Versi di dissipazioni, vacanze, sfumature, rarefazioni: Indice sommario di sbiadimento (peQuod, 2022) è un esordio poetico di una ricchissima finezza lessicale, semantica, evocativa. La sua articolata struttura, il suo coagulo di senso e il suo aperto - ma non invasivo - richiamo ad esperienze poetiche soprattutto novecentesche dà voce ad una penna consapevole, autonoma e originale, quella di Pietro Polverini.
Il libro sarà presentato ad Ancona martedì 21 giugno p.v. nell’ambito del festival “ La punta della lingua ”.
Pietro Polverini è laureato magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Macerata e laureando in Filologia moderna. Ha all’attivo contributi accademici dedicati a Patrizia Valduga, Vivian Lamarque, Pier Vittorio Tondelli. Svolge l’attività di redattore per la rivista «Mediumpoesia». Alcuni suoi versi sono apparsi su «La Repubblica» nell’ambito della rubrica a cura di Gilda Policastro, La bottega della poesia.
Lucia Copparoni: Indice sommario di sbiadimento non è una raccolta di poesie, ma un vero e proprio libro di poesia. Al lettore è infatti subito manifesto il progetto macrotestuale che va a tracciare nell’opera un raffinatissimo gioco di intarsi: le pagine mostrano sia scopertamente, sia in filigrana una struttura sottile, trasparente alla maniera del cristallo ma anche compatta, capace di restituire un flusso di senso. Cosa ti ha condotto a tutto questo?
Pietro Polverini: Fin dalle prime prove di composizione, riconducibili oramai a una decade fa, durante i primi anni universitari in Filosofia, il desiderio embrionale era di scrivere un libro di poesia, cercando di valicare il perimetro della raccolta. Per molto tempo ho accatastato con solerzia lacerti, testi, componimenti ma ne riconoscevo la natura eterogenea e sincretica. Poi, due anni fa, in una circostanza avulsa dagli uffici letterari, in me si è condensata in maniera non deliberata la locuzione “indice sommario di sbiadimento”. L’appuntai su un foglietto e lo lasciai in tasca. Più in là mi resi conto che questa sequenza sintagmatica aveva aperto, forse spalancato, un nuovo “campo di senso”, una regione semantica da perlustrare. Da qui è sorto un numero ponderoso di testi, poi selezionato e collocato nella serie triadica delle sezioni, secondo una precisa dispositio. Concluso il lavoro di scrittura, ho individuato il soggetto del libro: si potrebbe parlare della zona di intersezione tra “perdita” e “memoria”. Sicuramente, negli anni di scrittura, ha agito in me, sottotraccia, la lettura di un passo dell’Ontologia della libertà di Luigi Pareyson in cui si parlava di memoria come di «un’immensa necropoli in cui son sepolte le inerti e defunte creature del tempo» ma anche come «uno smisurato forziere colmo di ignorate ricchezze, una pullulante vita sotterranea pronta a rigermogliare con intatto vigore».
LC: L’elemento macrotestuale che hai iniziato a sviscerare si palesa fin dai titoli. Indice sommario di sbiadimento è una locuzione piuttosto criptica e disarmante, che evoca una compattezza soffusa di ciò che si troverà raccontato nei versi. Anche le sezioni interne sono aperte da titoli: Claritate novi sideri, La storia delle nostre vacanze, Ingrediamur in caliginem. In che modo i titoli raccontano e raccolgono il libro?
PP: Come già accennato, il libro abbozza un’ipotetica morfologia della memoria. In Claritate novi sideris la centralità è stata assegnata al ricordo eveniente, tracimante, mai a disposizione del soggetto che lo subisce. In questo caso ho scelto come epigrafe per un componimento un verso di Betocchi che dice «scegli la rosa della tua memoria». Di fatto, nel covone infittito dei ricordi, alcuni hanno la forza di interrogarci in maniera anomala: metaforicamente ne ho parlato come di uno “stelo” che “perde liquore”, un “piccolo punto” che ci chiede di ritornare là, “dove si era tutto”. In questo caso c’è come silente ipotesto il celebre sonetto di Giovanni Della Casa, O dolce selva solitaria, amica. La seconda sezione, La storia delle nostre vacanze, nasce dalla fusione di tre esperienze letterarie: Un posto di vacanza di Vittorio Sereni, Preparativi per la villeggiatura di Remo Pagnanelli e Belluno di Patrizia Valduga. Il ricordo, in questo caso, diventa esperienza della mancanza, recuperando l’etimo originario del verbo latino vacare. La terza sezione prende il titolo da un’espressione di Bonaventura da Bagnoregio: “ingrediamur in caliginem” ossia “ingresso in ciò che è oscuro”. È la forma più ampia di sbiadimento perché si oltrepassa la boa del futuribile e si riflette sulla perdita della memoria, quindi delle parole – senza sapere quali saranno le ultime che vivranno in noi - fino a giungere alla dissoluzione del soggetto.
