Tiziano Scarpa scrive e pubblica libri da venticinque anni. È narratore, saggista, poeta, drammaturgo e performer. Quando gli ho chiesto di realizzare un’intervista per Il Chiasmo non volevo focalizzarmi su una sua singola opera, né sfruttare l’ultima congiuntura editoriale. Volevo provare a porgli domande che, in questi venticinque anni, cogliessero lunghe continuità, oppure singoli fatti notevoli.

Tiziano ha accettato con generosità. La nostra ampia conversazione è divisa in due parti: in questa parliamo della nascita di Nazione Indiana e de Il primo amore, del «volontariato culturale» fuori dai circuiti massmediali, del presunto ‘ritorno alla realtà’ che avrebbe interessato la nostra letteratura negli ultimi decenni; nella seconda parte parleremo invece di alcune sue invenzioni formali e narrative.

Antonio Galetta**:** Durante il convegno Scrivere sul fronte occidentale (2001) avevi suggerito la costituzione di un sito web per gli autori di finzione italiani, dove avere a disposizione «in un collettore non effimero ciò che altrimenti è disperso e difficile da reperire». L’anno dopo nacque Nazione indiana, da cui, nel 2005, Il primo amore, su cui scrivi ancora oggi. Come sono cambiati e come hai utilizzato, negli anni, questi ‘collettori’?

Tiziano Scarpa**:** Questa domanda mi costringe a distinguere tre fasi. La prima: sì, è vero, durante quel convegno di vent’anni fa proposi di avviare un sito che raccogliesse gli articoli che scrittori e scrittrici d’Italia pubblicavano in varie testate, anche quelle locali, e che restavano poco visibili. Mi sembrava, strategicamente, anche un modo per cominciare a unire le forze. Voglio dire che non potevo permettermi di chiedere a nessuno di lavorare scrivendo articoli per una rivista; non avevo soldi per pagare le persone, non potevo pretendere contenuti inediti, scritti apposta. L’idea era: mandami il tuo articolo che è uscito in un quotidiano sardo, o veneto, o pugliese, così lo mettiamo in rete e possiamo leggerlo tutti.

Per avviare un sito simile ho fatto delle riunioni con Carla Benedetti e Antonio Moresco, che si sono dimostrati molto fattivi, vogliosi di realizzare le cose, più di alcuni scrittori della mia generazione che mi era capitato di incontrare fino ad allora, ai quali avevo proposto di ideare riviste o avviare dei siti collettivi, senza esito. In realtà l’idea, discutendone fra noi tre – Benedetti, Moresco e io – si è allargata ed è diventata qualcosa di più ambizioso di un semplice collettore di articoli già pubblicati.

Ne abbiamo parlato ad altri, che si sono uniti a noi per fondare Nazione Indiana (e questa è la seconda fase). Un sito che ha attirato contributi spontanei, ha suscitato molte discussioni, ha supportato esordienti e, quasi subito, è tracimato fuori dalla rete. Per esempio, all’inizio del 2005 abbiamo organizzato il convegno autofinanziato «Giornalismo e verità», curato da Carla Benedetti e Roberto Saviano, che in quel caso fece la sua prima uscita pubblica, un anno prima di Gomorra.

Nazione Indiana continua a esistere ancora oggi, anche dopo che alcuni di noi ne sono fuoriusciti; il che è un ottimo segno, vuol dire che era una seminagione fertile e necessaria, e non dipendeva dai suoi primissimi fondatori.

Con Il Primo Amore (terza fase) abbiamo continuato con la stessa logica di tracimazione: non solo il sito, che è arrivato a contenere alcune migliaia di articoli, ma anche: una rivista cartacea (siamo arrivati al decimo numero, pubblicato da poco); una collana di libri (diciotto «Fiammiferi»); vari convegni; una serie di cammini aperti a tutti, in Italia e in Europa, con contenuti politici e civili.

I cammini, a loro volta, hanno suscitato la nascita spontanea di un’associazione indipendente, fatta da persone che hanno camminato insieme a noi in questi dieci anni: si chiama Repubblica Nomade e agisce a fianco e in armonia con Il Primo Amore; ne facciamo parte anche noi. Una delle iniziative più recenti del Primo Amore è stata Terrestri: quattro giorni di incontri a Napoli, a novembre del 2019, sull’emergenza climatica e il rischio di estinzione della nostra specie.

A.G.: Nel 2010 scrivevi che «in Italia a plasmare l’opinione pubblica sono ancora i vecchi media […] le intelligenze che si prodigano in rete restano invisibili, e intere generazioni si ritrovano a subire l’accusa di latitanza, minorità, inconsistenza». Cosa è cambiato in questi dieci anni?

