16 ottobre 2021

Genere sociale e lingua italiana

Davvero un capitolo chiuso?

Introduzione

 

L’ostilità nei confronti delle innovazioni linguistiche che si riassumono sotto il nome di linguaggio inclusivo, sovente alimentata dalla falsa credenza che la lingua non abbia alcuna azione di rinforzo sulla percezione della realtà sociale, trova spesso giustificazione in dichiarazioni pubbliche di intellettuali che mostrano, tuttavia, scarse conoscenze in materia di pianificazione linguistica e, nella fattispecie, teorie di genere e teorie queer.

 

La recente consulenza offerta dall’Accademia della Crusca, dal titolo Un asterisco sul genere, fa quantomeno intendere che la questione, anche se da alcunз collegata ad una minoranza della popolazione italiana più rumorosa che numerosa, è sentita a tal punto da meritare una disamina. Una panoramica con uno sguardo rivolto anche ad altre lingue europee (e non) è stata già offerta in una precedente intervista a Cesco Reale, apparsa nel nostro magazine.

 

La tesi finale di Paolo D’Achille, autore della consulenza, si riassume nell’assunto secondo il quale non si dovrebbe «cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale».

 

Scopo di questo contributo è mostrare che queste problematiche, al contrario, rappresentano qualcosa di cui non si può, né si dovrebbe, serenamente prendere atto.

 

Nell’affrontare la questione, si è deciso in primo luogo di offrire alcune nozioni fondamentali sulle tematiche connesse alle categorie di genere sociale e sesso biologico, per poi passare ad analizzare la situazione del genere grammaticale nella lingua italiana.

 

 

Genere sociale e sesso biologico: alcuni problemi

 

Si prenda in considerazione il termine “donna”. Esprime esso una identità di genere, o il sesso di una persona? Parlando di una donna, sto implicando che il referente abbia un certo ruolo sociale, o un certo fenotipo sessuale? Forse entrambe le cose, dipende dal contesto.

 

È certamente difficile rispondere a questa domanda senza aver chiaro cosa sia il genere sociale e cosa il sesso biologico. D’Achille, citando il Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT), definisce il genere come «l’appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali». In un articolo nel 1986, intitolato Gender: A Useful Category of Historical Analysis, Joan W. Scott attribuisce la paternità del significato moderno del termine al movimento femminista, che distinse il sesso dal genere con l’intento di ribadire le ripercussioni sociali della differenza sessuale; non solo, il termine doveva altresì rendere giustizia delle rivendicazioni sociali di molte donne occidentali: la biologia (i.e. il sesso) non avrebbe più dovuto determinare la vita che esse avrebbero vissuto (i.e. il ruolo sociale).

 

Si pensi, tuttavia, al ruolo sociale di una donna egiziana, emigrata, o addirittura rifugiata, madre di sei figliз, o al ruolo sociale di una donna olandese, pittrice, lesbica, senza figliз. L’essere donna, prevedibilmente, può accompagnarsi a più di un ruolo sociale, e questo non aiuta nel trovare una definizione. Tuttavia, non potendo rinunciare a quella rivendicazione fondamentale, ossia la libertà della donna di determinare la propria vita a prescindere dalle contingenze biologiche, si è esasperata una definizione di “donna” basata esclusivamente sul genere, arrivando alla conclusione che, a causa delle grandi e importanti differenze che esistono tra le diverse donne nel mondo, la parola “donna” rappresenterebbe, in ultima istanza, un concetto vuoto, di volta in volta riempibile dall’idea di questo o quel tipo di ruolo sociale attribuibile al sesso femminile. Questo tema ha occasionato numerosi dibattiti sul finire del secolo scorso in seno alla filosofia analitica di impostazione femminista.

 

Le reazioni furono molte: si propose di abbandonare il concetto di “donna”; si propose di continuare a usarlo per comodità, anche senza spiegarlo; altrз proposero analisi revisioniste. Comunque sia, il trattamento del termine “donna” come genere sociale ha mostrato sufficienti criticità da spingere altrз studiosз a preferire una definizione di “donna” basata su evidenze biologiche.