nulla per me avresti potuto fare
tu che tutto hai tentato di fare.
non nerissima quiete, nonnulla,
lumeggiatura portata al principio
nell’ampio compasso di riso
null’annulla il sopore, il cuore
annotato a notte sul nucleofiore
di spettro, l’atrio annerito dal
mancato oblivione de’ nostri cari.
Annerito dal nero che avanza
nulla per me avresti potuto fare
tu che tutto hai tentato di fare.
LC: Hai citato alcune esperienze poetiche che hanno tracciato un solco nella tua opera. Nel corso dei tuoi studi hai approfondito molto l’opera di Amelia Rosselli e di Antonella Anedda: Quale impatto hanno avuto nel tuo modo di far poesia? In generale, quali sono le esperienze poetiche che maggiormente riverberano nella tua produzione?
PP: L’incontro con l’opera di Amelia Rosselli è stato fondamentale. Con nitore ricordo il momento in cui avvenne: in un piovosissimo pomeriggio di una decina di anni fa, stavo leggendo un’antologia di poesia del Novecento sul letto. Lessi questi versi: «C'è come un dolore nella stanza, ed è |superato in parte: ma vince il peso degli oggetti, il loro significare | peso e perdita». Di lì uno spalancamento o un’intensificazione dell’essere. Ho frequentato così per anni la sua opera tanto da farne oggetto della mia tesi di laurea magistrale in Teorie dell’arte, indagando la connessione tra forma e ossessione. La sua è una poesia inusitata e aurorale per la lingua italiana: da apolide “alla ricerca di un linguaggio universale”, Rosselli sottopone la lingua a torsioni morfologiche e fonologiche, la costringe a deragliare dalle grammatiche, accoglie un numero vertiginoso di forestierismi, crea fiotti di neologismi proprio per «rinchiudersi nelle alchimie di un linguaggio buono a ogni altitudine», come dice nel Diario in tre lingue.
Di Antonella Anedda ammiro lo sguardo coraggioso e tacitiano sulla storia, l’intelligenza di una versificazione nuova, la figuralità debitrice della poesia russa di inizio Novecento. Un’altra autrice fondamentale è Patrizia Valduga: da lei viene, in maniera irreplicabile, una percezione diacronica e stratificata del fatto letterario. Grazie a lei mi sono dedicato a due numi tutelari come Giovanni Prati per l’Ottocento, e Clemente Rebora per l’inizio del Novecento.
Altre letture decisive, per rimanere nell’alveo italiano dell’ultimo secolo, sono state Camillo Sbarbaro, Carlo Betocchi, Maria Luisa Spaziani, Franco Matacotta, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Elio Pagliarani, Sandro Penna, Giovanna Sicari, Piero Bigongiari, Andrea Zanzotto, Dario Villa, Mario Luzi. Scendendo nel dimenticatoio dei secoli, ricordo le letture dei madrigali di Torquato Tasso, poi Chiara Matraini, Giacomo Lubrano, Federico Della Valle, Gabriello Chiabrera, Giambattista Zappi, Niccolò Tommaseo, Giovanni Camerana (autore pubblicato postumo). Non ho tratto alcunché invece dalla lettura di Ungaretti. Scarso è l’interesse per gli epigoni della neoavanguardia. Fondamentale poi è stato lo studio della tradizione letteraria latina: Virgilio, Properzio, Lucano e infine Ovidio, di cui propongo, all’interno del libro, una personale traduzione di un passo tratto dai Tristia. Altre esperienze decisive sono state la lettura di Alfred Tennyson, Anne Sexton e Charles Olson per l’area anglofona.
LC: Per tornare al libro, il fil rouge che cuce insieme le poesie, come si è detto, è soprattutto il tema della memoria, il quale è accompagnato da un senso di rarefazione in perpetuo sottofondo. Come presenteresti il binomio sbiadimento-memoria?