T.S.: Tempo fa ho letto un intervento su un giornale in cui si diceva che gli influencer sono una nuova forma di intellettuali, ma «senza opera»; secondo me già i presentatori e le star televisive, e anche i telegiornalisti, fin dal 1954 (anno di nascita della Rai), cioè da più di sessant’anni, erano nella stessa posizione: persone famose e basta, simpatiche e basta, che senza aver pubblicato un trattato, né essere esperti di alcunché, né avere insegnato qualcosa all’università, né avere scritto un saggio importante o un romanzo di valore o comunque popolare, ma solo perché apparivano in video, avevano un potere di influenza enorme; e ce l’hanno ancora. La figura di «intellettuale senza opera» non è una novità. La differenza è che prima costoro venivano selezionati dai media centralistici (televisione e radio), ora emergono in quelli reticolari (rete, social media). Forse da questo dipende la loro paradossale autorevolezza: danno l’impressione di essersi “fatti da sé”, senza cooptazioni.

Fra scrittori e scrittrici, di romanzi o saggi, chi entra nel circuito delle grandi testate giornalistiche e degli schermi televisivi passa per essere un “intellettuale impegnato”. Gli altri non solo sono poco visibili, ma devono pure sorbirsi i predicozzi di inadempienza, di pigrizia, di inconsistenza culturale e politica da parte dei vecchi sessantottini ormai ottantenni, o delle testate di ex sinistra. Ricordo un’incredibile ‘inchiesta’ sull’«Espresso» del 2016 (il cui direttore, Marco Damilano, si vede spesso in tivù) che accusava la latitanza di intellettuali, scrittori e scrittrici, dimostrando una sesquipedale ignoranza di tutto ciò che pullula non solo in rete, ma nelle innumerevoli iniziative sparse per l’Italia. Per certe sonnacchiose redazioni romane esiste soltanto Zerocalcare (peraltro bravissimo).

Fra autori e autrici ci sono ottimi comunicatori, che coltivano i loro seguaci personali, con un lavorio quotidiano: se pubblichi contenuti interessanti sui social, ai lettori e alle lettrici che sono iscritti al tuo profilo dài la sensazione che gli stai offrendo qualcosa di esclusivo; nota bene che io non ho un profilo personale, lo dico perché riconosco che in questa scelta fatta da altri scrittori e scrittrici c’è una convenienza significativa, spesso benefica; io ho deciso di non seguire questa strada, perché mi succhierebbe troppo tempo, e poi conosco le mie debolezze, so che rischierei di inebriarmi della voluttà effimera che danno i cuoricini, i pollici blu e i retweet. Sono iscritto a Facebook perché questo mi permette di gestire la pagina del Primo Amore: da Facebook arriva una quantità consistente di visitatori del nostro sito; ma ho zero “amici” di Facebook, e il mio profilo personale è vuoto.

Ci sono poi scrittori e scrittrici in gamba, veri attivisti culturali, che in rete hanno seminato bene, con molta pazienza e una grossa mole di lavoro, e negli anni hanno fatto crescere grosse comunità consensuali, fedeli, interattive: ma la mia sensazione è che quella loro attività costituisca in un certo senso il cuore del loro lavoro, della loro presenza culturale e politica, a pari merito con i libri. Comunque, in generale, per fare le cose per bene bisognerebbe avere strutture più robuste; in Italia la cultura è in gran parte volontariato, che si sbriciola di fronte alle grandi corazzate editoriali e mediatiche.

Ero in treno qualche settimana fa, e per caso ho origliato una giornalista di una grande testata che, parlando a un’amica seduta di fronte a lei, snocciolava i rendiconti delle copie vendute dalle sue inchieste, tutte pubblicate in volume: cifre incredibili, altissime, dovute al fatto che lei scrive per un grande giornale e si vede anche in televisione. Quindi, a parte qualche influencer in carriera, non mi sembra che sia cambiato molto rispetto a dieci anni fa.

Mi torna in mente Suo marito (1911), il profetico romanzo di Luigi Pirandello: era la storia di una coppia di sposi, lei drammaturga, lui agente teatrale: in una scena bellissima, al debutto di una commedia scritta da lei, lui si incanta ad ammirare l’opera teatrale che decolla sulla scena, come fosse una mongolfiera, e che a poco a poco coinvolge gli spettatori e ottiene successo; alla fine della rappresentazione gli viene da correre sul palco a ricevere gli applausi, perché quel successo lo sente suo: più ancora che all’opera dell’autrice, esso si deve al lavoro di promozione e pubblicità che ha fatto lui. E in effetti così è accaduto, i pubblicitari hanno preso il sopravvento sui produttori, i presentatori sugli attori, gli schermi sui corpi, i televisivi sui politici, Berlusconi ha cannibalizzato i socialisti di cui all’inizio era il braccio armato televisivo, e ancora oggi i nostri scrittori e scrittrici migliori sono surclassati da qualunque impostore fra i tanti che speculano sul loro ruolo di volti noti della tivù, o di giornalisti da prima pagina che confezionano la loro robetta, saggi o romanzi (si fa per dire) con cui sommergono il mercato.

