≪Tornando a casa quella notte ricordo che mi guardai allo specchio. Intravidi Giuda nei miei occhi e gli feci notare che stavo vincendo io.≫
Protagonista di questa intervista è Marina Massone, autrice del libro “Giuda. Dal diario di una diciottenne in lotta per la vita”, pubblicato da Edizioni della Meridiana. Il contenuto del libro è il diario personale tenuto da Marina durante le fasi della sua malattia: nel 2018, infatti, le viene diagnosticato un cancro, un linfoma che solitamente colpisce gli uomini di età superiore ai cinquant’anni e che dà il dieci per cento di possibilità di sopravvivere. Durante i mesi precedenti alla diagnosi, quelli della chemioterapia e quelli successivi alla guarigione, la scrittura diventa fedele compagna dell’autrice, la aiuta a dare un nome a ciò che appare confuso e a elaborare le infinite informazioni fornite dai medici. Proprio del suo diario e del suo vissuto avremo il piacere di parlare in questa intervista.
Sophie Grange: Cara Marina, facciamo le cose con ordine e partiamo dal principio, dal titolo del libro: Giuda. Un nome eloquente, che non richiede di essere contestualizzato né spiegato più di tanto. Giuda è il nome che, fin dall’inizio, dai al tuo tumore: innanzitutto, che tipo di tumore era? E poi, come mai hai deciso di dargli un nome proprio, un’identità, quasi un contorno, una personalità?
Marina Massone: Giuda era il mio linfoma T gamma delta. Un tumore del sangue che di solito colpisce gli uomini dopo i 60 anni. Io quando l’ho incontrato ero una ragazzina di 18. Dargli un nome è stato un modo per accettare la sua presenza e delimitarla. Lui viveva nel mio sangue e lì doveva restare. Tutto il resto del mio corpo, e della mia vita, non era malato. Dandogli un nome, ho anche finito per ingannare la mia mente: Giuda suona sicuramente meglio di cancro, fa meno paura ed è più simpatico. E infatti Giuda è stato un compagno di viaggio più che un nemico, un compagno che ha condiviso con me alcuni degli attimi più preziosi della mia vita.
S. G.: All’inizio del tuo libro, parlando dei mesi trascorsi in ospedale in cerca di un nome da dare a tutti i tuoi dolori, usi l’avverbio “finalmente” in relazione al momento in cui ti è stato diagnosticato il linfoma contro cui ti sei poi trovata a dover combattere. Eppure si trattava di un cancro con il dieci per cento di possibilità di sopravvivenza. Come spiegheresti il motivo di questo sollievo di fronte a una diagnosi così terribile?
M. M.: Quando mi è stato diagnosticato Giuda, ero malata da tempo. Avevo affrontato giorni e giorni di febbre, sudore, perdita di peso e incomprensione generale. Le settimane erano diventate mesi. Eppure, senza diagnosi, nessuno poteva curarmi. Mi sono chiesta spesso quando ancora sarei durata in quelle condizioni. Probabilmente poco. La diagnosi del cancro, per quanto drammatica, era comunque una diagnosi. Potevo almeno sperare di farcela.
S. G.: Nel descrivere la prima parte del tuo percorso, tra la diagnosi e l’inizio della chemioterapia, raramente parli di paura: si percepisce piuttosto, in te, una grande energia, quasi un’impazienza di imbracciare le armi contro quel nemico inaspettato, di neutralizzarlo passo dopo passo, senza troppo timore. Quali sono stati gli elementi che ti hanno permesso di vivere quel periodo proprio in quel modo, senza farti prendere dallo sconforto?
M. M.: Tra tutte le prescrizioni, il mio medico mi ha anche prescritto di non avere paura. Non serve a niente, mi disse. E per non farmi avere paura, mi ha spiegato chi era Giuda, le sue carte in tavola, e il nostro piano di attacco. Capire cosa mi succedeva e come avrebbero agito le cure mi aiutava a razionalizzare la situazione e mantenere il sangue freddo. Poi c’era l’Amore, bello e facile come non l’avevo mai visto. L’Amore puro e incontenibile di amici e famiglia che avrebbero fatto di tutto pur di farmi star meglio. Così, lo sconforto l’ho messo da parte. L’unica opzione che mi davo era provarci con tutte le mie forze. Che sono sempre più forti delle nostre debolezze.
S. G.: Con molta dolcezza parli dei tuoi due fratelli maggiori, Federico e Francesco, che sembrano aver avuto un po’ il ruolo di guardie del corpo non solo durante la malattia, ma in generale nella tua vita. Com’è stato, per loro, l’impatto con Giuda? Cos’è cambiato nel vostro rapporto – se qualcosa è cambiato?