PP: Ho pensato allo sbiadimento, in rapporto alla memoria, in maniera duplice: da una parte come una forma non patteggiabile di perdita, dall’altra come esperienza abnorme di accumulo, come ricordavo citando Luigi Pareyson. Probabilmente questa diade trova una buona esplicazione grazie a un passo noto della Recherche di Proust dove si dice che «quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo» (La strada di Swann, p. 53).
non essere nessuno se
non il nessuno che hai
sempre voluto alla stregua
di un volto estinto talvolta
presente di quella presenza
che è luce, ma di più luce
senza nevischio d’ombra.
LC: Nel libro, l’elemento autobiografico affiora ma non si svela, mantiene il suo pudore e il suo segreto. Tanti rivoli attraversano e filtrano le pagine, tracce sottili segnano i loro solchi capillari: immagini vivide, come quelle legate ad un elemento acquatico, ad un senso religioso, ai colori, al sogno e al sonno, ma anche la presenza del latino. Si tratta di declinazioni dello “sbiadimento”?
PP: È plausibile pensare che l’accentuata presenza del latino sia una declinazione dello sbiadimento in termini linguistici. Questa lingua risulta barbara, sottrae dalla contingenza del secolo e ricolloca in un osservatorio più ampio. In alcuni casi mi è venuta incontro per le sue peculiarità morfo-sintattiche: nella prima sezione, una triade di poesie prende il titolo dai verbi di memoria memini e obliviscor. Questi reggono i cosiddetti “genitivi partitivi”, dal momento in cui si può recuperare solo una parte del ricordo, una sezione monca. La questione cromatica, invece, è interna al titolo stesso dell’opera perché sbiadimento deriva dall’unione del prefisso s- dal valore sottrattivo e “biado”, forma arcaica per designare una specie di blu. Di qui perdita di blu, scolorire. Per questa ragione ho scelto come epigrafe che apre il libro una poesia di Amelia Rosselli, tratta da Documento, in cui si legge: «un blu che non è nemmeno blu o comunque | è un blu chiaro chiaro chiaro». Questi versi compendiano una forma con cui si fa esperienza dello sbiadimento.
LC: Il libro disegna un itinerario verso la parola, o meglio il nulla della parola, verso qualcosa che la preceda, che venga prima del senso. Come dire, una voce, dei significanti che precedano il significato.
PP: La domanda intercetta un punto focale del libro, vale a dire il processo che conduce dalla parola al nulla, dalla memoria all’oblio, dal ricordo alla cancellazione del soggetto. L’ultima poesia cerca di cesellare analiticamente l’ipotesi dello sbiadimento linguistico, l’estinzione totale della parola per approssimarsi a ciò che Heidegger definiva “essenza del fondamento” o il teologo francese Stanislas Breton “il principio”. Questo percorso, nella poesia contemporanea, è stato seguito in parte da Silvia Bre, nel recente libro Le campane, dove si può notare una pervicace ricerca dell’origine del suono: «È da lontano che viene, e non per noi | arriva e fa pensare che fosse qui | da prima | […] | è l’origine» (p. 7). Sulla stessa linea, a tratti, si pone il recente Nessuno veda nessuno di Bianca Maria Frabotta: «Ho sognato che a nostra insaputa | sfiorasse il nulla che eravamo | e siamo, uno sciame di molecole | una materica memoria senza ricordi. | Un’afona voce mai udita pronunciò | senza tatto l’annunzio ferale» (p. 9).
LC: Dove la parola tace, bisbigliano le immagini. Il libro infatti, a partire dalla copertina stessa, è corredato da numerose di esse, soprattutto tavole entomologiche e una peculiare fotografia finale. Quale dialogo intendono suggerire con i testi?
PP: Il motivo entomologico è un contraltare di tutto il percorso testuale. Gli insetti in copertina – una serie di formiche e una sola vespa a sparigliare lo sciame – stanno a indicare una presenza fantasmatica che emerge da una bica invisibile: un foro, uno zwischen che abita parola e memoria e da cui brulicano in maniera fitta, senza ordine geometrico. Le tavole entomologiche sono state inserite per evocare la simmetria tra scomposizione anatomica, ad uso d’illustrazione scientifica, e il sezionamento a cui tentiamo di sottoporre il fastello dei ricordi. In conclusione c’è una fotografia dello scrittore francese Hervé Guibert, coevo del nostro Pier Vittorio Tondelli, dove si legge in didascalia “autoportrait de lieu et date totalement oubliés”. Questa foschia rarefatta che cancella e smembra i lineamenti del volto, ricorda “l’ingresso in ciò che è oscuro” di cui parla l’ultima sezione del libro.
Per saperne di più
Polverini, Pietro, Indice sommario di sbiadimento, Ancona, peQuod, 2022.