25 gennaio 2020

Ultima*Chiasmo #4 - intervista a Damiano Scaramella

 

In questa intervista parliamo con Damiano Scaramella del suo contributo al primo numero di Ultima e di alcuni caratteri generali della rivista, allargando poi il fuoco sul panorama della poesia contemporanea, chiedendo quale sia la sua posizione rispetto ad alcuni problemi e come egli si collochi, in quanto poeta, rispetto a essi.  Per un inquadramento generale della rivista Ultima e di questo gruppo di articoli rimandiamo all’introduzione precedentemente pubblicata. Questa intervista è stata sviluppata parallelamente a quelle a Tommaso Di Dio, Giuseppe Nibali e Fabrizio Sinisi, e nasce dalla collaborazione di Margherita Coccolo, Antonio Galetta e Carlo Londero.

 

Il tuo scritto L’illusione della parola è forse il più vario di Ultima*Eden, perlomeno quanto a composizione, ad accostamento di elementi diversi: ci sono brevi parabole, versi, dialoghi, traduzioni, unità testuali che mimano, almeno esteriormente, un monologo scritto dall’autore per comunicare con il lettore. Se il carattere non sistematico del tuo intervento può essere spiegato alla luce della natura militante di Ultima, quale necessità soggiace alla forma che hai costruito? Vorrei poi chiederti da dove derivi una sensibilità che considera legittima, quando non necessaria, la giustapposizione di elementi formalmente e stilisticamente tanto vari: ci sono dei precedenti a cui hai guardato durante la stesura di questo testo?

 

Dire è sempre richiamare, a qualcosa, a qualcos’altro, fuori dal discorso in cui crediamo di esserci trovati: parlare affinché qualcuno venga, compaia. Si materializzi in mezzo a noi. Qualcuno che è già venuto, che viene sempre ma non vediamo mai. 

Credo non possa sistematizzarsi, il dire: non esiste una frequenza stabile della parola, convocare è un temporale discontinuo di hertz. È sciocco, spesso, credere che dandoci una struttura, una forma perimetrata, ciò che diremo suonerà più chiaro: suonerà solo ancora più sciocco. Il tentativo è dunque quello di usare varie modulazioni del richiamo perché l’uccello del destino ci risponda. Non uno in particolare, ma quella che avrà da dirci .

Il precedente letterario che ho tenuto a mente è, senz’altro, la vita umana.

 

Nel tuo contributo paragoni ripetutamente la poesia all’esperienza onirica, o comunque all’ illusione: ora, nella Lettera al lettore , dici di sognare che il lettore ‘muoia’ a ogni lettura di un testo, ora invece, in un passaggio dialogico, paragoni la poesia a un tesoro trovato in un sogno. Di più: la poesia cercherebbe di carpire lo spazio residuale tra sogno e sogno, tra visione e visione. Ti chiedo di spiegare meglio cosa intendi paragonando la poesia al sogno e all’illusione.

 

Il sogno è un’umiliazione alla vita. La poesia è un’umiliazione alla scrittura. Indiretta, involontaria. Inevitabile. Parlo del sogno non come processo chimico – non solo –, ma come dinamica mentale. La mente come fatto tecnico, che si adopera a costruire il mondo. Vita e sogno in questo coincidono. Ma il sonno è più profondo del dormiveglia: esistono abissi agrammaticali, dove la tecnica non può più nulla: mi riferisco a quelle fasi in cui né siamo svegli né sogniamo. Vaghiamo inconsapevoli nell’albume nero del nulla, nella paralisi della coscienza. Cosa accade? Dove siamo? Cosa siamo? È uno stato che assomiglia alla morte? Similmente, credo, la poesia. Scrivere somiglia a costruire un sogno. Ma un sogno, appunto, è solo un sogno. Cosa c’è tra un sogno e un altro sogno? Tra una parola e un’altra parola? 

Chi crede che la poesia sia ciò che scrive è un illuso. Tanto quanto chi tenta di riscuotere un gratta e vinci milionario comprato nella tabaccheria di un sogno.

 

Affermi che l’« ascolto » è componente fondamentale del fare poesia, preferendo questo concetto a quello di «ispirazione»: pare di capire che il primo sia continuo, silenzioso, mentre la seconda avrebbe un carattere epifanico, occasionale, che per te è secondario. In questo modo, si capisce perché durante la tavola rotonda a Udine tu abbia parlato di poesia come testimonianza del vissuto (beninteso: testimonianza, non ozioso cronachismo). Pensi che l’attitudine all’ascolto sia innata oppure che si possa lavorare per costruirsene una? Vuoi raccontare qualcosa di più sull’ ascolto nella tua esperienza?

