Se per René Girard l'incrociarsi delle linee di fuga del desiderio, esemplificato dal personaggio di Don Chisciotte, dava origine a un assetto triangolare, con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie, 2021) Daniela Ranieri, riprendendo la prossemica di un Don Giovanni declinato al femminile, progetta uno spazio più reticolare, a tratti rizomatico, su cui le macchine desideranti possono sfrecciare, scontrarsi, invertire rotta o deragliare.
Percorrere lo Stradario, candidato da Loredana Lipperini al Premio Strega e da questa definito «un libro che prescinde dalla forma [...] un inganno (non è un memoir) sincero come può esserlo la letteratura», è come bere con una cannuccia il cervello di chi l'ha disegnato, per utilizzare un'immagine che l'io narrante usa per descrivere il proprio rapporto con l'amore: un romanzo-raccordo (più che un romanzo-fiume), trafficato e di non immediata viabilità, che non intende essere scorrevole per non correre il rischio di defluire con troppa facilità.
Daniela Ranieri è la decima ospite della nostra rubrica L'ora dello Strega, una serie di conversazioni settimanali incentrate sui dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio.
Biagio Mazzella: A costo di andare immediatamente fuori traccia rispetto al nome della nostra rubrica, non posso non congratularmi con lei per la recentissima nomina di Stradario aggiornato di tutti i miei baci nella cinquina del Premio Campiello (arrivata, tra l’altro, a un anno esatto di distanza dalla data di pubblicazione del romanzo). Che effetto le fa? Si sta abituando alla kermesse dei premi (penso a questi mesi di tournée per lo Strega) o condivide quanto afferma la protagonista del suo libro quando, per consolare uno scrittore istrionico e dall’ego di polistirolo, gli dice che «i premi letterari li danno solo a chi ritengono inferiore. Bravino, ma inferiore»?
Daniela Ranieri: Grazie molte per le congratulazioni. Non avevo notato la coincidenza numerologica, avrebbe aggiunto una quota di “armonia prestabilita”, ma forse anche di ansia, a una serie di fatti che stanno accadendo al mio libro. Ho seguito la cerimonia di proclamazione della cinquina del Campiello per puro caso: la prima reazione è stata di incredulità, dunque anche di una specie di pneumatico distacco. L’io narrante su questo tema è molto più disincantato; l’io scrivente ne è onorato e gratificato. La protagonista del mio libro ha spesso opinioni radicali ed estremamente pessimiste riguardo ai suoi simili. Per di più, è accecata dall’innamoramento per questo scrittore che non vince premi, pur meritandoli, e - come scrive Pavese - una donna innamorata è sempre stupida. Mi rendo conto che il suo giudizio tranchant corre il rischio di diventare una specie di paradosso del mentitore. Se vincessi uno dei due premi, sarei spacciata. Tuttavia, si creerebbe un cortocircuito davvero interessante, che mi piacerebbe molto sperimentare.
BM: La protagonista senza nome del suo romanzo osserva come «scrivere ha i suoi propri punti cardinali, svincolati dalla biografia, fuori dalla sua griglia». Quali sono quelli della sua scrittura, e come riesce a far sì che restino saldamente svincolati dal materiale biografico?
DR: La biografia intralcia il processo di creazione di un sé scritturale. Vale in questo caso, come in molte altre questioni, la lezione di Carlo Emilio Gadda: si tratta di cucire una stoffa interna, una fodera di fatti e impressioni biografiche, con la seconda stoffa, esterna, del mondo. Se necessario traslando tutti i fatti, i nomi, i caratteri, i luoghi geografici. Deve esserci uno spostamento della propria biografia, altrimenti si riferisce semplicemente l’accaduto, come si relaziona un fatto a un conoscente. Il materiale biografico è appunto solo materiale, è calce viva; perché diventi utilizzabile, deve essere “spento” con una trasformazione chimica: l’invenzione di sé attraverso il non sé.
