Appena un mese fa Luca Cristiano ha pubblicato per Prospero Editore il suo primo romanzo, L’istrice. Si tratta di una storia tanto complicata quanto avvincente, godibile e radicata nel presente. C’è, addirittura, un’analogia disarmante con l’attualità: i personaggi sono reclusi in casa per la diffusione di un’epidemia. Ma si tratta di un’analogia falsa perché, quasi a ratificare indirettamente l’idea che la pandemia Covid-19 abbia inasprito le contraddizioni preesistenti piuttosto che crearne di nuove, il romanzo è stato scritto sette anni fa.

Di cosa parla, allora, L’istrice? A questa domanda il lettore darebbe risposte diverse man mano che scorre le sezioni del romanzo. Ogni sezione contiene infatti un colpo di scena, però un colpo di scena particolare: più che torcere la trama in una direzione inaspettata, Cristiano ritratta costantemente i fondamenti stessi della propria narrazione, relegando nella soggettività ciò che in un primo momento, almeno stando alle modalità enunciative del testo, sembrava oggettivo. Esperienze che sembravano dispiegarsi nel mondo si scoprono invece essere tutte interiori, e cosa sia il mondo torna a essere una questione aperta. Cristiano, insomma, più che mischiare le carte in gioco, include il mazzo, i giocatori, la sala da poker in un gioco più grande, un gioco in cui – per così dire – vincere il piatto ha un’importanza ridimensionata. E questo accade molte volte: la sala da poker, con le persone e le carte, diventa poi sottoinsieme di un gioco nuovo e tutto da definire, e così via.

D’accordo, ma la trama? A volerla astrarre dalla parallasse, dal gioco di tensione e distensione costruito magistralmente nell’intreccio, potremmo riferirla così: una mutazione genetica che riguarda in modo trasversale la specie umana trasforma gli uomini in ‘oculari’, cioè corpi interamente coperti di occhi. I mutanti continuano a poter produrre discorso e sono misteriosamente interconnessi: condividono scenari, immagini, metafore, esperienze collettive. Un gruppo di scienziati studia la loro esistenza ridotta a dolore e linguaggio. Il punto è tutto nello stabilire a cosa rimandi la produzione linguistica degli oculari: è una realtà altra? È un’approssimazione linguistica a un’esperienza che trascende l’umano e, per questo, conserva un nocciolo duro di ineffabilità, pagando il prezzo di una falsificazione dal sapore letterario? Le risposte ci sono, le scoprirà il lettore che seguirà L’istrice fino alla fine.

In questa intervista cerchiamo di conoscere l’esperienza umana e professionale di Luca Cristiano, poi ci avviciniamo ad alcune questioni poste dal suo romanzo d’esordio.

In che modo la tua formazione ti ha portato a scrivere narrativa? In che rapporto è questa scrittura con la tua attività di saggista e di poeta?

A Castelgrande, il paesino della Lucania dove ho passato i primi 24 anni della mia vita, non c’era e non c’è nemmeno adesso una libreria. Sono un lettore avido per lo stesso motivo per il quale sono un amante avido: ho fatto la fame da piccolo. La mia formazione accademica, tardiva e un po’ selvaggia, è stata anche un modo per nascondere o giustificare il fatto che mi percepisco da sempre come uno scrittore. Forse mi piace pensare che sono uno scrittore perché ho paura di vedermi in qualsiasi altra forma. Mi rendo conto che quest’ultima è una frase un po’ retorica e soprattutto stupida, in un’epoca come questa nella quale uno scrittore di mestiere quasi non si sa cosa sia, a meno che non si tratti di una pop star. Tuttavia l’intelligenza pratica non è il mio forte. Mi ci adatto perché non voglio morire giovane. Così, a forza di adattarmi, sono arrivati lo studio e i saggi critici, che sono la versione socialmente accettabile della mia esistenza psichica. Ho sempre scritto sia poesia sia prosa. Fino ai trent’anni i romanzi mi sono morti a metà strada. La critica letteraria è arrivata perché all’università mi veniva bene ed era un modo per non destare troppo sospetto e integrarsi. Sento che la mia coscienza si trova a suo agio nel tempo lungo della parola scritta e pensata. A quattordici anni ero così cretino da dare per scontato che a 20 mi avrebbero pagato per scrivere romanzi. Verso i ventiquattro anni mi sono trovato un lavoro nei servizi sociali. Mi è stato molto utile, visto che l’autismo è uno dei temi ricorrenti dei miei libri. Soltanto dopo i venticinque anni ho iniziato a puntare alla laurea in letteratura e al dottorato di ricerca, che sono arrivati, in sequenza, cinque e sei anni dopo.