 

L’ascolto è innato. È ciò che siamo predisposti ad ascoltare a fare la differenza. Il modo e il canale. La stazione radio. Il palinsesto televisivo del tuo sogno. Ognuno sente le sue voci, il suo fantasma che fa levitare il tavolo: ma cosa dice? A me dice cose molto chiare. Ma sguaiatissime, irriferibili. Devo testimoniare quello: l’intestimoniabile, l’indicibile. Come un malvivente, ambire alla pena capitale.

 

Nel tuo testo si leggono due dialoghi: il primo con Irma Grese, la nota criminale nazionalsocialista, con cui discuti di poesia, di sogno, di «grammatiche» (ci torneremo); il secondo in cui poni delle domande le cui risposte sono traduzioni in prosa delle poesie di Wallace Stevens. Perché hai scelto di adoperare più volte la forma dialogica per rispondere alla domanda che cos’è la poesia? E perché hai scelto Irma Grese? Vorresti fosse considerata come un interlocutore archetipico?

 

La forma del dialogo è antica. Penso a Socrate, ai maestri orientali. Con il dialogo mi metto in una posizione di imprevedibilità: non so bene dove andrà a parare, anche se fondamentalmente è, certo, una conversazione del tutto interiore. Ma interrogativa: ha senso solo finché c’è una domanda. Finite le domande: che nessuno parli più.

Irma Grese mi sembrava un interlocutore onesto col quale trascorrere una lunga nottata (quella dedicata alla scrittura del dialogo). Avevo bisogno di una figura profondamente antagonista con cui confrontarmi, ma che allo stesso tempo fosse capace di sintonizzarsi con l’abisso che, a mano a mano, tentavo di divaricare.

Lei, lisergica macellatrice, infermiera golosa di veleni, materica e risoluta. Intransigente, lucidissima, perfettamente consapevole del suo scopo nell’ordine atomico dell’universo. Una compagna perfetta per divagare, per non arrivare mai al punto. Per perdersi nell’insignificante, nel poco chiaro che tanto odiava. Senza però – ne ero certo – che questo dilungarsi nella macchia la portasse ad abbandonare la convocazione. 

Qualcosa ci legava, così stretti, lo sapevo. L’ossessione. Non avrebbe mai rinunciato a capire che cosa mi stava bruciando vivo dall’interno. Sarebbe rimasta fino alla fine.

 

Si diceva che, con Irma Grese, discuti tra le altre cose di « grammatiche »: un insieme di convenzioni che permettono l’espressione e l’azione, riguardanti ogni aspetto dell’esistenza. Le grammatiche andrebbero apprese, introiettate, e in seguito dimenticate e superate con un atto di coscienza: stravolte, ribaltate, tradite. Volgendo questo discorso alla scrittura, vengono in mente le parole di Foucault: «l’écriture se déploie comme un jeu qui va infailliblement au-delà de ses règles». Mi piacerebbe che spiegassi in quale modo tali grammatiche agiscano sul/nel poeta, e come egli possa evitare di regredire a loro strumento.

 

Come già detto sopra, quando parlo di «poesia» mi riferisco a qualcosa che già di per sé elude questa domanda. Ho in mente uno stato di grazia, forse. La supernova del pensare umano, l’Andromeda del nostro stare qui. 

È un discorso molto lungo, Margherita, e varrebbe la pena parlarne in profondità. Diciamo, superficialmente, che la poesia è un gesto irreligioso nel bel mezzo della liturgia. Se penso allo sport, ciò che più mi emoziona è l’atleta esoterico, quello che durante il rituale collettivo (per esempio, nel calcio, uno schema in attacco) all’improvviso disorienta la messa con una giocata inaspettata, che magari porta al gol. Immagino la scrittura come un flusso spirituale, in cui la tecnica (banalmente, la metrica, l’andare a capo, il versificare) non è strumento ma apparizione.   E l’apparizione non la decido io né la decidi tu. Appare.

Detto ciò, come ho avuto modo di scrivere in Ultima , non esiste alcuna casualità in questo, nessuna trance o dadaismo. Le apparizioni sono una cosa molto seria.