 

A una prima analisi, infatti, si potrebbe con facilità far riferimento ai diversi fattori che tradizionalmente contribuiscono all’individuazione e alla definizione dell’identità sessuale:

 

1) cromosomi sessuali: femminile (XX) e maschile (XY);

 

2) ormoni sessuali: femminili (estrogeni) e maschili (androgeni), e la loro produzione e assimilazione durante la gravidanza, durante l’infanzia e dopo l’adolescenza, che può dar luogo a costituzioni fisiche (dette ‘fenotipi sessuali’) femminili o maschili;

 

3) genitali: vulva e clitoride, scroto e pene;

 

4) caratteri sessuali secondari: presenza o assenza dei seni, del pomo d’Adamo, della barba, tono della voce, distribuzione del grasso corporeo, struttura muscolare, spessore e distribuzione dei peli, larghezza dei fianchi e delle spalle, ecc.;

 

5) gonadi: ovaie e testicoli.

 

Per cui si dirà che una donna presenta cromosomi X, che produce durante la pubertà una maggiore quantità di estrogeni, che ha una vulva e una clitoride, delle ovaie, e tutta una serie di tratti fenotipici che la caratterizzano esteriormente rendendola evidentemente riconoscibile come donna. Questa caratterizzazione, per quanto umanamente povera, accomunerebbe, tuttavia, la donna egiziana e la donna olandese di cui si è parlato.

 

Ciò nonostante, molte persone che si identificano come donne non rientrano in questa definizione, potendo esse non presentare alcuno (è il caso di una porzione delle donne transgeneri) o parte (persone intersessuali che si identificano come donne, di cui si parlerà ora) dei fattori sessuali sopra riportati. Ci si trova, quindi, nell’infelice situazione di avere a che fare con un termine che, sia nella sua accezione di genere, come in quella sessuale, presenta dei limiti notevoli; ma sono proprio questi limiti a fungere da segnavia verso l’adozione di una definizione di genere e sesso che soddisfi a un tempo il rigore scientifico e garantisca rispetto a chi, attraverso quel termine, si sente rappresentata.

 

I due paragrafi successivi, pur distaccandosi in parte dal tema principale di questo contributo, intendono offrire allǝ lettorǝ delle informazioni essenziali sull’intersessualità e sul transgenerismo, nozioni che verranno riprese in seguito, quando si parlerà di genere grammaticale.

 

 

Intersessualità: l’eccezione che smentisce la regola

 

Nel 2015, la Società Italiana di Psicoterapia per lo Studio delle Identità Sessuali (SIPSIS) ha dato alle stampe un volume curato da Federico Ferrari, Enrico M. Ragaglia e Paolo Rigliano, intitolato Il genere. Una guida orientativa, fondato, però, su una visione tipicamente binaria del sesso biologico. L’intersessualità, difatti, di cui si è parlato in un recente articolo de Il Chiasmo, all’interno di questo testo viene affrontata solo nell’ultimo capitolo, peraltro come eccezione che confermerebbe la regola dei due sessi. Parrebbe vero piuttosto il contrario: l’intersessualità non conferma, anzi smentisce il binarismo dei sessi.

 

Lungi dal rappresentare una realtà facilmente definibile, l’intersessualità è un insieme di possibili condizioni fisiche in cui i fattori caratteristici che determinano il sesso biologico si trovano ad essere configurati in combinazioni generalmente ritenute atipiche rispetto alla norma stabilita dal binarismo. La medicina classifica alcuni di questi casi come “sindromi”, ovvero disordini dello sviluppo sessuale (DSD, Disorders of Sexual Development); il movimento intersessuale, tuttavia, rifiuta questa dicitura.

 

Due forme di intersessualità rappresentative di individui con cromosomi XY, nonostante le possibili condizioni intersessuali siano moltissime, sono la così definita “Sindrome da insensibilità agli androgeni” (AIS) e il deficit steroido 5-alfa-reduttasi (si tratta dell’enzima deputato alla conversione del testosterone in diidrotestosterone, che è più affine ai recettori androgeni e ha, quindi, un impatto più evidente del testosterone). Per entrambe le condizioni, nonostante i cromosomi degli individui siano corrispondenti alla configurazione attesa – quantomeno dal senso comune – per una espressione fenotipica dei genitali di tipo maschile, si riscontra esteriormente un organo sessuale del tutto simile alla vulva, ma privo di ovaie e con la presenza dei testicoli nell’addome. Molte di queste persone subiscono, alla nascita o nei primi mesi di vita, violenze chirurgiche mirate a “rettificare” la fenotipicità sessuale. Ne è un esempio Bo Laurent, che nel 1993 fondò a San Francisco la Intersex Society of America: persona intersessuale con cromosomi X, venne cresciuta come un maschio fino ai diciotto mesi, quando le fu modificato il genere anagrafico in seguito alla rimozione dell’organo erettile, a cui seguì sette anni dopo la parziale eliminazione della porzione testicolare degli ovotestis. Di seguito la sua testimonianza:

 

«Moltз tra quellз che hanno subìto operazioni di correzione sessuale sono cronicamente depressз, immersз nell’inutile desiderio del ritorno di parti del proprio corpo. I suicidi non sono rari. Alcunз ex-intersessuali diventano transessuali, rifiutando il sesso che è stato loro imposto. L’assenza di studi di controllo periodico sullз adultз per accertare l’esito a lungo termine dell’intervento è evidente. Il dogma medico della riassegnazione del sesso delle persone intersessuali è incentrato sull’“adeguatezza” del pene. E dal momento che non si riesce a costruire un pene grande a partire da uno piccolo, si preferisce l’assegnazione del sesso femminile. Poiché una clitoride grande è considerata “deturpante”, si fa largo uso di interventi chirurgici per rimuoverla, accorciarla o spostarla. Se un maschio con un pene “inadeguato” (piccolo, ma con sensazioni erotiche normali) è considerato una tragedia, la stessa persona trasformata in una femmina con sensibilità vaginale ridotta o assente è considerata normale» (Ch. Chase 1993, Intersexual Rights, «The Sciences», 7/8: 24 [traduzione dell’autorǝ]).

 

Riproponendo una classificazione dei fattori che determinano le possibili espressioni genetiche e fenotipiche della sessualità, appare evidente come la situazione si renda più complessa:

 

1) cromosomi sessuali: in aggiunta alle possibili configurazioni del maschile (XY) e del femminile (XX), si rammentano anche i casi in cui i cromosomi manifestano le seguenti combinazioni: XXY (sindrome di Klinefelter), X0 (sindrome di Turner), XX-XY (mosaicismo sessuale);

 

2) ormoni sessuali: gli ormoni maschili (androgeni) e femminili (estrogeni) sono in realtà presenti in percentuali differenti in tutti gli esseri umani, la loro produzione e assimilazione durante la gravidanza, durante l’infanzia e dopo l’adolescenza può dar luogo a costituzioni fisiche tipicamente maschili o femminili, oppure atipiche rispetto agli standard collegati ai ruoli di genere occidentali di uomo e donna;

 

3) genitali esterni: scroto e pene, vulva e clitoride sono tipicamente considerate come le uniche due possibilità di sviluppo dei genitali umani, ma esistono organi atipici rispetto agli standard del maschile e del femminile, ad esempio organi erettili di dimensione e aspetto intermedi tra il pene e la clitoride (che la medicina, in maniera infelice, definisce “micropeni” o “clitoridi ipertrofici”, definizioni che vanno a danno delle persone che posseggono tali peculiarità fenotipiche);

 

4) genitali interni: va considerato che non soltanto la vagina, l’utero e le ovaie, ma anche i testicoli possono essere contenuti all’interno dell’addome; inoltre, non tutte le vagine terminano in un utero e non tutte sono profonde abbastanza da essere penetrate da un pene in erezione di dimensioni medie;

 

5) caratteri sessuali secondari: la presenza o l’assenza dei seni, del pomo d’Adamo, della barba, il tono della voce, la distribuzione del grasso corporeo, la struttura muscolare, lo spessore e la distribuzione dei peli, la larghezza dei fianchi e delle spalle, ecc.;

 

6) gonadi: non solo testicoli e ovaie, ma anche gli ovotestis, composti da tessuto misto, testicolare e ovarico.