Per chi non ha questi turboadditivi che falsano i valori in gioco, non resta che darsi da fare tantissimo con l’autopromozione, a scapito della cura e dell’attenzione necessarie per dare forma a libri duraturi: bisogna dedicarsi non solo alle opere, ma escogitare anche strategie comunicabili nella maniera giusta, incisiva; e anche per quelle ci vorrebbe tempo, studio, meditazione. Io a queste cose non riesco a stare dietro. La vita è breve, e prima di morire vorrei riuscire a scrivere almeno una parte dei libri che ho in mente.

Siamo stati formati con attitudini mentali novecentesche, inadatte ad affrontare il Duemila. O forse noi ci rompiamo la testa autoaccusandoci di inefficacia, di irrilevanza, di residualità, mentre è il gioco che è truccato. Non voglio autoassolvermi, ma mi sembra di aver svolto una certa quantità di volontariato culturale; non posso dire di essere soddisfatto, onestamente sognavo che tutto quel che abbiamo seminato con il Primo Amore attecchisse di più. Ma, vedi, c’è anche una parte di me che tutto sommato alza le spalle e se ne frega, perché la mia anima ideatrice fa un passo a lato, non procede sulla rotaia del tempo, ma su un’altra, quella dell’eternità: non su chrònos ma su aiòn, non sull’attivismo della cronaca ma sulla scommessa dell’opera d’arte, della letteratura che si candida a durare, a essere letta anche in futuro.

A.G.: Nella Prefazione a I racconti di Daniele Del Giudice (Einaudi 2016), scrivi che «la tecnologia ha ereditato e straniato la logica modernistica del superamento, che è scomparsa dalla politica e dall’estetica» (p. X). In un altro intervento, riprendendo la riflessione, osservi che «l’innovazione ha traslocato dal messaggio al medium». Questo stato di cose, con ogni evidenza, non riguarda esclusivamente la letteratura. Ma anche i fenomeni letterari si ‘ridispongono’ intorno ai nuovi strumenti da cui è veicolata la comunicazione. Questo, suggerisci sempre nell’ultimo articolo citato («proprio la consapevolezza mediale, secondo me, dovrebbe far riflettere gli studiosi che si occupano del cosiddetto ‘ritorno alla realtà’. Vorrei scriverne più diffusamente, e forse un giorno lo farò»), porterebbe a nuove riflessioni sul cosiddetto ‘ritorno alla realtà’: quali?

T.S.: Prima lasciami dire che non è vero che le opere degli anni Ottanta e Novanta fossero spensierate fumisterie postmoderne; è uno stolto cliché che vedo consolidarsi, sta diventando quasi una verità data per scontata. Chi ne è convinto, o non conosce quel che è stato scritto in quel periodo, o non lo ha saputo leggere.

Comunque, non è certo qui che riuscirò a mettere a fuoco la questione del supposto ‘ritorno alla realtà’ che ci sarebbe stato in anni recenti. Intanto, viene chiamata ‘realtà’ la sua versione giornalistica: cosicché sembrerebbe che parli di ‘realtà’ soprattutto chi si rifà a situazioni e fatti messi in evidenza dal giornalismo. Poi: tra le scritture della ‘realtà’, anche come lettore, mi interessa soprattutto l’autobiografia, o la sua trasfigurazione: è sempre interessante l’esperienza degli altri, soprattutto quando costoro non avrebbero titolo per renderla pubblica. Voglio dire: è ovvio che l’autobiografia del presidente degli Stati Uniti interessi a tutti; ma la letteratura ha dato accoglienza anche a Vincenzo Rabito, l’ultimo degli ultimi. È questo il valore inestimabile dell’istituzione che chiamiamo letteratura; ancora adesso mi sembra incredibile che la specie umana, così feroce e gerarchica, abbia concepito un luogo ideale in cui chiunque ha il diritto di raccontare e pubblicare le proprie storie, vissute o immaginate che siano.

Ma, parlando più in generale, a me sembra ingenuo e sminuente prediligere un uso monodimensionale della parola, quello referenziale, cioè quello che si riferisce a situazioni esistenti, a fatti accaduti: è ovvio che l’uso referenziale della parola è fondamentale, ma non c’è solo quello. Letteratura non è solo la comunicazione di un’esperienza, è anche l’esperienza di una comunicazione. L’ho detto sinteticamente, ma potrebbe essere una definizione del modernismo: non solo riferire un fatto, ma offrire l’esperienza di una comunicazione.

