Nella prima parte di questa doppia intervista, Giulio Mozzi ha dichiarato: «[negli ultimi vent’anni] la mia capacità di aggregare è precipitata». Eppure, intorno a Le ripetizioni (Marsilio, 2021), si è fatta e si sta facendo una gran quantità di discorsi – al punto che oggi, a circa due mesi dalla pubblicazione, non sembra azzardato dire che una parte importante della comunità letteraria stia attribuendo una certa centralità a questo libro, da cui sembra possibile partire (alcuni l’hanno già fatto) per riflettere su sé stessi, o su ciò che occupa lo spazio circostante.

Su un blog dedicato a Le ripetizioni, Giulio Mozzi sta raccogliendo molti di questi “discorsi” (interviste, impressioni di lettura, recensioni, post o saggi abbozzati su Facebook e proseguiti altrove…): cercherò di farne tesoro in questa introduzione. Intanto segnalo che, sullo stesso blog, è presente una generosa “dichiarazione di intenti” dell’autore, a cui rimando per una scrupolosa sinossi del romanzo.

Parlare di Le ripetizioni in poche parole è difficile, se non fuorviante. La difficoltà proviene innanzitutto dal «paradosso di un romanzo con un intreccio di alta orologeria ma in cui non c’è peripezia» (Daniele Giglioli): la storia è ferma, ma il montaggio è frenetico e vario; il gioco combinatorio di tensione e distensione, da cui proviene il «fascino» dell’opera (Sandro Campani), non ha veri punti di convergenza. In ogni pagina del testo agisce una simbiosi tra l’inestensione della storia e la capacità affabulativa delle soluzioni formali.

Tutto ciò può essere illustrato ragionando sui personaggi principali del libro. Essi posseggono sì un’indiscutibile profondità umana – cioè un’ambiguità, un’indecidibilità di fondo – eppure restano tutti, sempre, inquadrabili entro un certo “tipo” psicologico che attraversa senza mutare le circostanze più diverse. Ciò è possibile perché a fungere da “colpo di scena”, o semplicemente da vischio per il lettore, è talvolta il disvelamento delle “vite segrete” che più di un personaggio conduce all’insaputa di altri personaggi. Tale disvelamento è ineffettuale sul piano del racconto (salvo in una circostanza, ciò che è celato rimane segreto), ma è efficace nel conferire dinamismo all’esperienza di lettura. Esso costruisce i personaggi non in estensione, ma in profondità – e può farlo grazie al modo in cui sono distribuite le plurime e polimorfe incarnazioni di un narratore in fondo onnisciente, che come tale però non si dà quasi mai (anche di questo parleremo nell’intervista).

Se di Le ripetizioni non si può parlare in poche parole, è anche perché lo stile, in tutta la sua varietà, risulta predominante non meno del montaggio. Esso, secondo Walter Siti, «riassume la tradizione del Novecento, da Proust al nouveau roman». Ma si tratta, diciamo così, di un “riassunto” antologico più che sintetico: come ha notato Gianluigi Simonetti, infatti, in questo romanzo «Mozzi rinuncia ad avere quella che si chiama una “voce”, un timbro peculiare»; egli preferisce invece conferire a ogni capitolo, oltre per esempio a un assetto narratologico, anche una conformazione stilistica particolare. Ciò è evidentissimo nella sintassi, coi due estremi (ampio periodare introflesso a seguire le pieghe della memoria; brachilogica e referenziale registrazione di eventi esteriori) che coincidono con apertura e chiusura del libro.

Le ripetizioni consiste in «un enorme e potenzialmente infinito gioco combinatorio attorno all’identità» (Sandro Campani). Uno degli snodi fondamentali di questo gioco è la dialettica oppositiva tra caso e destino, sia interna che esteriore al piano del racconto: ora sono i personaggi che devono scegliere il valore da assegnare a un elenco di fatti che li riguarda; ora è il lettore a dover mediare tra la «vita reale» che il libro sa ben mostrare in tutta la sua illogica e ripetitiva mancanza di legami causa-effetto lineari (Valentina Durante), e l’insopprimibile coazione ad associare, a ogni tensione/distensione narrativa, il procedere di un destino.