 

Per ragioni di semplificazione non del tutto condivisibili, si è tipicamente presentato il sesso biologico secondo tre livelli di analisi: il livello genetico (espressione genetica sessualmente specifica, secondo le combinazioni di cromosomi), il livello ormonale (nel feto, durante l’infanzia e la pubertà), e il livello anatomico (genitali e caratteri sessuali secondari – in altre parole, la caratterizzazione fenotipica). Si analizzi la situazione di una persona intersessuale con cromosomi X, che presenta una forma di iperplasia adrenale congenita. Ciò provoca una produzione dell’ormone superiore agli standard femminili, con una conseguente crescita della clitoride al punto da raggiungere le dimensioni di un pene. Generalmente, questa condizione si accompagna ad una vagina poco profonda e una vulva atipica, con un numero non raro di casi in cui, durante la pubertà, i caratteri sessuali secondari tendono a evolvere in direzione maschile; ebbene, come trattare un caso di questo tipo? Si potrebbe asserire che questa persona:

 

1) a livello genetico è di sesso femminile;

 

2) a livello ormonale produce più ormoni di quelli prodotti in media da individui di sesso femminile;

 

3) a livello anatomico il fenotipo sessuale rimanderà all’uno o all’altro sesso a seconda dei casi, ma resta indubbia l’atipicità delle gonadi e dei genitali.

 

Lo stesso si può dire per persone con corredo cromosomico XXY, X0 o XX-XY. Per ognuna delle numerose possibilità, la definizione biologica di “donna” (e, specularmente, anche quella di “uomo”) sembra non riuscire a giustificare la varietà naturale. Complessificandosi a tal punto le combinazioni di tratti fenotipici, appare affatto chiara la difficoltà nel trattare il tema. Ciò che è certo è che le persone intersessuali non rappresentano l’eccezione che conferma la regola, bensì l’eccezione che la smentisce, invalidando il binarismo sessuale, mostrando che questo non descrive affatto la diversità umana, quanto, piuttosto, la prescrive. Le persone intersessuali rappresentano una percentuale che va dallo 0,5 al 1,7% della popolazione mondiale.

 

Nel 1993, Anne Fausto-Sterling rilesse l’intersessualità “depatologizzandola”, sostenendo che la medicina avrebbe dovuto riconoscere almeno cinque categorie sessuali, oltre a maschile e femminile.

 

«Da qualche tempo la ricerca medica ha riconosciuto il concetto del corpo intersessuale. Ma la letteratura medica standard usa intersex come un termine ombrello per tre principali sottogruppi, con una qualche mescolanza di caratteristiche maschili e femminili: i cosiddetti ermafroditi veri, che io chiamo “herms”, che hanno un testicolo è un ovaio (le gonadi, che producono spermatozoi e uova); gli pseudoermafroditi maschili (“merms”), che hanno testicoli e qualche tratto di dei genitali femminili, ma non le ovaie; e gli pseudoermafroditi femminili (“ferms”), che hanno ovaie e qualche tratto genitale maschile ma non i testicoli. Ciascuna di queste categorie è di per sé complessa; per esempio, la percentuale di caratteristiche maschili e femminili può variare molto tra i componenti dello stesso sottogruppo» (A. Fausto-Sterling [1993] 2019, I cinque sessi: perché maschio e femmina non sono abbastanza, in: M. Balocchi, Intersex. Antologia multidisciplinare, Edizioni ETS, Pisa, p. 226).

 

Il salto, da qui alla messa in discussione dell’intero sistema della scienza medica, è arrivato nell’estate del 2000, in un secondo articolo di Fausto-Sterling, nel quale l’autrice propose una nuova concettualizzazione di sesso e genere:

 

«Può sembrare naturale considerare le persone intersessuali e transessuali come esistenti a metà tra i poli di uomo e donna. Ma uomo e donna, mascolino e femminino, non possono essere analizzati come una sorta di continuum. Piuttosto, sesso e genere sono meglio concettualizzati come punti in uno spazio multidimensionale» (A. Fausto-Sterling [2000] 2019, Per una rivisitazione de I cinque sessi: la crescente consapevolezza che le persone presentano sbalorditive varietà sessuali sta mettendo alla prova principi medici e norme sociali, in: M. Balocchi, Intersex. Antologia multidisciplinare, Edizioni ETS, Pisa, p. 40).

 

In questa linea interpretativa si muovono anche le teorie di genere, dove il caso emblematico è rappresentato dalle persone di genere non-binario.