BM: Il primo consiglio di scrittura che lei dà nella sua Lezione d’autore per Leggiamoci è di inventare, considerando il termine nel suo senso etimologico di “trovare” (da invenire) e sottolineando come “la verità scritturale è diversa dalla verità vera”. La protagonista del suo romanzo riconosce che in amore ha bisogno «non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato». E continua: «Nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità». Questa non-verità, ricercata tanto dalla protagonista negli altri quanto da lei attraverso la scrittura, si avvicina di più a una menzogna romantica o a una verità romanzesca?
DR: Nel caso della scrittura si tratta di un tipo di invenzione che avvicina al vero, perché scrivendo si trova qualcosa che già c’era, ma non era rivelato. C’è una bella differenza tra verità e sincerità. Nello Stradario l’io narrante applica lo stesso processo generativo all’amore: forse troppa verità rivelata distrugge. Eticamente si ha bisogno di sincerità, ma eroticamente si è sempre in cerca di un angolo cieco, di qualcosa di non ancora palese. È come la vertigine: evito le altezze perché le altezze mi attraggono e mi atterriscono. Come persona sono illuminista; come amante sono superstiziosa e soggetta alla cieca e furiosa irrazionalità del mito. Non a caso il libro d’amore più bello mai scritto sono le Eroidi di Ovidio: lettere (scritte da lui, un uomo) di eroine tradite, illuse, ossessionate, abbandonate dai loro amanti, che non rispondono mai (se non in tre casi eccezionali) e che noi non vediamo se non dentro lo spazio oscuro, lo spessore cieco della pagina.
BM: Credo, inoltre, che la prima menzogna del romanzo si trovi al di fuori di esso, che sia paratestuale. Faccio riferimento al suo tweet in cui ne annunciava l’uscita, al cui Ps scrive “Non è scorrevole”.
DR: “Scorrevole” è una di quelle parole che, se applicate a un libro, hanno per me un senso deteriore. E invece viene usata per lo più positivamente. Un libro che scorre via non lascia niente, nessun detrito, scarto o memoria. Spero che il mio scorra con difficoltà, che trovi delle resistenze in chi legge, in modo da impigliarsi nella sua mente.
BM: Il terzo consiglio che dà a chi scrive è poi quello di essere avvincenti per sé stessi e buttare le parti che si trovano noiose. Considerata la mole del romanzo, una simile dichiarazione di metodo sembra tradire una franca soddisfazione per la sua riuscita finale: vi sono state effettivamente delle parti in eccesso scartate in fase di editing oppure lo Stradario avrebbe potuto continuare a espandersi con ulteriori vicoli, biforcazioni e incroci anche ben oltre le pagine attuali, come sembra suggerire quell’eccetera, eccetera che precede la parola FINE?
DR: Valgono entrambe le asserzioni. Ho tagliato in fase di editing l’equivalente di circa ulteriori 120 pagine. In effetti erano quelle che mi ero divertita a scrivere, ma non altrettanto a leggere. Allo stesso tempo, avrebbe potuto continuare a prendere biforcazioni e digressioni, in altre direzioni. Lo considero un libro non finito.
BM: Nella stessa lezione fa anche riferimento alla distinzione chiamata in causa da Claudio Magris per descrivere Thomas Mann, ovvero quella tra scrittori di mano e scrittori di cervello (ponendo Mann tra gli scrittori della prima categoria di coloro che, seguendo la penna, quasi non si rendono conto cosa stanno scrivendo): nella stesura di questo romanzo pensa di aver lavorato più di mano o di cervello?
DR: Lo dico a posteriori, perché mentre scrivo non ho alcuna idea di come stia procedendo: ci sono delle parti di mano, a leggere le quali l’occhio danza; alcune parti sono di cervello, lo sento dalla elaborazione che richiedono, c’è come una frenata, una mediazione appunto cerebrale. Magari si fosse capaci di scrivere libri solo di mano, come i Buddenbrook. Sono i libri che la sanno più lunga dei loro autori.