Va anche detto che leggere e scrivere per me sono funzioni vitali primarie (lo so che non è vero, ma solo perché la gente me lo spiega di continuo). C’è poi il fatto propriamente sociale: studiare e condividere le cose che si imparano sono cose piacevoli e utili. Mi fanno sentire di essere anche io un ‘cristiano battezzato’ e non una bestiola di novanta chili fatta solo di sensazione, memoria e fantasia.

Hai scritto L’istrice sette anni fa. Perché viene pubblicato solo ora?

Prima di tutto perché sono un pessimo revisore di me stesso (mentre sono bravo a correggere ciò che scrivono gli altri). Poi perché si tratta del mio primo romanzo e forse era giusto lasciarlo sedimentare un po’. Ma soprattutto perché quando arrivava il momento di sistemare il testo, mi vergognavo e trovavo una scusa per non farlo. La scusa migliore era che tanto non ci avrei guadagnato niente. Per fortuna mi sbagliavo.

Hai parlato della lettura e della scrittura come di funzioni vitali primarie. Della scrittura parleremo abbondantemente. Vuoi dirci qualcosa sulla tua storia di lettore?

Per trent’anni ho letto moltissime traduzioni. Questo mi ha fatto malissimo a livello di stile, perché non volevo assomigliare agli italiani e gli stranieri non li sentivo parlare con la loro voce autentica. In più, non è che io mi sia formato sulla prosa dei grandi traduttori. Mischiavo tutto. Da una decina d’anni mi sforzo di essere meno esterofilo e di leggere in lingua originale almeno inglesi e francesi. Questo, mi pare, ha reso la mia prosa almeno decente.

Andando in ordine cronologico, direi che il primo libro veramente importante della mia vita sia stato una grossa enciclopedia degli animali per ragazzi. Però mi sa che non c’erano istrici, tra le sue pagine. A 13 anni al supermercato mi sono fatto comprare da mia madre il volume di racconti di King Incubi e deliri. Non sapevo chi fosse l’autore. Mi piaceva come suonavano le due parole una attaccata all’altra: “incubi e deliri”. La fascinazione per King non mi è mai passata.

A quattordici anni andai con mia madre a comprare i libri per iscrivermi al liceo classico. Ricordo che i miei genitori dovettero spendere più di un milione. Credo che il senso di colpa per aver causato quell’esborso mi resterà attaccato addosso finché campo. Avrei potuto fare come gli altri e comprare i libri usati, ma nessuno me lo aveva detto. Nella libreria scolastica dove andammo come in pellegrinaggio (nessun castelgrandese si era iscritto al liceo classico da una ventina anni, quando decisi di andarci io), vidi un libro che con la scuola non c’entrava niente e chissà come era finito accatastato tra i manuali: Viaggio al termine della notte. Lo feci aggiungere al conto guadagnandomi ulteriori sensi di colpa. Ero abbastanza viziato e molto ingenuo.

Leggere Céline fu un passaggio decisivo, scoprii che in prosa si poteva fare veramente ogni genere di cosa, che non c’erano limiti, ma solo l’obbligo di fare sul serio.