In questo periodo, comunque, è un’altra ancora la prestazione della parola che mi sta più a cuore. La parola – anche quella letteraria – non è solo riferimento: è creazione, è atto linguistico. Mi sembra questo il fronte più interessante, e forse ancora inesplorato, della riflessione sulla letteratura.

Perfino il grande Giorgio Agamben, nel suo Il fuoco e il racconto (2014), mi deluse su queste cose. Oltre a essere gratuitamente offensivo verso gli scrittori di oggi – considerati dei poveri insipienti, inconsapevoli della lingua e delle parole –, nel saggio di apertura di quel libro si era lasciato affascinare da una parabola ebraica, che rappresenta la narrazione come il pallido riflesso di una sacralità lontana e perduta; glielo dissi a voce, quando uscì il libro: a me sembra che i romanzi, e la letteratura in genere, semmai abbiano a che fare con la potenza creatrice della parola, che non è riducibile a resoconto né surrogato di una perdita, ma accade come primum, e dètta all’immaginazione ciò che prima non c’era, suscitando realtà (come ci hanno insegnato la teologia, la filosofia del diritto di Adolf Reinach e quella sugli atti linguistici di John L. Austin, John Searle e tutti gli altri). E nota bene che questo episodio te lo racconto con un piglio satirico verso me stesso: ho avuto l’improntitudine di ricordare ad Agamben cose che sa infinitamente meglio di me! Giusto per farti capire quanto io sia sensibile su questo punto.

Gli atti linguistici secondo me sono uno dei punti cardinali per comprendere la funzione piuttosto enigmatica della letteratura, la sua sorprendente sopravvivenza, l’ottima salute di cui gode ancora oggi, nonostante nel frattempo ci siano altri media apparentemente più potenti. La teoria degli atti linguistici mostra bene che le prestazioni della parola non sono solo quelle referenziali, in un rapporto di verità/falsità con ciò che è stato. Se privilegi la funzione referenziale, riduci la parola a un misero simulacro, alla traccia di una mancanza. Anche per questo i dibattiti sulla fiction, sull’autofiction, sul romanzo realistico che si sono fatti in questi decenni mi sono sembrati spesso carenti: non tengono conto che le parole possono fare molto di più che mettersi in rapporto con il grado di realtà delle cose. La teoria degli atti linguistici ha capito che le parole non si limitano a dare conto di una situazione; oltre a questo, fanno delle cose: danno ordini, fanno promesse, muovono accuse, stringono patti… Chiamo in causa la teoria degli atti linguistici come una specie di grande metafora della letteratura; lo so benissimo, infatti, che nelle opere letterarie gli atti linguistici vengono disattivati all’interno del testo (una promessa fatta in un romanzo o in una poesia non impegna l’autore verso il lettore – e d’altronde ci sono atti linguistici non disattivabili: una bestemmia, anche fra virgolette, anche se pronunciata da un personaggio finto, resta una bestemmia). Come gli atti linguistici, anche la letteratura fa delle cose con le parole. Mi pare che manchi una consapevolezza dei macro-atti linguistici compiuti dalle opere letterarie, di ciò che fa una poesia, di ciò che fa un romanzo. “Poesia” racchiude l’etimologia di “fare”; e di solito questo “fare” viene interpretato in maniera specialistica, intendendo per “poesia” il lavoro del poeta stesso sull’opera, la sua attività compositiva, il suo risultato testuale finale. Ma la “poesia” è un testo “che fa” qualcosa sul lettore e la lettrice (idee analoghe le espresse Alfredo Giuliani nella prefazione ai Novissimi, l’antologia di poesie della neoavanguatdia italiana, del 1965). Il “fare” della poesia è una specie di “fattura” magica, stregonesca; una “fattanza” psichedelica; una “fatturazione” fiscale del significato; una “fattezza” formale offerta all’ostensione; una “fattività” che mobilita gli affetti; una “fattoria” che produce alimentazione al pensiero, latte di significati da mungere per sempre. Ma, soprattutto, la poesia (la letteratura) “fa sì” che il lettore e la lettrice immaginino, facciano scaturire immagini mentali sotto la dettatura del testo.