BM: Laddove A. (il possibile amore numero 1004 della protagonista, capace forse di mettere fine al suo movimento oscillatorio) «non vuole sentir parlare degli altri uomini, non gli interessa; per una questione di “igiene” del nostro rapporto, dice» lei non farebbe altro per ore: «e sempre per una questione igienica, cioè per disinfettare il presente da tutte le scorie del passato». Condivide con la sua voce narrante una simile esigenza igienica nel processo creativo? Ho notato che fa spesso riferimento al principio gaddiano di scrittura come mezzo per ripristinare la propria verità, a cui fa da controcanto la chiamata di Amleto a rimettere in sesto il mondo.
DR: Mi interessa molto, psicologicamente, il passaggio in cui lei identifica senza scarti la relazione d’amore col processo creativo. Eppure, sono due cose diverse. Magari simili, ma eterogenee. Se non altro perché nella relazione si è in due, mentre nel processo creativo si è legione, si è un “io” preso dai vari demoni che questo supposto io autonomo evoca e alimenta. Mentre sono del tutto d’accordo con l’analogia tra esigenza d’igiene e ripristino della verità attraverso la scrittura, la missione gaddiana per eccellenza. In lui, come in Amleto, c’è una esigenza di pulizia e di verità - raggiungibili attraverso la finzione - che è pari solo a quella di Nietzsche (che pure sulla verità era cauto, dato che l’essere umano non ne può sopportare più di tanta senza annientarsi).
BM: «Io conosco quell’oscura smania che spinge a mettere insieme una collezione e non consente di fermarsi oltre un certo numero. È una forma di dongiovannismo, di insoddisfazione condannativa, da cui però è tolto il finale tragico, l’epilogo della colpa. Abbiamo un solo dolore: che le nostre cose collezionate ci sopravvivranno e nessuno saprà prendersi cura di loro»: è un discorso che la protagonista fa a proposito del suo collezionismo di profumi e in cui si può facilmente sentire l’eco del modo in cui colleziona e classifica i propri amanti, laddove però per questi ultimi (purtroppo o per fortuna) non sussiste necessariamente l’inconveniente della sopravvivenza postuma (che sia per la capitalistica legge dell’obsolescenza programmata degli amori o per la mera tirannia biologica dei corpi).
“Catalogo” è una delle parole chiave scelte da lei per descrivere il suo romanzo, nell’episodio a esso dedicato del podcast Passeparbook. La componente del titolo su cui ho riflettuto di più anche a lettura finita è proprio quell’ “aggiornato”: sarei molto curioso di sapere in che modo questo catalogo sia stato aggiornato in corso di stesura.
DR: È aggiornato perché Eros è figlio di Indigenza e di Espediente. Dalla madre prende la miseria, dal padre l’ingegnosità. È sempre all’opera, sempre alacre e mai soddisfatto. Dopo il numero 1004, che è A., proprio quasi a ridosso della fine (una fine con un “eccetera eccetera”), c’è la comparsa sebbene fulminea di un Dioniso, un dio che si chiama C. Un singulto di alfabeto che fa dubitare che la caccia sia finita.
BM: Un’altra parola chiave da lei indicata per quell’occasione è “Mappa”, termine che rimanda anche alla natura erratica del desiderio dell’io narrante del romanzo. Con Stradario aggiornato di tutti i miei baci e il suo modo di trattare il desiderio femminile crede di aver aperto uno spazio discorsivo che prima non c’era (guardando in prima istanza al contesto italiano, ma non solo), o era uno spazio semplicemente ignorato o tenuto fuori campo?
DR: Il tipo di desiderio che la protagonista sente incessantemente (fino alla comparsa di A.) non è “sensuale” nel senso in cui lo intende Kierkegaard nel suo saggio su Don Giovanni, un desiderio che induce all’infedeltà non solo delle donne conquistate, ma del tempo; invece il desiderio “psichico” si interroga sul futuro e sulla durata. “Vederla e amarla è una cosa sola, un momento e nello stesso momento tutto è finito, e questo si ripete all’infinito”. Questa è la mappa di Don Giovanni: un tempo di un istante che si brucia all’infinito. La protagonista del mio libro, in questo simile a Don Giovanni, non seduce, bensì desidera. Non mi risulta ci siano profili femminili del genere in letteratura.