 

 

Transgenere: identità binarie, non-binarie

 

Nel 1953, Harry Benjamin pubblica l’articolo Transvestitism and Transexualism (all’interno del settimo numero dell’International Journal of Sexology), dove per la prima volta il termine “transessuale” viene usato come sostantivo per indicare una precisa categoria di persone. Nel 1975, la categoria di “transessualismo” viene inserita nell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Cinque anni dopo, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), redatto dall’American Psychiatric Association, lo identifica con il nome di “disturbo dell’identità di genere”. Solo nella quinta edizione del DSM (2013) la denominazione è sostituita dall’espressione “disforia di genere”. Nel giro di quarant’anni, il transgenerismo si è trasformato in un’affezione psichiatrica meno grave, provocando un disagio accompagnato da depressione, le cui cause si sono rinvenute nella mancata corrispondenza tra identità e biologia; tale affezione psichiatrica, però, non è più considerata patologica dalla manualistica di riferimento.

 

Il termine “transgenere” inizia a farsi strada nel 1992, grazie all’opera di Leslie Feinberg Transgender Liberation: A Movement Whose Time Has Come, per indicare tutte quelle persone che si identificano con il genere opposto al loro sesso biologico, ma che per vari motivi (di natura economica, ideologica, ecc.) non intendono o non possono sottoporsi a operazioni chirurgiche, nonché coloro la cui identità di genere semplicemente si trova, in qualche modo, in una posizione intermedia tra uomo e donna.

 

Oggi il termine ha assunto una definizione diversa: indica individui in cui l’identità di genere non coincide con quella assegnata alla nascita, a prescindere dalla volontà di queste di intraprendere un percorso di transizione o di non identificarsi all’interno di uno dei due modelli proposti dal binarismo di genere. Coloro, invece, la cui identità di genere coincide con il genere assegnato alla nascita, si definiscono cisgeneri.

 

Qual è, in ultima istanza, la differenza tra sesso biologico e genere sociale?

 

Il sesso biologico, si è visto, è la combinazione dei fattori genetici e dei tratti sessuali secondari; tale combinazione può andare a configurarsi secondo modelli che possono divergere da ciò che tradizionalmente viene definito “maschile” e “femminile”.

 

Il genere sociale è il risultato della relazione tra ruolo di genere e identità di genere:

- il ruolo di genere è la manifestazione esteriore del genere secondo le convenzioni sociali;

- l’identità di genere è la consapevolezza di appartenere a una categoria di persone socialmente riconoscibile.

 

Alcunз autorз utilizzano anche la nozione “espressione di genere”, che avrebbe pressappoco lo stesso significato del ruolo di genere, definendo quest’ultimo, di conseguenza, come l’insieme delle norme comportamentali di un dato genere. In tale contributo, tuttavia, si mantiene salda la definizione sopra proposta di ruolo di genere, in linea con la guida SIPSIS (2015).

 

Il DSM (2013) rintraccia le cause della disforia di genere nella mancata corrispondenza tra identità di genere e biologia (i.e. sesso biologico), ma questa definizione si applica meglio a quelle persone che intendono intraprendere o hanno già intrapreso un percorso di transizione. Nel caso delle persone transgeneri, la cui etichetta comprende anche le persone transessuali, questa disforia è generalmente provocata dalla divergenza tra identità e ruolo di genere, anche se quest’ultimo, almeno nella nostra cultura, è fortemente determinato dal sesso biologico.

 

Si consideri l’esempio di una persona transgenere, il cui genere assegnatole alla nascita è “uomo”. Ora, questa persona percepisce la propria identità di genere come qualcosa che si situa più vicino al genere “uomo” che al genere “donna”, ma non abbastanza da potersi definire “uomo”. Le identità non-binarie di questo tipo sono note come semigeneri (dall’ing. demigender). Dal momento che il ruolo di genere, in quanto manifestazione esteriore, è fortemente legato alla fenotipicità sessuale, questa persona può trovarsi a sperimentare una divergenza tra la propria identità di genere (semigenere) e il proprio ruolo di genere (uomo). Nel caso specifico, la persona non intende intraprendere un percorso di transizione, poiché si sente a proprio agio nel corpo in cui si trova, ma non si rispecchia nelle convenzioni sociali nei confronti delle quali è chiamata a rispondere, a tal punto da mostrare i sintomi tipici della disforia di genere. Alcune persone transgeneri arrivano a modificare il proprio corpo per attenuare la divergenza tra ruolo di genere e identità di genere, ma si tratta di una conseguenza secondaria; le origini della disforia non sono imputabili direttamente alla biologia, quanto al ruolo di genere, che per ragioni sociali e culturali è, però, in stretta relazione con essa.