M. M.: I miei fratelli sono i migliori compagni di vita che potessi desiderare. La famiglia non si sceglie, ma io sono stata fortunata. La notizia di Giuda ha comunque un po’ scombussolato il nostro equilibrio. Non sapevamo come parlarne. Non eravamo stati abituati a dover parlare per capirci. La malattia invece ci ha insegnato proprio a riconoscere l’importanza delle parole, oltre che della presenza. E il nostro rapporto è cresciuto, è maturato. Lo pensavo anche prima, ma adesso ne ho la certezza: ci saremo sempre gli uni per gli altri.
S. G.: E il rapporto con te stessa, invece? Nelle tue parole si leggono tanta introspezione, tanta consapevolezza, tanta capacità di dare spazio a ogni emozione e anche, in qualche modo, di gestirla, senza cercare di respingerla. Insomma, sembra che il dialogo con te stessa sia stato importante quanto il dialogo con chi avevi intorno.
M. M.: Assolutamente. Nel corso della mia malattia ho conosciuto una parte di me che prima tenevo nascosta, anche a me stessa. Ho accettato la mia vulnerabilità, io che credevo che per vivere dovessi sempre e solo essere dura, indipendente, tutta d’un pezzo. Invece ho capito come sopravvivere in mille pezzi, chiedere l’aiuto degli altri e vivere le mie emozioni, senza reprimerle. Se mi guardo indietro adesso, vedo un prima e un dopo. E avere la consapevolezza di potere essere imperturbabile e vulnerabile allo stesso tempo mi piace tantissimo. Sento di avere molto più strumenti per affrontare la vita, più controllo e più piacere nel viverla.
S. G.: Dopo quattro cicli di chemioterapia sei stata sottoposta al trapianto di midollo osseo – un trapianto avvenuto nelle migliori condizioni possibili, con il cancro ormai in remissione e tuo fratello Federico donatore al 100% compatibile, ma pur sempre un trapianto. E poi, dopo, un mese di isolamento in una stanza di ospedale. Insomma, avevi già dato a Giuda una bella batosta con la chemio, ma “Dopo cinque mesi di malattia, tre mesi di chemio, e mezzo di work up, l’attesa per il fatidico trapianto era agli sgoccioli e dovevo farmi valere più che mai”: quali sono state le tue sensazioni e le tue emozioni prima e dopo il trapianto? E se dovessi descrivere il tuo isolamento con una sola parola, che parola useresti? Non valgono parolacce.
M. M.: Quando abbiamo scoperto Giuda, la vera incognita era riuscire ad arrivare al giorno del trapianto, più che sopravvivere dopo. L’immensa fortuna che ho avuto, dall’inizio di questo percorso fino ad oggi, mi ha permesso non solo di arrivarci, ma di arrivarci anche molto bene. Nonostante i cicli di chemioterapia antecedenti, ero piuttosto in forma. Stavo molto meglio. Il mese in isolamento poi è stato disumano. Questa è la parola che userei per descriverlo. Però è quello che mi ha permesso di guarire. Che dire, il fine giustifica i mezzi. E anche se mi sono sentita un po’ morire, perché da sola sarei morta, ricevere il midollo di mio fratello mi ha aperto gli occhi su una vita molto più ricca di prima, una vita in cui l’unione fa la forza, appunto.
S. G.: Un’ultima domanda, per concludere con quell’aria di leggerezza e positività che ti si respira attorno nonostante tutto. Ora sei guarita, la tua bella chioma bionda è tornata, sei insegnante di yoga, lavori, sei iscritta in palestra, hai in mano il tuo presente e puoi più o meno gestire il tuo futuro in linea con ciò che vuoi dalla vita. Insomma, Giuda lo hai messo a tacere e scaraventato all’angolo. Ma tra le cose che gli diresti, ora che non può farti del male, ci sarebbe anche un grazie?
M. M.: Sì, certo. Con Giuda ho scoperto l’umanità di cui siamo capaci, l’amore che sappiamo dare, le cose belle che sappiamo fare. Adesso vedo il tempo passare e lo so riempire. Se voglio fare una cosa, la faccio. Ho tanti piani e progetti. E non mi interessa sapere se riuscirò a fare tutto quello che voglio fare, se vivrò abbastanza a lungo da poterlo fare. Mi interessa avere una vita larga, una vita piena di desideri e azione, adesso. Avrei forse potuto imparare tutto questo in un altro modo? Certo, ma mi è toccato di impararlo così. Almeno sono sicura di non scordarmelo. E poi Giuda è un’ottima storia da raccontare per fare iscrivere nuove persone al Registro dei Donatori di Midollo Osseo. E’ una malattia che aumenta la probabilità di sopravvivenza di altre persone. Bellissimo.