Probabilmente ci vorrà del tempo per mettere a fuoco nei giusti termini le questioni poste da questo romanzo. Personalmente mi auguro che Le ripetizioni possa avere un’ampia ricezione dentro e fuori la comunità letteraria, perché credo che la disinvoltura della sua forma e l’inesorabilità dei suoi contenuti siano qualcosa di davvero importante, che merita di essere diffuso e dibattuto. Per adesso, in questa intervista, ancora così felicemente stupito dalla bellezza di questo libro, ho seguito innanzitutto la mia curiosità di lettore – sperando, come sempre, di intercettare la curiosità altrui.

Antonio Galetta: Su Facebook, a ridosso della pubblicazione di Le ripetizioni, ha pubblicato due serie di post strettamente legati tra loro, praticamente due saggi parcellizzati: «cronaca di un romanzo» e «divagazioni su un romanzo», la prima per raccontarne la storia redazionale, la seconda per approfondirne qualche aspetto particolare (fonti, titolo ecc.). Con quali intenti – a parte, ovviamente, l’autopromozione – ha scritto questi due testi?

Giulio Mozzi: Ma: più che fare autopromozione, avevo voglia di raccontare alle persone che hanno la bontà di seguire il mio lavoro come mai, per scrivere questo benedetto romanzo, ci ho messo ventitré anni; e avevo voglia di ringraziare le persone che in diversi momenti e in diversi modi mi hanno aiutato. Tra l’altro, tra i miei contatti Facebook ci sono anche molte persone che hanno seguito i miei corsi di scrittura e narrazione: per le quali, ho pensato, il racconto della genesi di quell’opera che il loro insegnante considera un po’ come il coronamento della propria carriera di scrittore poteva risultare interessante.

Ho pubblicato il racconto a puntate brevi perché una nota in Facebook di ventimila battute è poco credibile; anche nel piccolo blog che ho allestito per raccogliere la rassegna stampa relativa alle Ripetizioni – è una mia vecchia abitudine, l’ho fatto anche per altri miei libri – mi è sembrato opportuno dividere il racconto in spezzoni – più lunghi di quelli pubblicati in Facebook, perché leggere un blog non è come star dietro a un social media. E poi, certo, raccontare una storia è raccontare una storia: mi divertiva l’idea di raccontare una storia a puntate…

Poi, naturalmente, c’è il fatto che non appena finisco un lavoro comincio a domandarmi: «Che cosa ho combinato?». E scrivere la storia della lunga gestazione delle Ripetizioni mi è stato utile – come mi è utile sentire il parere degli amici, leggere le recensioni, cercare le risposte per le interviste, e così via.

Tutt’altra storia è quella delle immagini ripetitive che a un certo punto ho cominciato a pubblicare nel mio profilo Instagram. Io sono interessato da sempre alla ripetizione (avevo vent’anni, quarant’anni fa, quando scoprivo per esempio la musica che oggi si chiama “minimalista”, e che allora era chiamata brutalmente “ripetitiva”: Steve Reich, Philip Glass, ec.) e sono interessato da sempre sia all’uso ingenuo delle tecnologie (banalmente, perché non sono capace di farne un uso raffinato) sia a capire quali possono essere le azioni “artistiche” che le nuove tecnologie permettono. Instagram, come pressoché tutti i social media che ho frequentato, mi pare si presti moltissimo alla ripetizione. E mi divertiva l’idea di produrre, quasi all’infinito, nuove immagini per Instagram, anche usando solo e soltanto l’Instagram stessa: senza fare uso del mondo esterno. Usare l’hashtag #leripetizioni è stato un gioco facile. Per queste operazioni non ho, confesso, nessuno scopo. Sono solo un modo per riflettere.