 

«Ci poniamo la domanda: in una società meno transfobica, in una società meno binaria, avremmo forse bisogno di fare tutto ciò che facciamo? Indossiamo abiti che l’assegnazione di genere ci preclude e speriamo che gli ormoni mutino i nostri corpi: lo faremmo lo stesso? Nascondiamo il seno con i binder, cerchiamo la posizione in cui il bozzo del pene un po’ scompare [...]. Tuttavia viviamo in questo mondo in cui tutto, fin dalla prima infanzia, è genderizzato: il nome, la tutina, i bagni pubblici, persino il gelato. E quindi, spessissimo, ci troviamo a ragionare come ragionano le persone binarie» (F. Sottile 2020, La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre, Eris, Torino, pp. 25-26).

 

Si è di recente rivolta l’attenzione verso le identità non-binarie, alcune già socialmente accettate e legittimate in certe culture, altre nate sviluppando una propria agency, una propria performatività sociale, a volte attraverso la critica serrata di ogni logica binaria ed eteronormativa. Si tratta di identità di genere che in qualche modo si pongono a metà strada o all’infuori delle opzioni di “uomo” e “donna”, o addirittura possono comprendere entrambe. Le persone non-binarie sono quasi sempre persone transgeneri, poiché per note ragioni culturali è estremamente raro, se non del tutto improbabile, che questo genere, a sua volta scomponibile in diverse identità di genere, sia assegnato fin dalla nascita. Secondo uno studio del William Institute del 2021, 1,2 milioni di persone negli Stati Uniti si definiscono non-binarie.

 

Mostrate le diverse problematiche connesse alle nozioni di sesso biologico e genere sociale, occorre ora chiedersi se vi sia una qualche relazione tra queste e il genere grammaticale.

 

 

Genere sociale e genere grammaticale: davvero nessuna relazione?

 

In conclusione alla consulenza offerta sul tema dall’Accademia della Crusca, si legge: «[…] sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale». Presa così, un’affermazione di questo tipo non dice nulla, tuttavia, sul rapporto tra genere grammaticale e genere sociale, ossia tra la categoria grammaticale e la sua denotazione. Se si mirasse a definire il genere grammaticale in senso lato, l’ampia casistica presente nelle lingue del mondo ci porterebbe lontanз dagli scopi di questo contributo, per cui ci si atterrà alla situazione della lingua italiana, già di per sé sufficientemente complessa.

 

«[In italiano non] si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie […], ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne […]. Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sedia, siepe, crisi e radio e il maschile di armadio, fiore, problema e brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno» (P. D’Achille 2021, Un asterisco sul genere).

 

In questo contributo non si terrà conto del genere grammaticale in riferimento a oggetti inanimati o a elementi del lessico che, per ragioni storiche, non presentano una coincidenza tra il genere dellǝ referente umanǝ e il genere grammaticale. Si considereranno, invece, solo quei termini e parti del discorso in cui si presume che tale coincidenza vi sia.

 

Se il genere grammaticale può essere definito come una categoria del nome, alla stregua di caso e numero, non è affatto chiaro cosa si debba intendere per “genere naturale”, che l’autore in altre occorrenze pare sostituire con “sesso”, e che la tradizione linguistica spesso definisce come il referente logico del genere grammaticale.

 

D’Achille, altrove, rifacendosi all’opera di Tullio De Mauro, definisce però il genere naturale come «l’appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali». Ad ogni modo, sia che il genere grammaticale denoti il genere cosiddetto naturale, sia che il genere grammaticale denoti il sesso, possono aver luogo scambi comunicativi in cui l’uso di un pronome, di un articolo o di una desinenza appropriata potrebbe non apparire così semplice.

 

Nel primo caso, ciò implicherebbe che, volendo rivolgersi ad una persona transgenere, non si debba tener conto tanto della sua identità di genere, quanto del modo in cui questa persona è socialmente percepita, ossia del suo ruolo di genere – come uomo o come donna, tertium non datur. Questa è, in effetti, l’attuale situazione italiana (e non solo), dove non si è ancora radicata l’abitudine di chiedere a una persona quale pronome preferisca, ma si è solitз desumerlo attraverso una rapida osservazione del suo ruolo di genere. La panoramica offerta sulle identità transgeneri ha fornito però le informazioni necessarie per definire un’operazione di questo tipo talvolta azzardata, poiché si corre il rischio di utilizzare un pronome o altre espressioni linguistiche che non rispettino affatto l’identità di genere dell’interessatǝ, non necessariamente coincidente con il ruolo di genere.