Con la scuola, vennero i viaggi da Castelgrande a Potenza. Facevo più di tre ore di autobus al giorno, tutte buone per leggere. In più avevo finalmente accesso a librerie, biblioteche ed edicole. Leggevo parecchio sotto il banco, nell’ora di matematica, soprattutto Rimbaud, Nietzsche e Freud. La professoressa se ne accorgeva, ma le stavo simpatico e mi lasciava fare. Questo tra i quattordici e i quindici anni. Poi persi la testa per una compagna di classe comunista, che però mi preferiva di gran lunga un tossicomane con una svastica tatuata sull’avambraccio. Iniziò a istruirmi alla rivoluzione prestandomi i diari di Che Guevara. Poi mi portò Sartre e non so che altro. Leggevo anche due o tre libri al giorno. Al liceo, a un certo punto, iniziai a saltare la scuola per andare in biblioteca. Avevo voti molto alti, tranne che in matematica e chimica, ma ho rischiato la bocciatura per le assenze. In biblioteca lessi i Beat, Busi, una marea di saggi e biografie, tutta la poesia che potevo.

Verso i diciannove anni iniziai a esagerare. Credo di aver letto metà della Bibbia in una notte, una volta. Non fu la lettura a portarmi all’esaurimento, ma contribuì. Nel frattempo mi ero trasferito a Bologna. Dopo un annetto di depressione anche acuta, mi ruppi un braccio, probabilmente secondo la logica della vecchia barzelletta nella quale uno psicanalista freudiano incontra un altro psicanalista freudiano, il secondo ha un braccio rotto e il primo gli chiede: dov’è che non vuoi andare? Io non volevo andare in nessun posto. Tornai a casa da Bologna, mi iscrissi a lettere all’università di Potenza e continuai a leggere e scrivere in maniera selvatica per cinque o sei anni. Nel frattempo lavoravo e studiavo. Ricordo che leggevo tanto gli americani, Ellis e Wallace su tutti, ma anche Cicerone e Ariosto. Houellebecq e Camus mi aiutarono molto: scoprii come si potevano conciliare nitore espressivo e desiderio. Non va di moda tra i colti, ma devo dire che sapevo Bukowski a memoria. Penso sia soprattutto un grande poeta. Leggevo Dostoevskij trascurando stupidamente Tolstoj, che invece ora amo molto. Leggevo tutto quello che era grande, classico, strano o ribelle. Credo sia una cosa abbastanza comune.

A un certo punto una mia amica mi ha prestato La cipolla di Antonio Moresco. Ho studiato questo autore per i 12 anni successivi e, nel frattempo, mi sono innamorato della prosa e del pensiero di Walter Siti. Con l’aiuto di Carla Benedetti, di gran lunga la mia scrittrice italiana preferita, li ho fatti incontrare davanti a studenti e professori dell’università di Pisa mentre facevo il dottorato e, quando insegnavo all’Università di Praga, sono stati entrambi ospiti dell’Istituto Italiano di Cultura di quella città.

Il tocco finale alla mia formazione lo ha dato l’amicizia ormai decennale con Luigi Blasucci, uno dei maggiori italianisti di tutti i tempi. La sua competenza metrico-stilistica non ha uguali. Cerco sempre di imparare a memoria tutto quello che mi dice e di tenerlo presente mentre scrivo.

La tua scrittura è stata avvicinata a quella di Leopardi, Kafka, Moresco per quanto riguarda la vocazione assolutistica ed ‘eroica’, in cui le dimensioni dell’io crescono a dismisura rispetto a ciò che succede in altre forme contemporanee. Pensi che questa idea colga il tuo lavoro?

Sì, ma a patto che si tenga fermo un punto: per uno scrittore serio l’io è uno strumento di lavoro almeno quanto lo è un trattore per un contadino. Se le inevitabili pulsioni narcisistiche non vengono sottomesse allo scopo di rendere dicibile qualcosa di ben più grande del nostro misero egotismo, meglio andare a fare i ganzi in discoteca. Certo, Kafka aveva un ego ipertrofico e spaventoso, capace di divorare chiunque gli si avvicinasse. Moresco e Leopardi, ognuno a suo modo, hanno dovuto anche loro fare i conti con questa deformazione che deriva direttamente e quasi inevitabilmente dal percepirsi scrittori (o, peggio, poeti). Tuttavia la scrittura di questi grandi autori ha puntato così in alto che è riuscita a sublimare simili automatismi psicologici.