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A.G.: Mario sembra amare libri molto diversi da quello di cui è protagonista. Le ripetizioni è stato riscritto alla terza persona nel giugno 2020, Mario dice di preferire i romanzi in prima persona (p. 128); Le ripetizioni è quantomai frammentato, Mario predilige autobiografie e memoriali di lunga estensione, testi che lo aiutino a percepire la propria vita «come un continuum senza salti e spezzature» (p. 136).

G.M.: Se è per questo, Mario a p. 191 mostra di apprezzare dei tramezzini che io detesto, e a p. 190 sembra apprezzare assai il giocare a flipper – gioco per il quale provo totale disinteresse da una cinquantina d’anni. Non mi sembra una cosa particolarmente rilevante, che un personaggio di una storia abbia gusti letterari che non coincidono con la forma o il genere della storia cui appartiene. Forse che tutti i personaggi danteschi avevano una predilezione per i poemi in terzine? La Commedia non lo dice, ma credo che possiamo immaginare che no.

Peraltro: tra i libri che nelle Ripetizioni passano effettivamente per le mani di Mario o di Viola – perché anche lei legge, anche se non ci viene mai mostrata nell’atto di leggere –, quanti sono effettivamente autobiografie o memoriali di lunga estensione? Nessuno, temo. Tuttavia, un certo numero di essi appartiene a una stagione letteraria – la “sperimentazione” degli anni Sessanta – alla quale sono molto legato: Arnolfini di Gian Luigi Piccioli (1970), Registrazione di eventi di Roberto Roversi (1964), Due punti di vista: romanzo di Uwe Johnson (1970 l’edizione italiana). Mi interessava, ecco, anche l’improbabilità di queste letture per personaggi come Mario e Viola. Far apparire questi libri mi serviva anche per dire – sommessamente – al lettore: ehi, se questi libri di sembrano improbabili, non è che potresti considerare improbabili anche agli oggetti presenti in scena, o le azioni compiute dai personaggi? In fondo questo è un romanzo, cioè “un mucchio di bugie”.

A.G.: Per molti versi credo che Le ripetizioni possa essere considerato un romanzo sperimentale; lei stesso ha dichiarato che lo si potrebbe leggere come un «romanzo combinatorio» o come un «romanzo intrecciato». Tuttavia la sperimentazione è tutta nella struttura – nella frammentazione, nel montaggio, nella distribuzione dei temi –, mai nel lessico, raramente nella forma frasale. Perché?

G.M.: Le ripetizioni poteva essere considerato un “romanzo sperimentale” negli anni Sessanta del secolo scorso, forse; oggi credo che possa essere considerato un romanzo che fa un uso neutro, per così dire depoliticizzato (o deavanguardizzato), di procedimenti di scrittura che furono effettivamente messi in esperimento negli anni Sessanta. Si parva licet, dietro Le ripetizioni ci sono il Capriccio italiano (1963) e Il giuoco dell’oca (1967) di Sanguineti, il Tristano (1966) di Balestrini, Tanto gentile e tanto onesta (1967) e Il metodo (1970) di Gaia Servadio, Triptyque (1973) e La route des Flandres (1960) di Claude Simon, Autour de Mortin (1965) di Robert Pinget, Composition n. 1 (1962) di Marc Saporta, eccetera, e poi non solo narrativa: le opere poetiche di Michel Butor, la musica di Luciano Berio, i quadri di Alberto Burri… Letture, ascolti, osservazioni che mi hanno formato – inevitabilmente, anche, potrei dire, almeno in parte, contro la mia volontà. E mi dispiace aver frequentato così poco, quasi niente, all’epoca, il teatro.

Nessuna sperimentazione, dunque, secondo me: ma l’impiego di tecniche ormai consolidate (e diventate, mi pare, piuttosto popolari: più nel cinema che nella letteratura, però, forse, questo va ammesso). Quanto al fatto che il lessico sia normalmente semplicissimo, e la forma delle frasi talvolta un po’ tirata – e molto varia da parre a parte del libro – ma sempre sintatticamente a posto, non so che dire. Lo “sperimentalismo” lessicale non mi ha mai interessato particolarmente. Mi ci sono esercitato, certo: e l’ho trovato innaturale per me. Tutto qui.

