quell’idea di letteratura di cui parlavo prima, una letteratura in cui il lettore è molto attivo, si pone domande, magari si infastidisce per un tempo troppo dilatato in alcuni momenti però ha anche la possibilità di colmare quello che manca.

Immagine 0Marco Amerighi, foto di Pietro Baroni

BM: Parlando di Pietro, hai detto che potrebbe essere idealmente figlio di Franz Tunda e Martin Eden: mi farebbe piacere se ci parlassi un po’ della genesi del tuo protagonista, definito quasi un ragazzo senza qualità.

MA: Questi sono proprio i due poli letterari di riferimento, nonché due tipi di personaggio che da lettore mi piacciono molto. Martin Eden è quel tipo di personaggio ossessionato dal proprio desiderio e che mette da parte tutto pur di ottenerlo: conosce una ragazza, se ne innamora e decide che farà di tutto per quell’amore. Di estrazione sociale umile e con pochi mezzi, non ha soldi per mangiare, per scaldarsi, per i vestiti, inizia a studiare e fa una vita di miseria per raggiungere quello scopo, ma quando lo raggiunge è chiaro che è passato del tempo, e questo tempo passato significa vita passata e incontri mancati: il suo isolamento lo porta a realizzare che non ha più un sentire umano, non si sente più a suo agio con le persone. Martin Eden anticipa di cento anni quel modello di personaggi in fuga che citavo prima, è incredibile.

Per Franz Tunda lo stesso discorso: alla fine di quel libro meraviglioso che è Fuga senza fine si siede e non fa molto di più. Ha attraversato l’Europa e ha camminato così tanto, ma non ci sono oggetti del desiderio conquistati, non c’è una felicità che sta lì in questo scrigno che si illumina, è semplicemente un momento nel quale anche lui riconosce che ciò che conta è il trascorso, cioè il viaggio, non è tanto arrivare o conquistare qualcosa, ma muoversi. Quello che vale la pena fare è esattamente questo, è muoversi non tanto mossi dall’idea che in fondo al viaggio c’è una ricompensa, ma la ricompensa è il viaggio stesso, è la vita stessa, sono gli incontri che facciamo.

BM: Abbiamo rintracciato i possibili padri letterari del personaggio di Pietro, ma nei tuoi romanzi c’è anche una continua guerra contro i padri. Nel primo Sauro si pone precisamente la domanda «Perché non ho mai smesso di fare la guerra a mio padre?» e anche in Randagi c’è una genealogia maschile in cui i padri e i nonni occupano un ruolo molto preponderante. Da dove nasce questo sentimento di battaglia contro le figure paterne?

MA: Credo nasca innanzitutto da una passione e da un gusto tipicamente letterario. Ci sono una serie di testi che per me sono stati fondativi: prendi l’Eneide in cui Enea si carica Anchise sulle spalle e lo trasporta dopo un rapporto molto tribolato tra loro due; oppure per esempio una scena che nel primo romanzo citavo piuttosto esplicitamente è quella che sta in Pinocchio di Collodi, nel quale il burattino, la notte prima di essere trasformato in bambino reale in carne e ossa, costruisce un carrettino dove portare il padre, la stessa cosa che fa praticamente Sauro con il padre.

Opposizione al padre significa anche opposizione alla famiglia, significa andarsene per capire da soli cos’è il mondo e se non lo si fa da soli non lo si capisce. Però oltre all’opposizione verso il padre c’è anche qualcos’altro, c’è l’idea molto egoista e però molto vera che quando lo facciamo, quando ci opponiamo, ci sentiamo nel giusto: ci sentiamo più forti, più liberi, più giovani rispetto a quelle persone che invece non parlano più del nostro mondo. Quello che però non vediamo è ciò che sta dall’altra parte, e che forse vedo sempre di più io adesso, cioè un amore genitoriale dettato dal sacrificio, che è un amore mostruoso e potentissimo perché è quello che sta nel silenzio, che non viene detto, che si porta per anni e anni e a volte può anche non palesarsi mai.

