In Storia aperta, ultima fatica letteraria di Davide Orecchio, «c’è una scrittura di grandissima sapienza»: queste le parole con cui Martina Testa, traduttrice e editor, presenta il romanzo al premio Strega. Effettivamente Orecchio «nella sua esuberanza lessicale e ritmica, nella sua capacità immaginifica» si dimostra all’altezza delle sue prove precedenti. Storia aperta continua quel percorso di commistione tra storiografia e letteratura che si è aperto con i racconti di Città distrutte (Gaffi, 2011) e che qui sembra avere un punto di arrivo nella figura di Pietro Migliorisi, alter ego della figura paterna, totem che tra la prima raccolta e Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2017) incide sulla produzione dell’autore. Un decennio di ricostruzione storica, maturazione degli strumenti narrativi e presa di coscienza personale ha portato a una narrazione polifonica, esplosa, definitiva sul rapporto di una generazione con la storia e il sistema politico italiano: una generazione ormai conclusa, in cerca di un padre e di identità, che solo gli altri ora possono raccontare.
Davide Orecchio è il dodicesimo e ultimo ospite della nostra rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio.
Beatrice Mori: Come sta vivendo la stagione dello Strega e come cambia parlare del proprio romanzo all’uscita e in concomitanza di un premio del genere?
Davide Orecchio: È come se avesse una seconda vita. Certo, i premi per libri come i miei sono sempre un’occasione importante perché accompagnano la presenza sul mercato. I miei non sono libri con una presenza forte, sono libri spesso definiti «di ricerca, di sperimentazione». Questo lavoro sull’ibrido tra letteratura e documento è una diversità letteraria. Siamo nella stagione dell’inclusività: è importante venga inclusa anche questa identità letteraria. L’incontro con il pubblico può però essere la persistenza di un attrito: non tutti i lettori forti o non forti sono disposti al confronto con un testo più complesso del normale. Può accadere che non si accenda quel dialogo con i lettori, anche in un premio importante e che più mette in contatto lettori e libri come lo Strega.
BM: Come è stato passare da un libro come Città distrutte alla complessità ideologica e strutturale di Storia aperta?
DO: È il passaggio da una raccolta di racconti a un progetto di romanzo. C’è una continuità forte, nel metodo, nella raccolta dei materiali e nella decisione di come interpellarli: la tecnica del collage, del pastiche, le fonti come voce all’interno della lingua del romanzo. Anche la gerarchia delle virgolette è già presente, solo in maniera meno evidente a livello quantitativo. Li ho riportati in Storia aperta con un’esplosione di simboli. La discontinuità è nel passo: non è un romanzo tradizionale. Dentro ci sono inserzioni come in Città distrutte (capitoli biografici, biografie controfattuali) in cui persiste il fascino per la letteratura di vite. È stato forse, vista la complessità del progetto, un libro in cui andare meno a briglia sciolta. Nei racconti avevo più libertà di vedere come la pagina sarebbe cresciuta. Qui dovevo governare un po’ di più i materiali, e questo è stato un limite. Quando faccio apparire una fonte, anche se la narrativizzo, c’è comunque dietro una scaletta che ho in mente. Mi sono concesso però delle libertà stilistiche soprattutto nella digressione: sono i momenti in cui lascio un po’ più la briglia sciolta alla voce narrante. La possibilità di fantasticare c’è, poi però devo tornare la storia da raccontare che avevo grossomodo in testa sin dall’inizio.
BM: Da storico, come è nato il bisogno di narrativizzare il dato oggettivo?
DO: Io non ho una formazione letteraria ma storica, quindi è venuta da queste due parti di me: una è la parte che viene dai dieci anni trascorsi imparando il mestiere di storico. L’idea di scrivere queste storie incontra poi una vocazione letteraria altrettanto mia e viene da un incontro con un fiume carsico che ogni tanto riemerge grazie a iniziative editoriali che è la letteratura di vite. Verso la metà degli anni Duemila, soprattutto per iniziativa di Adelphi, vengono pubblicati o ripubblicati in Italia testi fondamentali per il genere, come Le vite immaginarie di Schwob; Bolaño era ancora territorio di Sellerio; molti altri libri come quelli di Danilo Kiš; autori italiani come Pontiggia e le sue Vite di uomini non illustri, ma potrei nominare anche Sebald e Filippo Tuena. Questo mi ha dato una chance di mettere insieme le due vocazioni. Poi ci sono state anche delle casualità: all’epoca in cui preparavo i materiali per Città distrutte mi era stata richiesta una biografia di un sindacalista molisano dalla Cgil del posto, biografia che non riuscì perché raccoglievo testimonianze discordanti. Non riuscì a scriverla e pubblicarla, come non riuscivo ad avere una visione delle vita di mio padre, che ha ispirato Pietro Migliorisi fin da Città distrutte: volevo raccontarli ma non sapevo raccontare la loro vita storica effettiva, e questo è stato uno spunto per le mie biografie infedeli. Sono stati progetti falliti come storico, che ho potuto pubblicare come scrittore.