(Alcuni esperimenti, a dire il vero li ho affidati ad alcuni miei eteronomi: a Ennio Bissolati, per esempio, un bibliofilo assai bavard – «La storia del bosso» gli deve qualcosa – o a Mariella Prestante, una poeta erotica che a un certo punto defunse, e da defunta continuò ad emettere sonetti macabri e sepolcrali. Di entrambi si trovano tracce in rete: Mariella ha fatto pure un libro, Estremi amori, postume querele, uscito nel 2019 per ’round midnight. Ma qui, mi pare evidente, siamo dalla parte del gioco: magari serio, ma gioco).

Aggiungo: ho sempre pensato che la letteratura sia un’attività relazionale: è uno dei tanti modi che abbiamo per parlare con gli altri. Quindi, per me, il gesto verbale incomprensibile ha una gittata limitata: può essere usato come provocazione, può essere pubblicato come tentativo di arrivare a qualcosa che sfiora “l’indicibile” (ma ci metto le virgolette, all’indicibile), ma non credo che possa avere forza strutturante.

A.G.: Per altri versi credo che Le ripetizioni recuperi, senza appropriarsene fino in fondo perché rari, alcuni moduli tradizionali. Ne distinguo tre tipi, di cui propongo tre esempi paradigmatici.

Il primo è stilistico e consiste nella deformazione arcaizzante («i luoghi visitandi» p. 16); gli altri due sono diegetici, riguardano le modalità del raccontare, e consistono: nella costruzione di un narratore che “ha visto” ciò che racconta, e di cui il lettore può dunque fidarsi (il capitolo La storia del capufficio); nell’occasionale e sentenzioso affioramento di una “precettistica” i cui presupposti morali non sembrano riferibili ad alcun personaggio («– i desideri impossibili vanno sempre tenuti nascosti –» p. 262).

Il primo caso è bilanciato dal registro medio che predomina nel romanzo; gli altri due dalla continua variazione di focalizzazioni, punti di vista, assiologie ecc.: la maggior parte dei narratori sono più problematici, la maggior parte delle “sentenze” sono riferibili a uno dei personaggi.

Anche la centralità dell’«alter-ego» Mario, che in realtà è tale fino a un certo punto, mi sembra una soluzione in cui il modulo tradizionale è solo parzialmente recuperato. Questo rapporto dinamico tra ripresa e variazione, ad ogni modo, non mi pare inquadrabile nel contesto di una ripresa “ludica” e orizzontale dei moduli tradizionali. E allora: a quali intenti espressivi risponde?

G.M.: Non esagererei la portata di eventi che mi paiono minimi, come i «luoghi visitandi» di p. 16, che è evidentemente una battuta giocosa di Mario (del quale in quel punto si riporta un discorso). E credo che la sentenza di p. 262 non possa essere riferita che a Mario stesso. Diversa è la faccenda dei narratori.

Credo che anche il lettore più pop sia ormai abituato a leggere romanzi nei quali diversi personaggi narranti si alternano: l’espediente si trova già da tempo nella letteratura d’intrattenimento – anche nella Ragazza del treno di Paula Hawkins, per fare un esempio: un romanzo da milioni di copie –, e tra i molti testi inediti che per mestiere devo affrontare lo vedo usato a piene mani.

Nelle Ripetizioni ho tentato di fare uno spostamento: non abbiamo un alternarsi di diversi personaggi narranti, ma l’alternarsi di diversi narratori. Diversi – e, credo, subito riconoscibili – per alcune scelte stilistiche, ma diversi anche – e questo richiede una lettura più meditata – nella loro visione del mondo. In questo alternarsi c’è, inevitabilmente, anche una componente di gioco (di gioco, non di parodia). Non volevo, in questo romanzo, un narratore assente (di quelli che erano di moda fino a poco fa), né un narratore presente in scena, né… Alla fine, ho fatto un po’ di tutto.

