In questa intervista parliamo con Fabrizio Sinisi del suo contributo al primo numero di Ultima e di alcuni caratteri generali della rivista, allargando poi il fuoco sul panorama della poesia contemporanea, chiedendo quale sia la sua posizione rispetto ad alcuni problemi e come egli si collochi, in quanto poeta, rispetto a essi. Per un inquadramento generale della rivista Ultima e di questo gruppo di articoli rimandiamo all’ introduzione precedentemente pubblicata. Questa intervista è stata sviluppata parallelamente a quelle a Tommaso Di Dio, Giuseppe Nibali e Damiano Scaramella, e nasce dalla collaborazione di Margherita Coccolo, Antonio Galetta e Carlo Londero .
I tuoi Appunti di un discorso di poesia non contengono che parole altrui , citazioni poetiche e in prosa, narrative e speculative – da Cino da Pistoia ad Angelo Maria Ripellino passando per Ariosto, Leopardi e altri. Perché, dovendo provare a rispondere alla domanda che cos’è la poesia , hai scelto di affidare a un collage di citazioni la tua espressione? Nel farlo, hai tenuto presente (almeno a grandi linee) qualche modello precedente?
Perché, più che esprimere un’opinione o un sentire, mi interessava mostrare l’immancabile citazione che il linguaggio costituisce, e che per significare ha bisogno di reazione, di reagire all’interno di un sistema. Tu parli di collage , io parlerei più precisamente di “appunti”, di scheletro, di drammaturgia: un sistema di dialoghi e riferimenti interni in cui ognuno possa ricostruire il suo disegno; ricavare, dalle citazioni, una re-citazione, un proprio linguaggio tramite il linguaggio altrui. Il linguaggio è di per sé un codice analogico, nessuna parola che utilizziamo è “nostra”, tutto viene reinvestito in una funzione combinatoria in cui il parlante – e tanto più lo scrittore – cerca di costruire un sistema di analogie in cui scoppi una significazione più nuova, in qualche modo originale. Del resto, soprattutto in letteratura, dopo il Romanticismo, l’originalità è una delle ossessioni dello scrittore: c’è un obbligo, un dovere dell’originalità che era per esempio del tutto ignoto allo scrittore rinascimentale o barocco, dove invece paradossalmente il valore letterario si misurava proprio sulla capacità di emulazione di un modello. Ho voluto demistificare questa pretesa di originalità con un discorso totalmente “ri-portato”: in cui l’unico elemento arbitrario, di scelta, fosse proprio quello della selezione e dell’analogia. Come accade in qualsiasi discorso, faccio scaturire il mio discorso nella reazione analogica delle parole e dei discorsi altrui. Il grande regista Luca Ronconi diceva che “recitare” significa propriamente “far accadere” il linguaggio: proprio attraverso un uso strategico di un linguaggio altrui io provo a far accadere il mio, decentro l’attenzione via da me, faccio sì che il linguaggio illumini se stesso, che il lettore entri in un drammaturgia indiretta.
La tua operazione sovrappone alla dimensione diacronica dei testi una sincronia tutta personale: parole di epoche e generi assai differenti si offrono montate in sequenza senza alcun discorso di raccordo. Il lettore non sa, testo per testo, se privilegiare il dato semantico o quello storico-letterario. Intanto i possibili ‘itinerari’ all’interno delle citazioni riportate paiono infiniti, se non altro perché è impossibile determinare con certezza quanto tu le sottoscriva: a meno di postulare una totale, pervasiva aderenza, il testo da solo non basta a delineare un profilo univoco di te in quanto autore. Sei d’accordo oppure ritieni che accettare una certa indeterminazione porterebbe il lettore fuori strada?