In entrambi i libri ci sono momenti in cui si intuisce che chi sembrava distante in realtà era molto molto vicino, forse così vicino che faceva male, scottava. In Randagi per esempio c’è un momento in cui questo padre così stralunato costruisce della statuette per Natale e le distribuisce ai membri della famiglia. Dà a tutti una statuetta diversa che rappresenta qualcosa di positivo, il genio, la vita, la salute ecc. e a Pietro viene affidata una che si intitola L’eterna lotta. Lui non capisce nemmeno a che cosa si riferisca questa eterna lotta, la sente come qualcosa di negativo quando in realtà è uno sprone: è il tentativo di dire, proprio a lui che non ha forza e ha troppa paura: “Tu farai fatica tutto il tempo ma non importa perché il fatto stesso di affrontare la fatica giorno dopo giorno ti renderà quello che diventerai”. E il padre ha la sua stessa statuetta, come a dire che questa cosa non guarisce mai, resta lì tutta la vita e Pietro lo capirà molto in fondo. In un romanzo in cui ci sono anche tanti momenti più tranchant e forse anche più bui, questo è un movimento sicuramente di apertura e di speranza, in cui si risfiorano questi due personaggi e, seppur in ultimo battito, si capiscono.

BM: Randagi è infatti anche un romanzo sulla famiglia e su altri tipi di rapporti per descrivere i quali mi viene in mente una parola usata in alcuni ambienti di attivismo, nei quali si parla di “sfamiglie”, termine in cui echeggia l’idea di disfare la famiglia per creare dei rapporti altri. Nell’esergo di Queste ore contate avevi scelto una citazione di Romain Gary: «quando si è ragazzi per essere qualcuno bisogna essere in tanti». Se nel primo romanzo quest’esigenza caratterizzava un preciso momento come quello dell’adolescenza, in cui la ricerca della propria identità singola spesso si rivolge alla dimensione collettiva, in Randagi questa ricerca supera il periodo adolescenziale e concerne la creazione di rapporti che forse non necessitano neanche di essere definiti, ma che sicuramente non trovano una definizione in quella che è la famiglia di sangue. In che modo hai tracciato i termini di questa ambiguità che da un lato nasce da una situazione di precarietà e di bisogno, ma che può dall’altro dar vita a forme inedite di parentele in grado di sopperire anche alle mancanze della famiglia di origine?

MA: Quella dei randagi è una generazione molto diversa dalle precedenti. Vi è stata una parabola ascendente nata a metà del Novecento, con i nonni dei randagi che uscivano da un secondo conflitto mondiale, che ha poi incominciato a salire con i loro genitori, che hanno vissuto lo sbrilluccichio del boom economico e hanno contribuito ad alimentare questa idea di mondo ancora rappresentata dalla felicità, dal successo, dal lavoro ecc, tutti ahimè valori intrinsechi di questa società. In questa parabola i randagi per la prima volta si sono scontrati con un muro. Ciò che era stato paventato loro di fatto non c’era: non c’era un buon lavoro, non c’era una famiglia, non c’erano tutte quelle caselline da riempire per essere felici come era stato detto loro. Era una generazione marchiata dalla decrescita, nonostante tutti i mezzi a disposizione, come il poter studiare all’estero e potersi confrontare con chiunque in tempo reale, di fatto non c’erano appigli.

Nel romanzo ci sono alcuni eventi della Storia che di fatto segnano proprio questi eventi: nella prima parte c’è il G8 di Genova, che credo sia stato il momento nel quale abbiamo capito che tutto quello per cui lottavamo non si sarebbe realizzato. È stato il momento in cui il sogno è andato in frantumi e ci è stato detto che quelle lotte non erano urgenti, quello in cui credevamo così tanto non è stato nemmeno preso in considerazione, come se il governo e la società si fossero girati dall’altra parte. Questo ha provocato naturalmente una rabbia che si è andata piano piano spegnendo, come se quella contestazione molto animata fosse stata silenziata, e questo ha creato lo spaesamento dell'essere raminghi, ma ha lasciato anche secondo me delle braci che si riscaldano a venti anni da quegli eventi, e la cosa che mi viene da dire proprio di pancia è che avevamo ragione: quelle istanze erano invece fondamentali e sono le stesse che oggi ricoprono le pagine dei giornali.

Da collettivo molto unito questa generazione è quindi diventata individualista perché ha perso la capacità di stare insieme e di pensare insieme un futuro. Se però posso trovare un aspetto per il quale è forse valsa la pena di attraversare questo percorso molto più accidentato, è per l’appunto il fatto che questi randagi nel loro eterno vagabondare hanno sviluppato la capacità di riconoscersi. E qui riesumo una parola che abbiamo usato tanto negli ultimi due anni e abbiamo anche tanto criticato ma che vale la pena di tirar fuori: loro sono diventati dei congiunti. Ed essere congiunti vale di più che essere famiglia, perché la famiglia, per quanto naturalmente rappresenti chi siamo, è qualche cosa che non scegliamo, ma viviamo e subiamo. Invece i congiunti ce li scegliamo, e allora l’idea che possiamo scegliere la famiglia che ci accompagnerà nella vita mi sembra un’arma in più a disposizione della generazione di oggi. L’idea che nonostante i grandi spaesamenti, nonostante siamo finiti a vivere in luoghi che non avevamo preventivato, abbiamo sviluppato questa capacità di riconoscerci e quindi di riaggregarci.