Il primo capitolo, «La storia del bosso», è il lungo sproloquio di un narratore-banditore alla Henry Fielding.

La battuta di p. 135, nel capitolo «La storia dei viaggi in treno, 2», su Mario che parla con gli «amici del bar» «tra i quali c’eravamo noi, naturalmente, sennò non saremmo qui a raccontarvi la storia» rimanda al passaggio nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi nel quale Manzoni ipotizza che l’anonimo autore dello scartafaccio secentesco abbia ascoltato la storia di Renzo dalle labbra stesse di Renzo.

Il capitolo «Una lettera» si offre come documento privo di qualunque contestualizzazione – dunque messo lì da un narratore onnisciente – un «artefice», potrei dire con Umberto Casadei – che però tiene per sé le informazioni più succose.

Il capitolo «La storia del Capufficio», quasi una sorta di intervista, costringe (dovrebbe costringere, nei miei sogni) il lettore a domandarsi che differenza ci sia tra quel narratore-intervistatore lì e il narratore che riferisce i racconti di Mario del capitolo «La storia del bosso».

Il capitolo «La storia di Viola, 6» riprende vistosamente, nell’incipit, il Pontiggia della Grande sera (e ne porta all’eccesso, quasi parodisticamente, il fraseggiare essenziale). E così via.

Naturalmente, poiché la prima funzione del narratore è garantire la solidità del “mondo” della narrazione, l’accumularsi di narratori disparati non può che produrre, secondo me, una instabilità del “mondo” della narrazione forse non assimilabile alle instabilità alle quali i lettori sono abituati (a es. il narratore inaffidabile, il narratore pazzo, ec.). E qui, in questo, forse, si potrebbe parlare effettivamente di “sperimentazione”.Immagine 1

A.G.: Alcune parti di Le ripetizioni sono contemporanee, anche per immaginario – la pedofilia, la dominazione sadica, la centralità del corpo, il nitore referenziale come strategia d’accesso al creaturale –, a Il male naturale (1998; 2011). L’ultimo violentissimo capitolo, per esempio, ha dichiarato di averlo scritto nella prima fase redazionale, e di averlo accolto pressoché invariato nella versione pubblicata. Crede di aver superato la “assiologia” di Il male naturale con Le ripetizioni?

G.M.: Non so bene come intendere il verbo “superare”. Mi pare che ogni mio libro abbia un’“assiologia” – ma io direi piuttosto una visione del mondo, un’“ideologia” – sua propria, e mi pare giusto: sono libri diversi, raccontano storie diverse, hanno bisogno di mondi diversi. Certamente questo sarà in relazione con cambiamenti avvenuti nella mia persona, ma non è della mia persona che sto scrivendo qui, ora.

Peraltro, mi pare che si possa dire questo: i racconti del Male naturale (1998) – ma potrei dirlo anche di altri miei libri: scelgo questo perché Le ripetizioni è nato, per così dire, dalle sue macerie – non hanno tutti un narratore della stessa specie. Se prendiamo come base unitaria il libro, e non il singolo testo, non mi sembra che nel Male naturale vi sia meno varietà che nelle Ripetizioni (e viceversa). Anche le forme dei racconti sono varie: se «Ruota» e «Pugni!» sono quasi dei racconti canonici, «Super nivem» è, a essere buoni, un testo senza né capo né coda; «Amore» presenta la medesima scrittura laconica che si trova in certi capitoli delle Ripetizioni (a es. «La storia di Viola, 3» e «La storia di Viola, 6»); «Bella» mette in questione non solo l’autore, ma anche l’attribuzione del testo; «Apertura» è in versi; «Morte di Richesse», messo in apertura, è una specie di merletto secentesco (e contiene, spero ben dissimulati, numerosi prelievi dagli Essais di Michel de Montaigne); eccetera.