BM: La definizione di «bambino diacronico» è venuta con la scrittura o era già nella sua mente anche durante lo studio dei materiali?
DO: Credo mi sia venuta in mente mentre scrivevo, abbandonando la fase dello studio. Molte idee nascono scrivendo, molte prima, ma nel momento in cui ti metti a scrivere è fondamentale perché le idee si chiariscono mentre scrivi. È nata subito, fin dal primo capitolo. Il bisogno espressivo mi era chiaro: avevo bisogno di un modo per definire due aspetti non solo del personaggio ma dei suoi coetanei. Da un lato, il fatto di essere figli del loro tempo storico, completamente aderenti alla storia con il loro vissuto, diversamente da noi che abbiamo un rapporto diverso, sincronico con il tempo, siamo individui dell’era digitale. Ci sarebbe anche un discorso da fare con la storia nel nostro tempo. L’altro aspetto è di essere molto infantili, non soltanto perché buona parte del libro racconta di giovani, ma questo aspetto infantile resta nell’età adulta: è un atteggiamento che serviva denotare, talvolta temerario, talvolta sprovveduto nei confronti delle scelte politiche.
BM: Storia aperta è un romanzo fatto di padri storici e del confronto con queste figure. Come si intrecciano biografia e storiografia in questa scelta?
DO: Nasce da un’esperienza diretta: mio padre viveva così la politica. Parlava nei suoi ultimi anni del Pci come di un padre. L’idea della paternità del partito era molto presente, ci sarebbe stata anche se non fosse stato mio padre la figura storica. Poi però tutto torna: questa idea riguardava mio padre e tutti quanti, soprattutto la fase del passaggio dal fascismo al comunismo. In Paura della libertà, pubblicato in esilio in Francia durante la Seconda guerra mondiale, Carlo Levi individua come problema principale della politica italiana la paura della libertà: vivere in un regime ti solleva da una serie di scelte e responsabilità. Questa paura riguarda la generazione di mio padre; anche nell’antifascismo e poi nel comunismo ci sono una serie di continuità nel rapporto con la politica. Probabilmente riguarda anche gli altri partiti di massa come la Democrazia cristiana: vivere la politica non nella libertà delle scelte individuali, in maniera laica, ma con un’attitudine etica totale. Questo ti porta a cercare una figura autorevole che ti indichi le scelte: è una forma di debolezza esistenziale che riguarda quel tempo e che in parte abbiamo ereditato. Anche le nuove formazioni politiche hanno sempre avuto questo lato morale molto forte. Mio padre è passato certamente da un padre all’altro: il partito fascista, il partito di Togliatti, e caduto l’astro di Togliatti l’ultimo fu Berlinguer, anche se a quel punto era un padre-figlio, molto più giovane di mio padre e morto prematuramente. Con la sua morte si chiude anche in anticipo la vicenda del Partito comunista italiano.
BM: Mussolini è l’unica figura non nominata, ma riferita con la «M.».
DO: Volevo raffigurarlo come un personaggio metafisico. Penso sia stato un modo letterario per incarnare il totalitarismo, anche se imperfetto dal mio punto di vista. Ho molte ritrosie a usare questo termine. Ma l’assillo mentale delle sue parole, dei suoi comandamenti e delle sue pretese mi sembrava efficace usarlo in quel modo, abbassando la temperatura saggistica. Lui è non tanto un padre quanto un dio-fascista: credo nella diversità di questi personaggi politici. Togliatti ha avuto le sue responsabilità nella sua fase cominternista, ma in quegli anni è comunque un essere umano, non un dio totalitario. Ed è una possibilità di riscatto per Migliorisi.
BM: C’è una scena simbolica in cui Migliorisi legge Cattedrale di Carver e si chiede se dovrà iniziare a scrivere così. Il cambiamento epocale con lo scioglimento del Pci e la fine di quel tipo di politica è stato anche un problema di stile?
DO: La prima cosa da dire è che quando emerge l’astro di Carver negli anni ottanta mio padre ha subito dimostrato attenzione. Era molto attento alle novità letterarie: si leggeva Carver anche tra i comunisti italiani, che non sono rimasti uguali. Il Pci cambia totalmente dalla seconda metà degli anni settanta in poi, c’è curiosità verso gli Stati Uniti, si libera dal mito della Guerra fredda e della cultura sovietica. Si guarda ancora con sospetto alla politica americana, però c’è un’apertura. È un cambiamento antropologico che racconta molto bene Miriam Mafai. Cambia la retorica, senz’altro: il modo di essere intellettuali, il rapporto con i mass media, le forme della scrittura. V’è un cambiamento dei giornali, di Paese sera. La linea Togliatti-De Sanctis-Labriola che aveva scandito il comunismo italiano decade negli anni settanta-ottanta. Carver in quegli anni può convincere e piacere a un giornalista di stampo comunista degli anni di mio padre. Senz’altro poi quello stile, il cosiddetto minimalismo, poteva essere giudicato convincere a uno scrittore all’epoca perché si era all’interno di una scrittura più retorica e barocca. Non so ora come potrebbe essere pesa un’epifania del genere. Probabilmente io non scrivo in quel modo perché quello stile è diventato lo stile prioritario. Se invece ci fosse uno stile princeps barocco-gaddiano, probabilmente io potrei rispondere usando invece la letteratura minimalista.