Fin dall’inizio del processo creativo, le dimensioni dell’io, come dici, crescono a dismisura. Ci si mette davanti a una pagina bianca pretendendo o sperando, in maniera più o meno inconsapevole, che il resto dell’umanità si ponga a sua volta in posizione di ascoltatore silente e auspicabilmente devoto. A quel punto, è la scrittura che fa la differenza e la scrittura può addirittura emendare la tua interiorità danneggiata dal narcisismo. Se lavori bene con il linguaggio verbale scritto, la tua coscienza riesce a mandare in frantumi l’ego e andare molto oltre. A quel punto ti dirigi dalla parte di Kafka (certo raggiungerlo è un’altra cosa). Se per scelta o per debolezza di carattere prendi la direzione opposta e lasci che l’ego si mangi il mondo, se ti va di lusso diventi Scurati. Ma di solito si riesce a cadere molto più in basso.

Io non credo di avere un ego propriamente mostruoso, perché per quanto i miei processi cognitivi tendano ad accentrare il mondo in una coscienza pericolosamente introversa, ho un grande amore per gli oggetti, la lingua, le frasi. Amo moltissimi il punto di vista degli altri, anche se poi, quando scrivo, tendo a usare la prima persona. Per esempio, nel racconto Riassemblare un passero morto, che sta nella Danza delle vergini e delle vedove, faccio ricordare all’io narrante l’episodio al quale allude il titolo. Il protagonista spiega come ha ucciso con una scopa un uccellino e come poi ha provato a rimettere insieme il cadavere. Ecco, per esempio, questo episodio l’ho rubato dalla biografia di un mio amico. Così, nell’Istrice, a un certo punto, il personaggio che secondo la logica apparente del testo il lettore dovrebbe identificare con me (prima di tutto perché scrive), viene accusato dal suo coinquilino di aver vissuto in una casa comprata con i fondi pubblici destinati a una ricostruzione post terremoto. Si dice che questi soldi non gli spettavano, ma il padre ha dichiarato il falso per averli (ha fatto passare un piccolo fabbricato distrutto dal sisma per una casa di lusso). Ecco, nella realtà, le cose sono andate esattamente al contrario. Durante la mia adolescenza ho condotto un’appassionata e anche rischiosa lotta politica contro questo tipo di truffe. Quando però ho iniziato a scrivere il libro, mi è venuto spontaneo inserire in quella che avrebbe dovuto essere la coscienza del mio alter ego il dato biografico di uno dei miei nemici giurati. Il mio punto di vista, accusatorio, si è così trasferito all’interlocutore, che tra l’altro è fatto per risultare molto antipatico. Dato che i personaggi dell’Istrice sono costretti a stare chiusi in casa (il che, va ribadito, non ha niente a che fare con il recente isolamento domestico da Covid, visto che il libro è stato scritto sette anni fa), il tema della reclusione domiciliare mi interessava molto e così anche l’idea delle case dei ricchi, che in qualche misura sono sempre case rubate (al di là della volontà di chi le abita). Non mi interessava però difendere il punto di vista del moralista, avevo bisogno di straniare l’onestà, metterla in discussione come solo l’arte può fare. Il risvolto paradossale e imprevisto di questa scelta quasi irriflessa è che, ora che la realtà esterna si è presa la briga di assomigliare a quella del libro, mi ritrovo ad aver anticipato il momento storico nel quale la riduzione dell’uomo a ciò che possiede si è manifestata al massimo grado. Siamo stati, per tre mesi, letteralmente limitati alla quantità di spazio che possediamo, alla quantità di energia elettrica e giga che possiamo farci arrivare in casa. Come spesso accade, credevo di stare parlando di una cosa e invece stavo parlando di tutt’altro.

Perché trovi che abbia senso, oggi, costruire un romanzo la cui trama, piuttosto che da un intreccio in senso classico, è composta da nuclei tematici fortemente simbolici?