Nell’enfasi sul realismo e sul presunto ‘ritorno alla realtà’ secondo me ci sono carenze di consapevolezza sul medium in cui si esprime la letteratura, e cioè le parole. Per esempio, se descrivo anche molto minuziosamente una situazione reale, poi è la mente del lettore che dovrà ricostruirla a modo suo, nella sua testa, a partire dalle parole che legge, passando attraverso le parole, che sono quanto di più generico e vago esista nella comunicazione umana, quanto di più selvaggiamente intriso di proiezioni personali, ricordi, idiosincrasie, controtransfert, connotazioni, «idee accessorie», come le chiamava Leopardi. È anche questa la consapevolezza mediale a cui mi riferisco (mica quella della rete, dei social network, degli smartphone); proprio la consapevolezza di che cosa sono le parole. Che medium sono. Che cosa fanno di diverso rispetto agli altri media. A quanto pare, è una consapevolezza che sfugge perfino a molti studiosi. La parola letteraria è dettatura per l’immaginazione. Crea mondi, perfino quando dà conto di quelli esistenti. La parola non è solo resoconto. È invenzione. Perfino quando è realistica e referenziale richiede che chi la legge reinventi il mondo a modo suo, con le sue proiezioni, con le immagini mentali suscitate dalle parole che legge.

Non penso che sia sensato trasformarci tutti in reporter, in giornalisti d’inchiesta, in antropologi e storici del presente, come se il contributo differenziale di scrittori e scrittrici, rispetto a un giornalista o a uno storico, consistesse nel mettere in un libro qualche condimento retorico in più, qualche originalità stilistica, qualche scaltrezza nella dispositio, nel montaggio del discorso, nella struttura, nella elocutio metaforica o letterale. Con un facile moralismo sulle urgenze politiche e sociali, c’è chi ci tiene a occupare la casellina del Super-Io critico, che indica a scrittori e scrittrici il compito, il dovere, il che fare. Se gli fa piacere stare in quel posticino arcigno, faccia pure. Io preferisco inventare.

Io scommetto sulle figure (sui personaggi, sulle trame), non sui temi che esse affrontano, non sulle situazioni reali a cui si riferiscono. Io sono un artista, mica un agitatore politico, un funzionario accademico di ciò che è buono e giusto. La letteratura narrativa è fantasia, è immaginazione. Si scommette su alcune figure, senza sapere necessariamente a che servono. Può non piacere, ma l’arte della parola narrativa è più vasta, è più larga del riferimento a situazioni esistenti. Anche quando parla della realtà, o sembra che lo faccia, è per sfruttarla, per farne scaturire delle invenzioni. Basta dare un’occhiata ai meravigliosi Taccuini di Émile Zola: giorni e giorni di appostamenti, inchieste, sopralluoghi in cui descriveva come funzionava un grande magazzino, un mercato, una miniera, la borsa finanziaria; ma, fra le pieghe della descrizione, sbocciavano le idee inventive per ambientare le sue fantasticherie: «Situerei la scena dello stupro nel deposito del pollame», scrive nei suoi taccuini preparatori, mentre sta prendendo appunti per Le ventre de Paris nei sotterranei delle Halles.

Ma l’esempio principe della libertà inventiva e della sua imprevedibile significazione è la storia della ricezione del Don Chisciotte. I contemporanei di Cervantes ci ridevano su e basta, per loro quel romanzo era una serie di avventure picaresche disimpegnate, episodi burleschi, anche piuttosto pesanti e crudeli per la nostra sensibilità – visto quante botte e umiliazioni subisce il povero Don Chisciotte –, analoghi a quelli raccontati dai novellieri italiani di fine Cinquecento. Ci sono voluti due secoli affinché, grazie ai romantici tedeschi, si comprendesse che Don Chisciotte non era soltanto un personaggio buffo, ma soprattutto un cavaliere dell’ideale.

Scrittori e scrittrici sono come i musicisti, che compongono senza una referenzialità immediata ai fatti, alle cose accadute o esistenti. Bisogna lasciarli liberi, è sciocco spingerli a fare “musica a programma”, o colonne sonore per documentari d’inchiesta. Scrittori e scrittrici sono come i matematici che si inerpicano sulle formule pure, ammaliati dalla loro struttura: inaspettatamente, magari a decenni di distanza, si scopre che quelle stesse formule matematiche, che sembravano pure astrazioni, sono indispensabili per lanciare un satellite e farlo agganciare con precisione una meteora vagante, o per costruire un bisturi elettronico.

Una bella allegoria di tutto questo è ciò che è successo qualche settimana fa in Olanda, vicino a Rotterdam: una grandissima scultura di plastica a forma di coda di balena ha salvato un vagone della metropolitana che era deragliato, l’ha mantenuto sospeso in aria impedendogli di sfracellarsi nel baratro. Un’opera d’arte disimpegnata e allegra ha sventato una catastrofe, ha salvato delle vite.

Di recente, in un carcere napoletano un gruppo di psicologi ha fatto leggere a stupratori e molestatori sessuali Il visconte dimezzato di Italo Calvino: quanto di più lontano dalla ‘realtà’, che invece si è rivelato efficacissimo per suscitare consapevolezza in loro sulle violenze che avevano commesso.