Sono assolutamente d’accordo con te, e anzi l’intento specifico era proprio questo, far cortocircuitare i livelli, in modo che i piani si sfumassero l’uno nell’altro e il lettore potesse diventare “attore”, scegliere una strategia di linguaggio, decidendo di adottare un livello di lettura oppure un altro, selezionando delle opzioni, così che tutto scaturisca dalle scelte di rapporto fra i testi che si decide di adottare: un discorso sulla morte, una lamentazione della e sulla poesia, un’apologia della corporeità del fatto letterario. Volevo, in un certo senso, fuggire dalla letteratura tramite la letteratura stessa: evitare un (ennesimo) mio discorso portando sulla pagina un crudo fatto letterario come fatto quasi fisico, fisiologico, flussi di discorso che funzionano qui come frammenti sopravvissuti a un’esplosione, brani di un naufragio da cui scaturisca grande libertà nell’immaginare l’intero. Non escludo ovviamente l’evocazione di una strategia di lettura che io non ho ancora immaginato, la letteratura funziona come significazione infinita oppure non funziona affatto. Non amo una concezione sacrale, sacerdotale della letteratura: mi piace – e questo era il mio tentativo – quando posso considerarla in modo più strumentale e ambiguo. Intendo questa operazione come un’esposizione di “materiali”, l’offerta ironica di un bellissimo scheletro destrutturato, un “mondo fuori dai cardini” per dirla con Amleto.
Dal momento che hai deliberatamente scelto di non scrivere nulla di attribuibile a te in qualità di autore, probabilmente è improprio chiederti di rispondere di alcuni contenuti che pure hai portato sulla pagina. Tuttavia, farlo potrebbe aiutare a comprendere la tua operazione. Quindi, partendo dalla citazione di Leopardi tratta dallo Zibaldone in cui egli ragiona sul contrasto oppositivo tra bellezza e grazia, termini che hai citato anche durante la tavola rotonda a Udine, vorrei che tu spiegassi in che relazione ritieni che queste due categorie siano con la poesia .
È difficile essere categorici su questi termini, che nella mia riflessione sono estremamente importanti, ma non per questo più comprensibili; rifarmi a Leopardi era un modo per approfondire ma anche per evitare la definizione. Dunque devo semplificare molto brutalmente: immagino grazia e bellezza in un senso se vuoi estremamente tradizionale, come riferimenti a due mondi complementari e nel contempo opposti, il divino e l’umano, il denso e il chiaro, la verità e l’artificio razionale. Mi ritrovo a credere sempre meno nella bellezza comunemente intesa, in una simmetria capace di suscitare apprezzamento ed emozione, credo che essa non sia che il risultato sempre mutevole di un rapporto fra modelli emulativi in perpetuo agonismo. Credo invece alla grazia come qualcosa di estemporaneo e imprevedibile, che accade tramite la tecnica ma che non è la tecnica, un’eruzione di energia non contenuta nella somma dei fattori. Se dovessi definire la mia attività di scrittura, la definirei come un tentativo di raggiungimento e ottenimento della grazia, un’offerta, un tentativo di liberazione di un’energia. C’è qualcosa di estremamente ed eminentemente sacrificale nell’atto poetico. Del resto le ricerche che riguardano le origini della tragedia lo confermano: mi sento molto lontano da un’idea privata, personale, addirittura confessionale della poesia, credo che quanto più la letteratura si avvicini a una dimensione “privata” si rintani in un participio passato del verbo privare, si costringa a un’orfanità forzata in cui prima o poi si spegne, come il fuoco a cui manca l’ossigeno. L’atto poetico, io credo, deve cercare la sua grazia, che è come dire che deve cercare la sua necessità, la sua liberazione, deve accumulare dentro di sé un’energia – fatta di temperatura stilistica e tematica, di rabbia, di condensazione, di agonismo razionale – che l’atto linguistico deve poi necessariamente scatenare. In un momento di reale poesia dobbiamo vedere questo spreco, questa liberazione, questa energia atomica che libera e allo stesso tempo tiene insieme, trova analogie nuove all’interno di una esplosione di senso, l’estensione di un campo magnetico irresistibile. Questa energia che dà fuoco senza distruggere, che divampa senza consumare, come nell’immagine biblica, è la mia immagine del sacrificio, la mia immagine della grazia, e quindi della liberazione, ed è quello che cerco sia come scrittore che come lettore.