Come ho iniziato a dire parlando di Céline, io credo nell’infinità plasticità della forma romanzo più di quanto creda nella mia esistenza fisica. Quindi ogni possibile variante, se riesce a dare un’immagine coerente di mondo (diciamo un buon modello finito del mondo vero, indefinito), va bene. Non accetto grammatiche prescrittive in questo senso, quindi non dico che il mio modo di mettere insieme le immagini al servizio della storia sia “quello che deve fare la letteratura”. Sento spesso questo sintagma, forse qualche volta l’ho persino usato io, ma me ne sono pentito subito.

Per rispondere alla tua domanda, però, e dirti come mai io, personalmente, ho sentito il bisogno di fare così, ti posso dire che è così che lavora l’inconscio (che io credo ancora esista, mentre la coscienza esiste sempre meno). Il lavoro dello scrittore, per come so farlo io, consiste nel formalizzare questi processi associativi a base iconica e ritmico-musicale in un racconto che abbia piena e legittima consistenza narrativa. Cioè sognare con il lettore e poi venire a capo del sogno, senza cavarmela troppo facilmente con la fuga onirica. Per dirlo in modo semplice, credo nelle storie, anche se i miei amici che fanno critica letteraria spesso, quando lo dico, mi guardano come si guarda un bambino stupido. E in parte hanno ragione, perché in giro di storie ce ne sono troppe. Però, insomma, io sono fan di Proust e Stephen King, oltre che di Beckett, e voglio dire al mio lettore anche cosa c’era una volta, come è iniziata la faccenda, come si è complicata e come si è risolta.

Ne L’istrice la rappresentazione della realtà è sempre mediata da un filtro deformante. Ai contesti narrativi ostentatamente irreali (deformazione per difetto) si alterna il gusto per la descrizione di particolari crudissimi e desolanti (deformazione per eccesso). Perché senti la necessità di queste complicazioni diversissime ma convergenti?

Non lo so. Ora sto scrivendo sia testi più piani, sia testi più deliranti che uniscono i due aspetti di cui parli. Certo, nell’Istrice le cose funzionano sicuramente come tu dici. Si vede che ho sentito che sia la deformazione metaletteraria sia l’attrazione per gli aspetti creaturali hanno un ruolo fondamentale nella definizione di cosa sia un essere umano di questi tempi. Per esempio, cosa siamo in rapporto al dolore e alla morte? Il processo di elaborazione del lutto ormai consiste quasi solo nel ritrarsi. A me interessa guardare le cose per come sono senza impazzire. Se di questa mediazione non si occupano gli artisti, chi se ne occupa? La psicanalisi, forse. Ma quella è roba da ricchi e comunque medicalizza il tragico, il che non mi sta bene, dato che il tragico è anche espansione dell’essere e non solo un fastidio sociale.

Se non possiamo guardare faccia a faccia i nostri incubi e il nostro rapporto con la deriva semiotica mentre leggiamo o guardiamo un’immagine (ferma o in movimento), quando possiamo farlo?

Al di là di facili ma fourvianti analogie con l’attualità, io credo che la pandemia nel tuo romanzo sia una declinazione particolare di un tema più profondo e strutturante: quello della spersonalizzazione, del possibile, talvolta reversibile compenetrarsi e confondersi delle specificità individuali. La collego alla serialità dei corpi sospesi, ai non-luoghi, all’altro dall’umano (l’animale investito, l’individuo post-mutazione, i cani neri). Cosa ne è dell’individuo nel tuo romanzo?

Il libro, come abbiamo già detto entrambi, è stato scritto sette anni fa, quindi l’analogia con il presente è, per dirla con le parole di Siti ma senza la sua ironia “un’incredibile coincidenza” (dice qualcosa del genere in Scuola di nudo, a proposito della coincidenza tra il suo nome e quello del protagonista del libro).