A.G: Accadde qualcosa di molto simile rappresentando Aspettando Godot di Samuel Beckett a una platea di carcerati, negli anni Cinquanta. Lo racconta Martin Esslin in apertura a Il teatro dell’assurdo.

T.S.: Sì, infatti! E Serena Gaudino, una decina d’anni anni fa, ha applicato un suggerimento di Simone Weil che voleva riassumere le tragedie greche agli operai in fabbrica; così, a Scampia, Gaudino ha appassionato le donne semianalfabete del quartiere, per mesi, raccontandogli la storia di Antigone e tutta la saga di Tebe, da Eteocle e Polinice a Edipo. Ebbene: quelle donne si sono riconosciute in quelle situazioni estreme! (Questa esperienza è raccontata in Antigone a Scampia, uno dei “Fiammiferi” del Primo Amore, e che verrà presto ristampato dalla casa editrice Effigie).

Il contributo alla società da parte di scrittori e scrittrici non può consistere soltanto nel riferire direttamente della società stessa. È questa l’attuale estetica ortodossa, per me piuttosto piccina, anche se apparentemente assegna compiti immani e scopi ambiziosi: raccontare l’Italia, interpretare il presente… Che poi, finisce col raccontare i casi di cronaca messi in evidenza dal giornalismo, o i grandi personaggi decisivi del Novecento, o quelli poco noti da rivalutare, in un circuito autoconfermativo fra media egemoni e letteratura referenziale. Può anche essere interessante, sfruttare queste cose, purché siano un pretesto per inventare. A me sembra che la grande eredità del passato, che la letteratura ha consegnato agli scrittori e alle scrittrici, se vogliono riceverla e proseguirla, è quella di inventare: nuovi miti, nuove figure, nuovi personaggi emblematici, nuove trame. Penso che sia questa la virtù e la forza primaria della letteratura narrativa, del romanzo: l’invenzione. Le altre cose le sanno fare in tanti, e anche meglio dei romanzieri.

Se ci pensi, c’è una convergenza da vari fronti che tendono a esprimere diffidenza verso l’invenzione. Ma per spiegarmi, ricomincio dalla partizione della retorica antica: invenzione, disposizione, formulazione, memoria, prolusione scenica: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio. Le prime tre sono tutto sommato adeguate ancora oggi a descrivere la scrittura. Il modernismo ha mostrato che dispositio e elocutio non sono puramente strumentali né secondarie rispetto all’ideazione, ma, al contrario, sono germinative, primarie: ricombinare l’ordine delle parole, cioè lavorare sulla dispositio, crea testi radicalmente diversi, nuovi significati sorprendenti; e ascoltare la lingua, le rime, il fonosimbolismo, cioè affidarsi all’autonomia dell’elocutio, è fonte di ispirazione. Insomma, c’è molta inventio anche nella dispositio e nell’elocutio. Benissimo, questo lo sappiamo. Però mi sembra che svariate tendenze e pratiche attuali tendano a svalutare l’inventio in sé.

Prendi Kenneth Goldsmith; le sue posizioni, in Uncreative writing del 2012, tradotto di recente con il prolisso titolo CTRL+C CTRL+V (scrittura non creativa) CTRL+C CTRL+V, sono apparentemente innovative, ma a me sembrano di retroguardia. Goldsmith sostiene che dovremmo abbandonare l’originalità, e sfruttare le nuove possibilità che dà la tecnologia digitale, che sta cambiando la scrittura. Le sue intenzioni sono buone, gli atteggiamenti poetici che suggerisce sono divertenti, anche interessanti; ma nell’esito mi sembrano una resa al capitale, alla egemonia digitale. Cerco di spiegare perché.

Riguardo alla svalutazione dell’invenzione: perché dovremmo deprezzare una delle potenze in mano ai singoli individui? Dobbiamo lasciare che a inventare storie sia solo chi ha grandi mezzi, chi ha tanti soldi – come le mega-ditte dell’immaginario – al cinema, nelle serie tv, nei videogiochi, nei best-seller planetari (prodotti quasi tutti dall’editoria anglosassone)? Sì, perché sta’ sicuro che tutte queste grandi aziende non rinunceranno alle loro invenzioni: sanno che trame, volti, melodie, figure sono forze primarie, che toccano gli animi nel profondo e li avvincono, e, oltre a inventarle, queste mega-aziende hanno tutta la capacità pubblicitaria di diffonderle.