In sostanza, la forma delle Ripetizioni non mi sembra tanto diversa dalla forma del Male naturale. Sicuramente nel romanzo c’è, nel complesso, un controllo più ferreo, derivante anche dal fatto che più storie s’intrecciano tra loro. Nel 1998, a libro appena uscito, Giuseppe Caliceti mi disse: «Ma Giulio! Perché non hai fatto un romanzo, con tutte queste storie qui? Ci mancava pochissimo», e probabilmente aveva ragione. Ma ormai il libro era fatto.

A.G.: Che ne è del tempo nel suo romanzo? Tutto si svolge al presente, in un ‘ora’ «fuggevole e impalpabile» (p. 26), oppure in un passato rispetto al quale i personaggi presentano – e magari soffrono – una cesura netta e irrimediabile. Mario vive quasi sempre in un fittizio 17 giugno che, in quanto suo compleanno, mi pare una ripetizione infinita della nascita, anche dell’inermità e dello stupore della nascita (si veda il capitolo La storia della pelle); talvolta, se non è il 17 giugno, è uno speculare 17 ottobre; oppure è quasi Natale. Ma non è tutto qui: le «vite straordinarie», che pure Mario sfiora, al momento dell’incontro sono tutte regredite in una maggiore ordinarietà: la stagione dello stragismo è «già storia», eppure non ci sono accenni realistici all’Italia post-1978.

E dunque: che ne è, nel suo romanzo, del tempo? Intendo: sia del tempo interiore e fittizio, mera misura di fatti interiori; sia del tempo storico, misura di fatti cui i personaggi “assistono” insieme a una comunità. Perché entrambi mancano, o sono contratti?

G.M.: Nelle Ripetizioni il tempo è fermo, tutto qui. O si riavvolge su sé stesso: vedi la fototessera del 1972 («La storia delle fototessere, 3», p. 43), che si replica («La storia delle fototessere, 5 (La storia di Bianca, 7)», p. 343) a distanza di trecento pagine e di forse – forse – trenta o quarant’anni, suggerendo la sovrapposizione impossibile di due ricordi. Il tempo è fermo, e forse – forse – sembra addirittura regredire. Il 1998 in cui Mario si imbatte in un convegno dedicato al generale Cadorna (p. 267) non è diverso dagli anni Settanta delle stragi o dai circa anni Zero (ci si può arrivare, facendo pazientemente i conti) dell’amicizia con il Gas. Mancando un’evoluzione sia del personaggio principale sia dei personaggi collaterali, manca un “tempo interiore”, ma manca anche il “tempo esteriore”. Il “tempo esteriore” bloccato, o indecidibile, o in loop, eccetera, è rispecchiamento del “tempo interiore” a sua volta bloccato o indecidibile o in loop. Il 17 giugno del 1974 è il giorno in cui le Brigate rosse uccidono per la prima volta, nella mia città. Il 17 giugno del 1960 è il giorno della mia nascita. Il 17 giugno del 1904 è il giorno successivo al giorno in cui avvengono i fatti narrati in Ulisse. Il 17 giugno del 1970 è il giorno di Italia-Germania 4-3.