Questa domanda, come le precedenti, mi mette un po’ in difficoltà perché presuppone che io abbia il controllo del senso del testo. Nessun autore può ambire a tanto e, se è così stupido da farlo, credo che abbia ottime possibilità di candidarsi alla mediocrità. Bacthin lo ha spiegato molto bene nei suoi saggi sulla polifonia e sull’autore e l’eroe. Chi scrive controlla forma e struttura. Il senso delle immagini sta nel circolo ermeneutico, nella triangolazione tra sguardo dell’autore, sguardo del lettore e libro. In una parola, nel mondo. Ciò che posso dirti è che spero tu abbia ragione: vorrebbe dire che questi sette anni di ossessione, euforia e vergogna per i cani neri, per l’istrice, per gli oculari, per la monetina e per le altre immagini mitiche che fanno il romanzo non sono stati affatto inutili.

La questione dell’individualità si basa secondo me su una serie di forzature che hanno costretto la modernità a un autoinganno molto coriaceo. Più che la categoria di individuo, che si ottiene per sottrazione, mi interessa il singolo, che è infinitamente moltiplicabile e può far confluire nella sua voce e nel suo pensiero più esperienze, un po’ come facevano i poeti antichi, un po’ come hanno fatto Beckett e Moresco nell’Innominabile e in Canti del caos. L’individuo consapevole è un’astrazione necessaria alla democrazia e al mercato. Si tratta di un’ottima cosa, se si parla di politica. Quando però si mobilita l’intuizione estetica, l’individuo diventa un’astrazione funzionale al solo realismo sclerotizzato. Personalmente, soprattutto in un’epoca che ha internet ma non ha un analogo del coro tragico e del canto epico, trovo molto più interessante la forza espansiva di una singolarità capace di assumere nella sua espressione il ronzio dell’inconoscibile coscienza collettiva che ci abita.

Francesco Brancati ha scritto riguardo ai tuoi racconti che “l’io della voce narrante assume su se stesso tutta la responsabilità di stabilire coordinate di realtà quasi mai vincolate a parametri di riproposizione oggettiva della materia”. Ne L’istrice mi pare tu faccia un passo ulteriore: il senso delle singole sequenze narrative viene costantemente ritrattato attraverso la loro inclusione in un sistema più ampio. Questo processo di risignificazione per allargamento dell’orizzonte si ferma solo quando l’espressione si incaglia nell’afasia. Cosa ne è della realtà nel tuo romanzo?

Ci sono molte risposte tanto semplici quanto false a questa domanda. Oppure si potrebbe ribattere, alla Agassi, con un’altra domanda: cosa ne è della realtà nella realtà? Ma si tratterebbe ancora di una fuga. Una cosa che mi sento di dire è che la cosiddetta vita quotidiana attiva in noi più segni di quanti mai potrebbe farne intuire qualsiasi indiretto libero. Anche il flusso di coscienza pare, per ora, fuorigioco, rispetto alla mimesi dello spazio esistenziale e fisico con il quale siamo chiamati a confrontarci ogni giorno. Nel frattempo gli stimoli si moltiplicano fino al collasso dei linguaggi. Sembrava fosse già successo nel Novecento. Invece ora scopriamo che il peggior incubo semiotico di un neoavanguardista compiaciuto non era che un pallido presagio dell’anamorfosi attuale. Volevo formalizzare l’estetica del flusso senza esserne assorbito, ma non ne sono stato cosciente fino a quando non ho ripescato il libro per correggerlo quando l’editore me lo ha chiesto. Mentre scrivevo ero mosso solamente dal bisogno di salvarmi la mente e raccontare la storia che mi tormentava. Quando però ho rimesso mano alle bozze, l’anno scorso, mi sono accorto delle dinamiche di costruzione di senso di cui parli e ho aggiunto i due corsivi che ora sono l’inizio e la fine del testo e servono esattamente a includere la costruzione di senso in un orizzonte non solo più ampio, ma anche aperto e contemporaneamente (spero) leggibile. Per fortuna mi era già venuta fuori, fin dalla prima stesura del 2013, una storia-storia, con tanto di colpo di scena finale.
Se invece della curiosità di sapere come andava a finire, avessi avuto come motore della scrittura i presupposti teorici alla base della tua domanda, credo che avrei tirato fuori un libro molto brutto. Tuttavia se le frasi, il racconto e la trama non mobilitassero l’orizzonte d’attesa al quale ti riferisci, il libro sarebbe forse molto più povero.