BM: Elementi cardine attorno cui ruota il romanzo sono l’ironia, definita da lei «un’arte delle distanze», il sarcasmo, di cui la protagonista sottolinea l’etimologia (“lacerare le carni con i denti”), e la comicità, che lei da scrittrice apprezza (e rimette in scena) nei suoi aspetti più ossessivi. Quanto è stato importante riuscire ad alternare questi registri e dosarli per trovare il giusto tono della narrazione?
DR: L’ironia è il registro che amo di più nella vita e nella letteratura. Stimola l’intellezione, non distrugge i valori, come fa invece il cinismo, e non distrugge l’interlocutore, come fa invece il sarcasmo, ma lo usa – ne usa i punti deboli, la magniloquenza e la protervia - per produrre una verità. È uno strumento sovversivo, infatti è più potente quando è diretta contro chi è potente.
BM: Due universi simbolici a cui attinge spesso nel corso del romanzo sono quello testamentario cristiano-cattolico e quello mitologico classico, a cui mi sembra corrispondano anche le due ambientazioni con i loro rispettivi sistemi-mondo, ovvero Roma (presente fin dall’incipit, per me folgorante essendo anch’io nato, pur non essendo romano, «sulla barca-vongola di pietra tra le due anse che abbracciano l’Isola Tiberina») e la Sicilia (terra di numi, il cui più recente è nel romanzo nominato con la sola iniziale). È un quadrato semiotico troppo grossolano?
DR: Roma è pagana prima che cristiana, e adesso è preda di un paganesimo turistico che ne fa una merce in vendita sui banchi dei bengalesi. È una necropoli brulicante di corpi vivi, è preda di una burocrazia che invece di fluidificarla la intasa. La Sicilia nel libro non è solo una non-Roma, è una entità affermativa, naturale più che pagana, e araba più che cristiana. Quindi sì, c’è un certo quadrato semiotico, o forse è un chiasmo.
BM: La voce narrante del suo romanzo si definisce una persona «da osmosi passionale unita alla lotta di classe». Può la prima rivelarsi un’arma a disposizione della seconda, in cui applicare il metodo del libertino per il quale «la successione o anche la simultaneità coreografica dei corpi amati è la negazione della cronologia borghese»? Lo stesso stradario è una figura spaziale che sembra ignorare in prima istanza la successione temporale. C’è ancora spazio per la lotta di classe, non solo nel discorso pubblico ma addirittura in letteratura?
DR: La lotta di classe esiste eccome, solo che l’hanno vinta i ricchi. E continuano a vincerla, nella sostanziale acquiescenza generale. Nello Stradario ci sono potenti ricchi e avari che usano l’amore come uno degli strumenti del loro predominio violento sull’altro, sulla donna amante. Forse sì, la simultaneità degli amori è una ribellione alla cronologia borghese. Alcuni di questi uomini nel libro sono sposati, cioè “già impegnati”, e fanno valere questo “venir prima” dell’amore coniugale sulle rivendicazioni dell’avventura: bisogna leggere un aforisma di Adorno in Minima moralia su questo predominio borghese del primo arrivato che è illuminante e delizioso.
BM: Nel «randagismo sentimentale e dongiovannesco (madamgiovannesco) – duplicazione cronica dell’innamoramento» portato avanti (e indietro) dalla protagonista vi ho ritrovato alcuni tratti del soggetto nomade di Rosi Braidotti. Pensavo si trattasse di una mia semplice deformazione dovuta alla vicinanza dei suoi testi al mio campo di studi, finché non ho letto un suo tweet in cui, pur criticando aspramente le sue prese di posizione nelle apparizioni pubbliche più recenti, scriveva di aver trovato i suoi libri dirompenti. In quali aspetti?