BM: Secondo lei quindi il suo stile è una conquista?
DO: Conquista no, cosciente senz’altro sì. Anche se c’è sempre una parte insopprimibile nella lingua di uno scrittore. Questo aspetto altisonante dello stile di Storia aperta è una conseguenza dell’epica che contiene e delle tante fonti da governare. C’era la necessità di alzare un po’ la voce, di esprimermi ad alta voce: sono ragioni strutturali che hanno a che fare con la forma e con la storia. Altrove potrei usare uno stile più contenuto. Escludo di continuare a esprimermi sempre in questo modo.
BM: L’epicità, il ritmo della narrazione ricorda Il partigiano Johnny, che con il suo romanzo condivide anche il fatto di avere diversi livelli linguistici.
DO: Sì, anche perché con barocco non intendo la complessità linguistica di un Gadda o di un Mari, ma proprio il tentativo di creare un ritmo epico che faccia dell’accelerazione il suo punto di forza. Anche perché avevo ben presente il problema della mole. La sua natura barocca sta non nello stile ma nella struttura delle fonti – è diversamente barocco. Poi c’è un’altra complessità: è un libro che si interroga continuamente sul nostro rapporto con la storia, come la abitiamo, come ci rapportiamo con le voci del passato. È una delle nature prevalenti del libro. Con una narrazione più classica avrei perso questo interrogativo.
BM: Per quanto riguarda il rapporto con la letteratura di vita, il canone dei modelli è cambiato? Kiš per esempio è sempre presente nell’idea dell’«enciclopedia».
DO: Sì, quello era proprio un omaggio. Nel corso del tempo le letture aumentano, per esempio ai tempi di Città distrutte non avevo ancora letto Michon e le sue Vite minuscole e conoscevo solo parzialmente David Peace, un autore molto importante per me, soprattutto per lo stile. Un’altra autrice presente come sentimento della storia e originalità nel farla parlare è Svjatlana Aleksievič. Detto questo, il metodo è rimasto lo stesso e abuserei probabilmente se continuassi a scrivere in questo modo. Poi però Storia aperta è un’opera matura, ha anche una sua autonomia letteraria che io rivendico.
BM: Nella sua testa è anche una chiusura del cerchio?
DO: Mio padre la rivoluzione e Storia aperta. Sono dieci anni che mi accompagna, con l’obiettivo di Storia aperta ben presente, quindi avendola completata in un certo senso vorrei anche concludere l’uso di quel metodo, di quel tipo di scrittura e di quel contenuto. Di formazione sarei anche settecentista, non mi dispiacerebbe andare anche più indietro del Novecento: la storia non si esaurisce nel Novecento. Vorrei trovare un altro modo di parlare; ho anche una vena più fantastica emersa in Il regno dei fossili.
BM: Pensa sarebbe possibile applicare il suo metodo di ricerca e scrittura anche al periodo storico più strettamente contemporaneo?
DO: L’ostacolo principale è solo uno: avere le idee chiare sul proprio tempo. Le faccio un esempio: quando inizia a studiare Storia all’università, dopo un anno crollò il Muro di Berlino. Io avevo il mito di Lenin e dei bolscevichi; sono uscito dopo quattro anni con le idee molto più chiare sull’Unione sovietica. Quando poi ripresi in mano la storia per Mio padre la rivoluzione ho avuto ancora più chiaro cosa sia stato il comunismo sin dal ’17 e soprattutto il bolscevismo. Se io sono riuscito a scrivere Storia aperta è perché avevo le idee molto chiare su cosa sono stati il fascismo e il comunismo, nella sua versione italiana che si è rapportata con le forme della democrazia. Farlo sul contemporaneo è complicato perché siamo ancora dentro al flusso, anche se iniziamo a storicizzarlo: c’è una possibilità di fallimento narrativo molto più ampia.
Per saperne di più
Davide Orecchio ha pubblicato le raccolte di racconti Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi 2012, nuova edizione il Saggiatore 2018), con cui ha vinto il premio SuperMondello, il Mondello Opera Italiana 2012 e il premio Volponi 2012, e Mio padre la rivoluzione (minimum fax 2017). Ha scritto due romanzi, Stati di grazia (il Saggiatore 2014) e Il regno dei fossili (il Saggiatore 2019), e un libro illustrato per l’infanzia con Mara Cerri, L’isola di Kalief (orecchio acerbo 2021).
Il suo ultimo romanzo Storia aperta (Bompiani, 2021) è stato proposto da Martina Testa alla LXXVI edizione del Premio Strega 2022 e selezionato tra la dozzina dei libri candidati.