Le persone dalla vita straordinaria che Mario incrocia – di persona o per sentito dire – non direi tanto che siano «regredite in una maggiore ordinarietà»; direi piuttosto che, nel momento in cui Mario le osserva, i loro corpi non recano più alcuna traccia dell’antica straordinarietà. Il Terrorista Internazionale è un pensionato che porta fuori il cagnolino, la sera tardi. Il Martellatore di Monaci, in carcere, sta benone: a portare su di sé qualche segno di ciò che è accaduto è piuttosto la cugina, afflitta, dal momento dell’arresto di lui, da misteriose malattie della pelle. Il Capufficio vive in una specie di tempo sospeso, nel quale il passato potrebbe in qualsiasi momento allungare la zampa su di lui e colpirlo, e tuttavia in questo tempo sospeso agisce una sorta di negazione di ciò che è avvenuto, tenta di sospingere ciò che è avvenuto verso l’irrilevanza. Tanti anni fa mi aveva attraversato la mente – ma solo per un pomeriggio, non di più – il progetto di scrivere un libro intitolabile più o meno Vite di grandi criminali prima che lo diventassero; l’idea ovviamente non era quella di ricercare nelle infanzie o nelle giovinezze dei grandi criminali le origini del loro essere criminali, ma piuttosto il contrario: mostrare l’assoluta estraneità di quelle infanzie e di quelle giovinezze con i successivi gesti criminali. Come se l’esistenza fosse un non sequitur: «la vita non ha senso» (p. 137): «Orientazione, direzione secondo la quale si effettua un movimento; più precisam., in matematica, su una retta o un arco di curva AB, distinzione tra due modi di percorso, uno da A a B, l’altro da B ad A» (Vocabolario Treccani on line, s.v. «Senso»).

A.G.: Anche i luoghi – i giardini, le poche città – di Le ripetizioni sono tendenzialmente informati da un intento retorico più che “realistico”: quale? Perché questa scelta?

G.M.: La domanda non mi è chiara. Mi pare che in tutto il romanzo l’istanza realistica manchi, o vi sia piuttosto un’istanza super-realistica (o surrealistica, come si vuole). «L’arredamento del racconto è sempre realistico e folto di oggetti concreti, ma la logica degli eventi narrati è spesso allucinata e associativa»: così ha scritto Gianluigi Simonetti nel «Sole 24 ore» (28 febbraio 2021); con parole mie: il passare di luogo in luogo è, esattamente come lo scorrere fasullo del tempo, trattato materialisticamente ma non realisticamente. Io desidero che tutto ciò che scrivo abbia un’evidenza per gli occhi, ma tento di conferire la medesima evidenza a tutto – a ciò che ha l’aria di essere reale quanto a ciò che ha l’aria di non esserlo –, col risultato – spero – di tempestare il lettore sì di stimoli sensoriali, ma arduamente connettibili tra loro in un “quadro”.

A.G.: Interi capitoli di Le ripetizioni sono dedicati alla descrizione di «pratiche sessuali estreme», volta per volta declinate in un contesto di prostituzione o di dominazione sadica, e sconfinanti nell’orgia, nella zoofilia, nella pedofilia, nell’assassinio. Lei ha scritto: «da dove viene tutta questa violenza? Confesso che non so rispondere». Eppure, il materiale tematico è saldamente dominato. Lasciando da parte le questioni sulla “origine” di questa violenza, qual è la sua funzione nel romanzo?

G.M.: Be’, Le ripetizioni è nella sostanza un romanzo d’amore nel quale l’amore è vissuto solo e soltanto sotto il segno del dominio e della servitù, ovvero sotto il segno della violenza. Non è che questo «materiale tematico» abbia una particolare «funzione» nel romanzo: è l’oggetto del romanzo. Non si parla d’altro. Sarebbe come chiedere quale «funzione» ha, nei Promessi sposi, il desiderio di don Rodrigo di stuprare Lucia: è il motore della storia, è ciò di cui si parla, narrativamente non c’è altro (cap. xxxiii: «Lasciando ora questo nel soggiorno de’ guai, dobbiamo andare in cerca d’un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l’avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro», corsivo mio). Certamente il Gas è il personaggio la cui «funzione» – se si vuole proprio usare questa parola – è di offrire a Mario una chance di uscita dal loop: questo, e non altro, è il quadro Discorso attorno a un sentimento nascente.

Però, la sostanza è: avevo un immaginario e l’ho scritto. Non ho mai ragionato in termini di «funzioni» (parola che, in questo contesto, mi fa ribrezzo). Ho ragionato, questo sì, per esempio, in termini di «ritmo»: l’alternarsi di scene “tranquille” e di scene “shock”, di capitoli-pistolotto e di capitoli narrativi, eccetera, doveva – nelle mie intenzioni – servire a gestire l’attenzione del lettore, ad alternare sberle e carezze, a “tirarlo dentro” per poi rendergli intollerabile quel “dentro”, e così via.