DR: Negli anni 2000, durante e dopo la laurea, mi piacevano i suoi libri sul postumano, questa condizione inedita per cui la natura umana non è più naturale. Mi piacque anche il suo libro sulla femmina come madre, mostro, macchina. È certo che quelle letture mi abbiano influenzato. Però la vita è troppo breve per leggere gli epigoni. Deleuze e Guattari, che non ho mai finito, sono più “inesauribili”.
BM: Constatando la «aporia maledetta del non poter annientare ciò che si ama», la protagonista, lungi dell’accontentarsi della definizione aristotelica, si chiede «Ma cos’è un uomo? Cosa fa un uomo, cosa rende tale un individuo? Solo una materia cromosomica differente?». In un’intervista su L’Indiscreto uscita in occasione della riedizione del suo Modi bruschi. Per un'antropologia del maschio, l’antropologo Franco La Cecla sottolinea come «non ci sono le identità sessuali come qualcosa di distinto e a parte, ci sono relazioni tra identità»; così come in Stradario aggiornato di tutti i miei baci l’identità degli uomini non è mai considerata in sé, ma emerge solo nel loro modo di interagire con la protagonista e gli altri che li circondano. La crisi del maschio è una crisi di relazioni?
DR: Non mi sento all’altezza di questa domanda, o diventerei noiosissima nel tentativo di sembrare preparata. Diciamo che la risposta più onesta è: non lo so.
BM: «Non sapendo bene cosa amassi e cosa cercassi in un uomo in generale, ne ho amati diversi per vedere cosa ci fosse di amabile in un essere umano. La moltiplicazione del particolare mi ha dato una specie di conoscenza generale, antropologica. Potessi comporre un uomo a partire dai molti, questa creatura sarebbe perfetta». Questo gioco di ricomposizione e incastri può però dar vita anche a chimere dai tratti deformi: dall’intera galleria di profili maschili messi a fuoco nel suo romanzo ne esce quel mostro di Frankenstein che è l’uomo eterosessuale contemporaneo (pur considerando che, vista l’università dei temi trattati, lei riprenda motivi e trova riferimenti non solo classici ma proprio mitopoietici). Ritiene anche lei che ciò possa essere dovuto alla mancanza, nella recente storia dei maschi occidentali, di una rivoluzione culturale analoga a quella che per le donne è stato il femminismo?
DR: Io non lo ritengo. Ci sono alcuni temi che mi respingono e non riesco a vederci molto chiaro. Più che sui sessi e sui generi, preferisco ragionare sulle anime e sulla loro relazione con la “struttura”, l’insieme dei rapporti sociali, di proprietà e di produzione, vigenti in un dato momento.
BM: Ne La prosa del mondo Maurice Merleau-Ponty introduceva la distinzione tra linguaggio parlato e linguaggio parlante (nozione che gli sarebbe stata poi strategica durante i suoi corsi al Collège de France sull’uso letterario della parola e su Stendhal, Proust e Valéry): vi sarebbe infatti «il linguaggio successivo, che è acquisito e svanisce davanti al significato di cui è diventato portatore, e quello che si forma nel momento dell’espressione, facendomi slittare dai segni al significato». In un’epoca in cui «la parola, questo strumento per toccare gli altri, gli animi degli altri, e nominare il mondo, ci è tolta come un neonato dalla sua culla», in che modo è possibile trovare uno stile e una tecnica adatti a descrivere un amore che è sì «preverbale, ma anche verbale, talvolta, perché la sua ineffabilità sarebbe eccessiva, calata nella vita»?
DR: L’amore non va descritto ma fatto, accolto, creato (nella vita). Anche l’amore detto è insidioso, come si capisce in quel capitolo che lei cita, perché il dire lo logora, e introduce una mediazione in ciò che è immediato e pre-verbale. In letteratura, o quantomeno in narrativa, l’amore può essere appunto solo narrato, ma i modi sono infiniti. C’è più eros in una pagina di Manganelli su un fumetto che in tutto Henry Miller.