 

Hai scritto che la poesia è « trascrizione » dal «testo perfetto» che è il mondo – una posizione strettamente collegata, mi pare, all’«ascolto» di cui parlavamo prima. Anche sui social dici di un tuo testo che «da anni si sta facendo». Durante la tavola rotonda a Udine, invece, hai affermato che oggi più che mai è necessaria la lettura: poiché tutto è stato detto e scritto e creare qualcosa di nuovo è pressoché impossibile, è vitale conoscere gli scrittori del passato per potersi inserire nel loro solco, mirando non tanto all’originalità (ormai inesistente), ma a una aderenza alla verità. Emerge, per il poeta, la necessità di due sforzi diversi: lo sforzo attivo della lettura, eminentemente letterario; e quello passivo dell’ascolto, che riguarda, potremmo dire, la totalità della semiosfera . In che rapporto stanno questi due sforzi? Sono in opposizione o possono ( devono ?) ibridarsi?

 

Leggere è un atto di consapevolezza e di conversazione: principalmente col passato, talvolta col presente (se ne vale la pena). È rendersi conto che il mondo ha una forma: come un astrofisico, un biologo, un antico navigatore.

Ciò che comprendiamo dalla lettura è una mappa, un’idea più o meno chiara delle terre emerse e degli oceani. Ma è anche una cartina muta: andiamo per le terre emerse ma non sappiamo bene che cosa possiamo trovare. Pochi scoprono qualcosa. I più si contendono la foresta a suon di clave. Della semiosfera mi importa poco: i segni sono come gli scontrini. Verifichi che non vi sia alcuna truffa, e poi li butti nella spazzatura.

 

Le tue poesie, come Irma Grese non manca di notare, sono apparse su diversi siti dedicati alla poesia contemporanea. Hai ricevuto apprezzamenti da scrittori e critici riconosciuti (pensiamo almeno a Genna e Cucchi) e sei stato selezionato in antologie e premi letterari. Ma a Irma Grese fai notare che «da un po’» non compaiono più tuoi testi online e una tua raccolta poetica (nel senso più tradizionale e immediato dell’espressione) manca. Vorrei chiederti per quale motivo non hai puntato subito alla pubblicazione di un volume e quali strade alternative tu abbia percorso o intenda percorrere e perché.

 

Sento lo scrivere come un momento di ultimità. Come se, ogni giorno, dovessi morire da un momento all’altro. Dunque muoio tra un momento e l’altro. Un momento e pure l’altro. Di continuo.

Vago nel pensiero, in poesia, come se avessi ancora pochi secondi a disposizione prima di scomparire, di tornare nel mio mantello dell’invisibilità. Che è ciò che c’è tra sogno e sogno, ma stavolta assai più grande.

Per il momento non sento l’urgenza di pubblicare un libro. Non ne avverto la profondità. La giustezza. Ora il comandamento è: andare, andare.

Seguo poco, oggi, le serie tv della poesia – quelle trasmesse sui social e sui blog principalmente. Vedo, spesso, molta enfasi, molta felicità, molto orgoglio. Mi spiace sempre vedere esseri umani che si congratulano per i propri successi – un libro? un premio? un’antologia? una strofa apparsa sul giornale? Mi divertono quelli che, addirittura, ambiscono a «costruirsi una carriera» con la poesia, a farsi un nome, a curare qualche volume tirato in mille copie: quelli che credono ancora, inspiegabilmente a mio avviso, al concetto di possesso e guadagno, di sé, del mondo. Una follia. ( Ed io non voglio più essere io! Non più l'esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio come tuo padre, come il farmacista... )

Ecco, mi pare il mondo persegua la sua profezia: rimbecillirsi, benzodiazepinizzarsi di illusioni. 

Vorrei pensare che dove inizia la poesia finisco io. Sono come un uomo murato vivo nel cemento. Emetto solo ultimi respiri, e non so se c’è qualcuno al di là della parete.

 

 

 

 

 

Per saperne di più

Damiano Scaramella (Palestrina, 1990) è editor di saggistica e narrativa italiana della casa editrice il Saggiatore. Ha pubblicato la plaquette Mentre tutti entravamo (2017) e suoi testi sono apparsi su varie riviste, tra cui «Nuovi Argomenti» e il Quadernario di poesia contemporanea 2016, curato da Maurizio Cucchi (LietoColle).

 

 

 

L’immagine di copertina è un’elaborazione di Ilaria Mai e proviene dai quaderni Ultima

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