L’istrice investito per metà è metafora dell’intera specie umana: una parte morta che è inerme, una parte viva che è in condizione di precarietà e cerca di interagire con la parte inerme. Quale pensi sia la portata del tema ‘rapporto tra vivi e morti’ nella letteratura contemporanea, e come l’hai declinato?

La letteratura (non solo quella attuale) ha un rapporto peculiare con la memoria e la tradizione. Questo è noto a tutti. Leggendo e scrivendo riportiamo i morti in vita e ci parliamo, come dicevano, ognuno a suo modo, Proust e Machiavelli. La letteratura ha, d’altro canto, un rapporto altrettanto peculiare con la posterità. Persino oggi che il futuro non è più quello di una volta, chi compone un romanzo difficilmente sente di parlare solo ai suoi contemporanei. Per quello ci sono le chiacchierate, gli articoli di giornale, le mille forme dell’interconnessione che stanno portando a una nuova rivoluzione cognitiva i cui effetti ho provato a mettere in figura nell’Istrice. Mentre la forma-libro, che lo ammettiamo o no, ci serve anche per dire qualcosa a chi ancora deve nascere e per illuderci di poter essere un po’ meno morti di chi muore senza scrivere. Nella maggior parte dei casi i libri vanno al macero senza aver detto un bel niente, ma il tentativo secondo me è sempre sotteso e l’idea di potersi spingere nel futuro è impossibile da sopprimere. In parte si tratta di vanità, in parte del fatto che dobbiamo negarci la nostra finitezza per poter sopravvivere. Ma, se ci pensiamo bene, si tratta anche di una forma di connessione che riattiva il pensiero dei morenti nel pensiero di quelli che ancora devono nascere. Certo, di prendersi cura del futuro dovrebbero occuparsi la scienza e la politica, però a me la vita l’hanno salvata anche Omero e Rimbaud, non solo Pasteur e Marx. La creazione poetica e romanzesca si basa sull’illusione? Apparentemente sì, ma quanto è illusoria un’illusione che, da migliaia di anni, produce effetti tanto concreti?

Se ogni testo chiama un certo tipo di lettore, il tuo lettore chi è?

Dai primi riscontri, che sono ottimi, mi sto accorgendo che il libro può benissimo piacere a persone alle quali non capita mai di pensare alle cose che ci stiamo dicendo in questa intervista. Per anni sono stato uno scrittore difficile. Questa volta sono riuscito a dire cose molto difficili in modo semplice. Non facile, magari, ma essenziale per quanto mi è riuscito. Credo che se un romanziere riesce a non scrivere ‘troppe parole di troppo’ e a costruire una nuova immagine del mondo in cui vive, può, almeno in linea teorica, rivendicare il diritto di rivolgersi a chiunque abbia un discreto livello di alfabetizzazione. Certo, i miei amici normalisti forse si stanno godendo il testo in maniere inaccessibili ai miei amici baristi: colgono le intertestualità, vedono soglie e cornici, apprezzano la complicazione ariostesca e così via. Però i miei amici baristi e altri lettori ‘non studiati’ che mi hanno contattato in rete, mi hanno fatto sapere che sfogliano le pagine “una dopo l’altra, come si mangiano proverbialmente le ciliegie”, per usare le parole che mi ha regalato Francesca Irene Sensini nella bella recensione che ha scritto per altritaliani.net. Spero non me lo stiano dicendo solo per farmi piacere!

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Luca Cristiano è nato il 16/05/1980 a Potenza e vive a Pisa. Scrive su diverse riviste accademiche e militanti. Per l’editore Effigie ha curato con Enrico Macioci Dentro al nero: tredici sguardi su It di Stephen King.  Nel 2016 ha pubblicato per Transeuropa la monografia Crema di vetro: misura e dismisura nei romanzi di Antonio Moresco.

Per Prospero Editore ha scritto la raccolta di poesie Brucia la cenere (2017), il volume di racconti La danza delle vergini e delle vedove (2018) e il romanzo L'istrice (2020).

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