Una riflessione che nel tuo scritto manca, ma su cui più volte sei tornato durante la tavola rotonda a Udine, riguarda la presenza di un attrito come fattore generativo di ogni scrittura artistica. Un ostacolo, una forza contraria che, premendo sull’autore, pone le condizioni per l’emergere dell’espressione. Hai fatto riferimento a Senza trauma di Daniele Giglioli (Quodlibet 2011), libro scaturito dall’idea che la nostra letteratura stia ponendo al proprio centro il trauma di non avere un trauma reale per reagire all’assenza di effettive e dirompenti esperienze traumatiche contro cui lottare («mai, prima, a una generazione umana era stata risparmiata l’esperienza della guerra, dell’arruolamento forzato, del combattimento, forse della morte, delle mutilazioni, della prigionia, della fuga», ha scritto Adriano Sofri ) . Quanta discrezionalità ha, secondo te, l’autore nello scegliersi l’attrito contro cui scrivere? E quanto questo attrito è per lui indispensabile ?
Personalmente io credo che sì, che lo sia. Non tanto la ricerca dell’esperienza traumatica, che proprio in quanto cercata smetterebbe di essere trauma e diventerebbe posa, ennesima ragione narcisistica. Credo invece che la letteratura di oggi manchi spesso di rapporto con l’Altro, lacanianamente inteso: la realtà che sopravanza nelle righe vuote della nostra narrazione, il Reale come Altro, come Emergenza. Che questa emergenza si presenti nella forma della cronaca politica mondiale o in un lacerante fatto privato, non lo so e non posso saperlo; ma credo che l’universalità dell’espressione sia da ricercare sempre, e che non possa essere ricercata al di fuori di un conflitto. È una cosa che s’impara facilmente scrivendo per il teatro: non c’è espressione senza conflitto. E, credo, non c’è neanche verità se non in fondo o alla radice di un conflitto, che va però attraversato tutto senza sconti. Ognuno ha il suo conflitto. Cercarlo non significa certo andare in giro come degli attaccabrighe tematici cercando spasmodicamente il proprio avversario: l’avversario c’è sempre, è lì, nel profondo, avversario tematico, filosofico, religioso, metafisico. Spesso ci rifiutiamo di vederlo, di guardarlo: ma l’Avversario c’è sempre, magari per me è diverso che per te, ma è contro di lui che io scrivo, contro di lui tu devi scrivere, perché dal conflitto con lui emerge la vera natura di te, che altrimenti è edificazione di un gioco di specchi narcisistico. È vero in antropologia come nella storia: il conflitto fa scaturire dolore, e il dolore fa scaturire verità. Sono convinto che non si possa fuggire, perlomeno nella condizione occidentale della cultura, da questa necessità già colta da Eschilo: con il patire il capire. E perché si attraversi il dolore, bisogna combattere. Forse, arriverei a dire, tanti problemi della letteratura d’oggi vengono proprio da questo aver abdicato il conflitto, aver rimosso la natura conflittuale connaturata alla scrittura.
Tu sei un drammaturgo e per il teatro scrivi testi in versi . Vorrei chiederti di illustrare i motivi di questa scelta. Ma mi piacerebbe anche sapere in quale modo tendenzialmente lavori: dalla prosa alla versificazione, con un procedimento analogo alla scrittura poetica, oppure…?
Lavoro ai testi teatrali esattamente come con le poesie: direttamente in versi, seguendo un flusso. Paul Valery diceva: “Il primo verso è sempre donato”. Per me funziona così, il primo elemento espressivo è sempre donato, è sempre un punto sorgivo, su cui poi lavoro per sviluppo e per declinazione, cerco di costruire o far emergere tutta la struttura intorno a quel punto o immagine iniziale, e se la partenza è buona, mi accorgo che c’è una specie di percorso elettrificato, diversi punti di connessione e di sinergia, che vanno progressivamente attivati. A volte sono immagini quasi banali. Nel caso di Guerra santa, tutto cominciò dall’aver visto, su una terrazza a Lugano, una ragazza giovanissima di profilo su un balcone illuminato dal sole. Mi parve un’Annunciazione medievale. E pensai, in modo un po’ folle: quale potrebbe essere, oggi, un’annunciazione? Un’umanità che fa irrompere la violenza del divino nel tessuto quotidiano della storia? Il terrorismo è una perversione di questo tentativo: la violenza come apertura di uno spazio del divino. E il terrore come conseguenza, in un certo senso, di questo stare davanti al divino. Ho cominciato a lavorare su questa idea un po’ matta, partendo da piccoli gruppi di versi che ho appuntato in quei giorni. Il resto è scaturito come una declinazione.