BM: In Randagi ci sono anche delle bellissime pagine sullo studio. Verso la fine c’è anche una considerazione che Pietro definisce «un’idea rivoluzionaria»: quando diventa dottorando acquisisce infatti la consapevolezza che «nello studio della letteratura non fosse necessario il talento che richiedevano la musica e lo sport, bastavano memoria e dedizione che lui possedeva entrambe in abbondanza». Tu sei dottorato in letteratura straniera, volevo quindi chiederti della tua esperienza con lo studio negli anni da dottorando, che nel libro è riportata attraverso una rappresentazione molto realistica e molto franca della condizione di precariato all’interno della accademia.

MA: In quella battuta c’è sicuramente una stilettata di cinismo che io conosco bene perché naturalmente è qualcosa che ho vissuto e che restituisco anche in alcune scene dal sapore più comico, più surreale o grottesco, vedi per esempio quell’assurdo trasloco che Pietro è costretto a fare a un suo docente.

Capita spesso, lo dicono tanti scrittori e sicuramente lo penso io, che certe volte scriviamo proprio per andare a indagare qualche cosa che non ci è chiara e che ci ha fatto particolarmente male, non con l’idea di guarire ma di capire quali sono le cicatrici che ci stanno addosso. Noi siamo quelle cicatrici e non importa se siano aperte o chiuse, io non credo assolutamente che la letteratura debba guarire, anzi la letteratura fa anche male ed è giusto che faccia male, ci tocca dei nervi particolarmente tesi e questo del dottorato per me lo è. Lo è perché lì avevo riposto dei sogni e poi mi sono accorto che in realtà quello studio era qualche cosa di molto asfittico, pieno di muffa e di polvere, non era un dialogo. Era quella sorta di specializzazione ad libitum per la quale non entro mai veramente nella vita reale, non ho una mia vera e propria opinione e allora continuo a cercare di farmela continuando a studiare, ci sono sempre altri libri che possono dirmi cosa pensare meglio, e questo fa sì che ad alimentarsi non sia il dibattito ma una continua e perpetua costruzione dell’io. A un certo punto questo io deve diventare noi ed è questo ciò che mi è mancato nel dottorato, però è anche quello che mi hanno lasciato i libri.

Io sono sicuro di essere diventato uno scrittore quando ho scritto la tesi di dottorato. Pur non avendo mai scritto fiction iniziavo a scrivere dei piccoli raccontini tra un capitolo e l’altro; oppure, dato che studiavo letteratura contemporanea e l’ultima parte della mia tesi aveva un’appendice di interviste a scrittori, ho realizzato che di fatto io volevo scrivere, non volevo fare il critico letterario di cose altrui. Questa è una cosa che invece ricordo con molto piacere così come ricordo con molto piacere il tempo a disposizione che poi non ho più avuto per leggere dei testi, per pensare e per scoprire le cose. Credo che questo sia un libro che tocca questo lato di disillusione ma che ha in sé un corpus molto forte pieno di speranza e pieno di amore per i libri. Ci sono tantissimi libri in questo romanzo, vi è una lingua piena di libri molto letteraria, i personaggi stessi ogni tanto sfiorano dei libri e poi li perdono come se fosse quella la chiave del loro uscire da questo pantano. È un libro pieno di libri che secondo me restituisce il mio grande amore per la letteratura, vedo del buono anche in quella che può essere presa come una stilettata di cinismo.

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Marco Amerighi è nato a Pisa nel 1982. È laureato in Letteratura spagnola e ha conseguito un dottorato in Letterature straniere moderne. Vive a Milano, dove lavora come traduttore letterario, editor e ghostwriter per varie case editrici. Tiene corsi presso la Scuola Holden. Il suo romanzo d'esordio Le nostre ore contate, (Mondadori, 2018) ha vinto il premio Bagutta Opera Prima ed è stato tradotto in francese con il titolo Le temps qui reste. Per gli Zen Circus ha scritto Andate tutti affanculo (Mondadori, 2019). Il suo secondo romanzo Randagi (Bollati Boringhieri, 2021) è stato proposto per la LXXVI edizione del Premio Strega 2022 da Silvia Ballestra ed è entrato a far parte della settina di libri finalisti.

Immagine dell'autore scattata da Pietro Baroni

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