Poi, riguardo alle forme digitali: perché dovrei riprodurre in letteratura ciò che mi offre già la rete? La scrittura in rete ha, per contrasto, evidenziato quali sono i punti di forza della letteratura (compresa quella modernista). Quel che sta succedendo nella nostra epoca, infatti, è un processo già accaduto varie volte. Lo schema è sempre quello: un nuovo medium ne rende obsoleto un altro, ma, nel fare ciò, mostra con maggiore evidenza quali erano le caratteristiche più utili e più valide del medium obsoleto.

Senza andare indietro nel passato: pensa alla possibilità di fare videochiamate. In teoria, tutti dovrebbero usare solo questa forma di comunicazione, dato che è la più avanzata tecnologicamente. E invece molti non la usano, non fanno videochiamate, perché la telefonata acustica, tecnologicamente più obsoleta, offre caratteristiche che, se le confronti con le videochiamate, sembrano delle menomazioni, e invece sono dei vantaggi: una telefonata acustica difende la tua privacy; non ti costringe a rivelare in che situazione sei, dove ti trovi in quel momento, e quindi ti permette di mentire (che può essere una forma di legittima difesa di fronte all’invasione di un importuno o di un potente); ti permette di controllare con più accuratezza il tuo messaggio, perché puoi concentrarti sulle parole che dici, sull’espressività della tua voce, senza preoccuparti delle facce che fai mentre parli. Insomma: quella che apparentemente è una forma più obsoleta di comunicazione, ti offre invece delle caratteristiche specifiche che in certe situazioni sono più adatte, più valide, migliori.

La letteratura si trova in una situazione simile. Tra l’altro, lasciami fare una piccola divagazione: più vado avanti, più apprezzo il termine “letteratura”, perché indica proprio la natura alfabetica della scrittura (perlomeno quella occidentale, non ideografica), la traslitterazione in stringhe fatte di elementi discreti, le consonanti e le vocali: per scrivere bisogna passare attraverso quel filo, come una poltiglia di sabbia che attraversa la strozzatura della clessidra e prende forma di parole, per poi perdersi nel giacimento dello scritto. Scrivere è addentrarsi nella letterificazione, nella trafilatura alfabetica. È da millenni che è così. Il termine “poesia”, invece, indica una generica “facitura”, un “facimento”; ma “grammatiké techne” e poi “letteratura” aderiscono più strettamente all’azione dello scrivere, alla sua esperienza diretta. Letteratura: attraversare le parole lettera per lettera, intra-percorrerle nella loro sostanza grafica, visivamente esterna (oculare), fisicamente interna (gestuale), non solo concettuale o sonora, non solo pensata o ascoltata. Scrivere è un’alleanza fra gli occhi e i muscoli, fra l’occhio che sorveglia la mano mentre essa traccia o digita, e l’anima che legge durante la scrittura, e si retroalimenta guardando sulla carta o sullo schermo ciò che sta prendendo forma in quel momento, constata la venuta alla luce della sua espressione, e riceve da essa un immediato effetto retroattivo, che a sua volta rientra nel circolo compositivo e contribuisce a farlo procedere, con questa risonanza oculo-mentale, con questa eco proiettiva, con questo doppiofondo istantaneo che espande il pensiero, e allo stesso tempo lo focalizza su quel coagulo alfabetico, lo rallenta costringendolo ad allinearsi alla velocità della stesura. La letteratura non è la semplice trascrizione di un pensiero, ma un processo che coinvolge anche l’atto fisico, visivo e mentale della redazione concreta, della minuziosa litterazione alfabetica. Fine della divagazione.

Ma nel nostro caso, più che la scrittura, è la paginazione che si ritrova a essere obsoleta rispetto alla rete, agli schermi retroilluminati in cui, come dice Goldsmith, la scrittura è diventata malleabile, materiale, copincollabile, trasmutabile, transcodificabile, infinitamente ricontestualizzabile. Ti faccio pochi semplici esempi: rispetto a quella in rete, la paginazione letteraria in un libro non ha link, e non è manipolabile come qualsiasi documento di videoscrittura; e non consente interazioni, commenti; non si porta addosso le statistiche di quanti l’hanno vista e commentata, di quanti pollici alzati e cuoricini si è guadagnata. La paginazione ti offre un testo nudo, assoluto, circoscritto, inoltrepassabile: non lo puoi trascendere con un link sbalestrandolo in altri contesti; non puoi appoggiarti al giudizio degli altri che lo hanno commentato in fondo a un post: sei lasciato solo, a leggere quelle parole e basta. Bene, ma proprio questo non è forse il di più, e non il di meno, che la letteratura ha da offrire? O (se non vogliamo soppesare il più e il meno) è questa l’esperienza specifica che ti propone, la sua qualità differenziale rispetto alle scritture in rete.