BM: Un riferimento esplicito e costante del romanzo, tanto nello spirito quanto nella struttura, sono i Saggi di Montaigne. In questi il filosofo scriveva: «Le mie opinioni le trovo infinitamente ardite e costanti nel condannare la mia insufficienza. In verità, è anche un soggetto sul quale esercito il mio giudizio come su nessun altro. La gente guarda sempre di fronte, io ripiego la mia vista al di dentro, la fisso, la trattengo lì. Ciascuno guarda davanti a sé, io guardo dentro di me: non ho a che fare che con me, mi osservo continuamente, mi controllo, mi assaggio. Gli altri vanno sempre altrove, a pensarci bene: vanno sempre avanti, Io mi rigiro in me stesso».
Questa continua operazione di autoscopia centripeta caratterizza anche l’andamento del pensiero della protagonista, che non fa che rigirarsi in se stessa, abitando un romanzo in cui c’è un «vociferare continuo». Questo vociferare continuo è forse l’essenza stessa di un romanzo: scrivere un libro senza trama, di “sola” scrittura (o di “sola” voce, sguardo, odorato) è stato una sfida, un azzardo o una liberazione?
DR: Sono del tutto inabile alle sfide: mi dichiaro vinta in partenza. Mi rendo conto che questo è inattuale e mi pone ipso facto fuori dalla società competitiva, e auto-competitiva, di oggi. Sono anche una non resiliente: appena qualcuno dice che oggi ci vuole resilienza io mi spoglio di ogni agonismo, sebbene non mi consegni al nemico e nella lotta tra me e il mondo non parteggi mai per il mondo (come invece impone la terribile raccomandazione di Kafka). Questa resistenza residua l’ho re-investita nella scrittura senza trama, o meglio piena di sottotrame che si intersecano, nella mappa tutta simultanea dello Stradario. A volte queste sottotrame producono disastri, come quelli aerei, per cui il residuo scritto è la scatola nera di quel percorso e di quella caduta; a volte, semplicemente, scivolano l’una contro l’altra, come le autostrade di Blade Runner, e questi passaggi continui, a volte stridenti, a volte sinistramente silenziosi, producono quello sciamare, quel vociare continuo che forse è il borbottio dei demoni che presiedono ciascuno alla propria fetta di geografia mentale e sentimentale. Mi viene in mente anche l’immagine delle voci degli umani ne Il cielo sopra Berlino: lì sono gli angeli che ascoltano quell’affollarsi di pensieri, preoccupazioni, fatuità e paure (dunque forse noi siamo gli angeli dei nostri demoni). In questo processo di ascolto, che forse è liberatorio, ma forse esacerba i demoni, mi hanno tenuto la mano gli scrittori e i poeti che ho messo in esergo a ogni “strada”.
Montaigne è proprio il riferimento esatto, è l’ispiratore del metodo che ha portato allo Stradario. Lui aveva frasi di scrittori e versi di poeti preferiti sulle travi del soffitto, io le ho messe in epigrafe di ogni capitolo. E, come lui, l’oggetto del mio libro sono io, dove “io” è la legione di non-io che abbiamo detto all’inizio.
BM: Nell’intervista ovviamente le do del Lei perché in questa forma scritta quasi unilaterale è difficile far intervenire il costume socialmente accettato della confidenza manifesta, ma se preferisce posso anche riscrivere le domande tueggiando.
DR: Ho colto e apprezzato la citazione.
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Daniela Ranieri, dopo gli studi di Antropologia culturale all'università La Sapienza di Roma, dove ha svolto attività didattica come cultrice della materia, ha conseguito un dottorato in Teoria e ricerca sociale. Ha realizzato documentari sul mondo del lavoro, della politica e delle culture giovanili. Ha scritto Tutto cospira a tacere di noi (2012), AristoDem. Discorso sui nuovi radical chic (2013) e Mille esempi di cani smarriti (2015), tutti per Ponte alle Grazie. Giornalista, scrive editoriali di politica e di cultura sul Fatto Quotidiano.
Il suo ultimo romanzo Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie, 2021) è stato proposto da Loredana Lipperini per la LXXVI edizione del Premio Strega 2022 e selezionato tra i dodici libri candidati, e fa attualmente parte della cinquina finalista del Premio Campiello 2022.