A.G.: Al di là delle riprese letterali o dell’impiego diretto, con quali testi e autori italiani contemporanei Le ripetizioni dialoga in modo privilegiato? E ancora: sotto quali aspetti gli autori più giovani (nati, per esempio, dopo il 1980) possono secondo lei più spontaneamente dialogare con Le ripetizioni?

G.M.: Dipende anche dall’estensione che diamo alla «contemporaneità». Il mio riferimento primo, come già detto, è ancora certa letteratura degli anni Sessanta, all’epoca «sperimentale» e ora diventata «da museo». Nel giro dei miei più o meno coetanei direi che gli autori che sento a me più prossimi sono Demetrio Paolin – con il quale ho condiviso diversi pezzi di percorso formativo, e il cui romanzo Anatomia di un profeta (2020) è stato quasi una lettura preparatoria alla “chiusura” del romanzo mio –, Gilda Policastro, Dario Voltolini, Gherardo Bortolotti e, naturalmente, Umberto Casadei: autore di un unico romanzo pubblicato, Il suicidio di Angela B. (Sironi), di una potenza senza pari in Italia – a mio giudizio. (Ah: naturalmente, il fatto che io “impieghi direttamente” un testo dentro il mio testo non significa necessariamente che io abbia una relazione particolare con quel testo: può significare anche solo che avevo trovato del materiale utile, e l’ho impiegato: nelle Ripetizioni c’è una folla di citazioni dichiarate, puramente strumentali). Ma va detto che, per una quantità di ragioni anche pratiche, non seguo molto la produzione attuale. Non sono particolarmente up to date, e può darsi che ci siano in giro molte opere interessantissime delle quali non mi sono accorto.

Quanto agli autori più giovani: boh, vedranno loro che cosa farsene del mio lavoro, sempre che decidano di farsene qualcosa. Spero, questo sì, che un «aspetto» venga colto: l’estraneità del mio lavoro a una certa dipendenza dalla letteratura romanzesca statunitense che mi pare sia molto diffusa. Intendiamoci: la letteratura romanzesca statunitense degli ultimi sessant’anni è interessantissima: ma mi pare che vi sia da noi una sorta di ipostatizzazione del romanzo statunitense come unico romanzo possibile (sto esagerando e tagliando con l’accetta): col risultato che gli stessi scrittori italiani sembrano aver sviluppato una certa «insicurezza sul modo di scrivere i propri romanzi» (F. Moretti, A una certa distanza. Leggere i testi letterari nel nuovo millennio, Carocci 2020, p. 80).Immagine 2

Per saperne di più:

L’opera narrativa di Giulio Mozzi comprende Questo è il giardino (Theoria, 1993; Mondadori, 1998; Sironi 2005), La felicità terrena (Einaudi, 1996; Laurana, 2012), Il male naturale (Mondadori 1998; Laurana 2011), Fantasmi e fughe (Einaudi, 1999), Fiction (Einaudi, 2001; Laurana 2017 col titolo Fiction 2.0), Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili (Mondadori 2009; Laurana 2013), Favole del morire (Laurana, 2015), Un mucchio di bugie. Racconti scelti 1993-2017 (Laurana, 2020), Le ripetizioni (Marsilio, 2021).

Tra le sue pubblicazioni ci sono anche opere in versi (Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, Einaudi, 2000; Aragno 2019; Dall’archivio, Aragno, 2014; Il mondo vivente, Lietocolle/Pordenonelegge, 2020) e manuali di scrittura creativa (Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli, 2000; L’officina della parola, Sironi, 2014 – entrambi con Stefano Brugnolo; Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, Sonzogno, 2019; Oracolo manuale per poete e poeti, scritto con Laura Pugno, Sonzogno, 2020).

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