Si possono fare analogie con le altre arti: io vado al cinema, o guardo un film sullo schermo del mio computer, o sul televisore, proprio per vivere l’esperienza di una visione bidimensionale! Il fatto che lo schermo non riproduca la tridimensionalità dell’esperienza reale, e che ritagli solo una porzione rettangolare del campo visivo, non sono minorazioni: sono la specificità di quel medium. Infatti, benché il cinema in 3D sia praticabile, e sia tornato un po’ di moda qualche anno fa, non mi sembra che il pubblico lo prediliga. Noi al cinema vogliamo proprio la bidimensionalità, godiamo esteticamente e conoscitivamente dell’appiattimento audiovisuale del mondo, non lo sentiamo come una intollerabile privazione. Così come non ci sembra una menomazione il fatto che una foto o un dipinto non odorino, non suonino, e non vadano tastati.

Io penso che la letteratura continui a essere potente proprio perché offre un’esperienza differenziale rispetto a quelle che ci offre quotidianamente la rete, nella sua versione su computer o in quella su smartphone.

Perciò, quando Kenneth Goldsmith dice che, sotto la sua apparenza d’immagine, una foto in formato jpg è fatta di lunghissime, incomprensibili, affascinanti stringhe alfanumeriche, ha senz’altro ragione. E sono dilettevoli le manipolazioni che propone di fare con quelle stringhe. Ma non mi pare che dia la stura a esiti granché interessanti. Sono percorsi già esplorati dal modernismo (di cui lo stesso Goldsmith non sembra pienamente informato, nel suo immedicabile anglocentrismo). E comunque, poi, l’interazione umana continua a giocare su altri livelli testuali e comunicativi. Che sono quelli puntualmente accaparrati dalle grandi aziende economiche.

Faccio un’altra analogia: noi sappiamo bene che sotto la pelle del volto ci sono fibre muscolari, vasi sanguigni, nervi, ossa, cellule, molecole: ma la nostra interazione fra persone è ancorata alla superficie facciale, alla sua sorprendente capacità di fare smorfie significative, alla sua versatilità gestaltica. E, lo ripeto ancora, sta’ sicuro che le grandi imprese pubblicitarie, le aziende planetarie dell’immaginario televisivo, videoludico, cinematografico, eccetera, non molleranno di certo questo presidio, continueranno a sfruttare l’Impero del Volto Umano. Ha senso, allora, abbandonarlo completamente nelle loro mani, lasciargliene la totale gestione, per spostarsi su un altro livello, lo strato ipodermico, che è reale, sì, ma incomunicabile e autistico? Dobbiamo rinunciare a esprimere la nostra esperienza del volto, la nostra irriducibilità singolare, individuale?

Vedi, io sono cresciuto a modernismo e cultura pop. Il modernismo l’ho scoperto per caso, dato che sono nato in una famiglia molto modesta, dove non c’erano libri in casa: l’ho incontrato grazie alla televisione generalista degli anni Settanta che trasmetteva anche programmi sorprendenti, a volte astrusi, che interrompevano con epifanie incongrue il flusso delle immagini democristiane; e anche grazie alla presenza della Biennale nella mia città. Ma stavo dicendo che il modernismo ha abbandonato le storie, le trame, le forme tradizionali, le rime, la sequenzialità causale, le melodie, per esplorare l’ostensione irrelata, la giustapposizione, l’elenco, il fonosimbolismo divaricato dal significato, l’astrazione, l’aniconismo, l’atonalità musicale, eccetera. Nel frattempo tutte le potenze antropologicamente primarie, come la narrazione, i personaggi, l’incantagione poetica del ritmo metrico, delle rime, le figure umane e animali, i ritornelli, le melodie, ecc., io le ritrovavo da bambino e da adolescente nella cultura pop, nei romanzi, nei fumetti, nei film, nelle canzoni: opere spesso poco ambiziose artisticamente, ma che hanno mantenuto vive quelle potenze. È la mia doppia sorgente: modernismo e cultura pop. Non posso rinunciare a sperimentare anche dentro la trama, dentro la rima, dentro la figuralità (personaggi, storie, immagini coerenti). La mia dimensione è il pensiero figurale: inventare figure. Inventare storie, situazioni, personaggi, formulazioni, ritmi, impaginazioni.

Per saperne di più:

Tiziano Scarpa è nato a Venezia nel 1963. Ha scritto romanzi, racconti, saggi, poesie e testi teatrali. Ha esordito nel 1996 con Occhi sulla graticola. Gli altri romanzi sono Kamikaze d’Occidente (2003), Stabat mater (2008), Le cose fondamentali (2010), Il brevetto del geco (2016), Il cipiglio del gufo (2018), La penultima magia (2020).

Immagine fornita con autorizzazione all'utilizzo limitato sul magazine online "Il Chiasmo"

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Einaudi#letteratura contemporanea#letteratura#intervista#Tiziano Scarpa