La tua plaquette di poesie inclusa in Ultima*Vox si intitola Mio terrorista . Durante la tavola rotonda a Udine hai affermato di averla scritta a ridosso degli attentati di Parigi, ponendo come almeno fittizio interlocutore proprio un terrorista. Inoltre, un tuo testo teatrale ( Guerra santa , vincitore del Premio Testori per la Letteratura 2018) riguarda il jihad e il suo significato per la cultura europea. Quanto è frequente, per te, scrivere poesie o testi teatrali che riguardino l’attualità e che da essa partano? Quale valore assegni a questa operazione?
Lo ritengo un dovere. Non un dovere politico o sociale, ma un dovere culturale e artistico. Anche se magari gli eventi non vengono nominati, accadono; e in quanto accadono, sono una ragione e un fattore di quell’attrito che dicevamo prima. L’aria che respiriamo, le strade dove camminiamo, i vestiti che indossiamo, le persone con cui parliamo sono attori, anche loro malgrado, di un conflitto, che vivono, combattono, impersonano a vari livelli. Tutto questo è già qui. E la letteratura prende comunque posizione: anche il non prendere posizione è una posizione. Io personalmente vivo il rapporto con l’attualità con una specie di vocazione metaforica, cerco di porre il punto di vista specifico della letteratura lì dove esso manca: e proprio per questo devo passare attraverso il “non-letterario”. La letteratura non può non nutrirsi di ciò che non è letteratura, deve bruciare ciò che essa non è, altrimenti il fuoco puzza. Mi sono interessato al terrorismo in quanto fenomeno in cui mi sembravano confluire tanti temi e assi che giudico estremamente importanti per me e per noi inoltre, la narrazione del terrorismo come scontro fra civiltà, atti di guerra, antropologia religiosa, mi sembrava sbagliata. Così ho provato a impostare nuovi punti di vista, nuovi modi di entrare nella questione. Guerra santa , che ho scritto due anni fa, era un modo di guardare al terrorismo come un rapporto tra padri e figli; Mio terrorista, in Ultima, è un fascio di poesie incentrate sul terrorista visto come innamorato respinto, come un desiderante senza pace.
In quanto drammaturgo, per te la scrittura è una professione e probabilmente i teatri e le compagnie con cui collabori impongono dei ritmi e delle scadenze che devi rispettare. Allora, quale significato ha, per te, un progetto assolutamente libero, sotto ogni aspetto, come Ultima ?
È uno spazio di lavoro e d’immaginazione fuori dal mercato, e questa credo sia la sua caratteristica più interessante; non è un progetto che ha il dovere di piacere necessariamente a qualcuno. Inoltre, e mi preme dirlo, è uno spazio di amicizia. Nessuno denuncia il fatto che la letteratura stia diventando un atto estremamente individuale; e la sua dimensione salottiera, festivaliera, non fa che enfatizzare questa atomizzazione. Sono spariti i movimenti, i collettivi, i gruppi. Ultima è invece uno spazio di lavoro tra persone che sono insieme, esistenzialmente, che condividono lo spazio di una città e di un’amicizia estremamente serrata. La novità, e forse anche il limite di questa collettività, è il non condividere una scelta assiomatica: veniamo da professioni, riferimenti, addirittura idee della letteratura anche molto diverse. Ma c’è una precondizione umana, un bisogno di condivisione e anche di divertimento profondo, l’urgenza di un’amicizia che non sia pura distrazione ma, appunto, comunanza affettiva e intellettuale. Credo che la letteratura abbia bisogno di questo, di una dimensione più realmente comunitaria. E Ultima per me è anche questo, forse addirittura soprattutto questo, uno spazio realmente comune – una tribù.
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Fabrizio Sinisi è nato a Barletta nel 1987, ha studiato a Bari e attualmente vive e lavora a Milano come drammaturgo. Collabora con la Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze, ed è drammaturgo residente del Centro Teatrale Bresciano per il triennio 2018-2020. La sua raccolta poetica Contrasto dell’uomo e della donna (CartaCanta 2014) è stata menzionata al Premio Carducci 2015. Il suo testo teatrale Guerra santa ha vinto il Premio Testori per la Letteratura 2018, ed è stato pubblicato da Schena Editore nel 2019. La citazione di Adriano Sofri viene dal saggio La prima e l’ultima volta , introduzione a La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001 , a cura di Alessandro Marzo Magno, Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 9-14.