 

Se, invece, si identifica il genere naturale con il sesso, come in alcuni punti sembra fare, forse inconsciamente, D’Achille, si assume che, nello scegliere il genere grammaticale, si debba tener conto del fenotipo sessuale (con annesso corredo cromosomico) di chi si ha di fronte. Ebbene, anche in questo caso estremo, la complessità delle combinazioni genetiche e fenotipiche possibili, come si è visto in riferimento alle persone intersessuali, rende a sua volta ardua una distinzione netta tra sesso maschile e sesso femminile, distinzione in qualche caso del tutto fuorviante, rischiando ancora una volta l’uso di articoli e desinenze inopportune.

 

Nel momento in cui ci si trova a usare il pronome o la desinenza maschile nei confronti di un uomo transgenere, che non ha effettuato alcun percorso clinico di transizione, il cui ruolo di genere è in parte ambiguo (per via dell’eventuale presenza del seno o di altri caratteri sessuali secondari tipicamente femminili), ma la sua identità è chiaramente definita, si può davvero dire che il genere grammaticale stia rispecchiando il ruolo di genere o il sesso biologico? A parere di chi scrive, la risposta è no; in questo caso, il genere grammaticale sta denotando l’identità di genere.

 

Questo spostamento del referente dal ruolo di genere all’identità di genere può probabilmente essere considerato come un nuovo tratto che si riscontra in alcuni usi peculiari dell’italiano neostandard, ma si auspicano comunque ulteriori studi per verificare la frequenza d’uso di questa relazione semiotica, anche alla luce della recente consapevolezza emersa in ambiente italofono rispetto al fenomeno della misattribuzione di genere (dall’ing. misgendering), che pare aver sensibilizzato una certa parte dellз parlanti a prestare maggiore attenzione al concetto di identità di genere, almeno sul piano dell’uso linguistico. Per “misattribuzione di genere” si deve intendere, secondo il Merriam-Webster, l’identificazione di una persona attraverso l’utilizzo di un pronome, o di una qualunque altra forma linguistica, che non rispecchia la sua identità di genere.

 

Gli esempi finora riportati paiono suggerire che l’uso linguistico abbia delle ripercussioni, più o meno dirette, sullз parlanti. Ne fa testimonianza Filomena Sottile:

 

«[La misattribuzione di genere] ci riduce al silenzio, all’immobilità. È una cosa diversa dall’ossessione grammaticale, ci sono parole che ci cancellano e altre che ci manifestano» (F. Sottile 2020, La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre, Eris, Torino, p. 47).

 

Il genere grammaticale può dunque essere ancora definito come una categoria del nome, con una funzione puramente linguistica? Carla Bazzanella, in un contributo del 2010, sostiene che:

 

«Le connessioni tra lingua, cultura / esperienza e genere si riflettono non solo sulla struttura della lingua e i vari livelli d’analisi (in particolare sul lessico), ma anche sul modo in cui pensiamo, i comportamenti sociali, le valutazioni e le attese che la lingua contribuisce a costruire e tramandare. La lingua, infatti, lungi dall’essere neutrale, influenza significativamente i sistemi simbolici dei parlanti» (C. Bazzanella 2010, Genere e lingua, «Enciclopedia dell’Italiano», Treccani, articolo online).

 

E ancora Patrizia Violi:

 

«Il genere non è soltanto una categoria grammaticale che regola fatti puramente meccanici di concordanza, ma è al contrario una categoria semantica che manifesta entro la lingua un profondo simbolismo» (P. Violi 1986, L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Essedue, Verona, p. 41).

 

Moltз espertз intervenutз sul tema non sembrano tener in considerazione questo simbolismo, svincolando così il genere grammaticale dal genere sociale e negando una relazione diretta tra l’uso linguistico e le ripercussioni che esso comporta. Ad esempio, così D’Achille:

 

«Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne)».

 

Tale uso del maschile plurale è presente anche in altre lingue, come il francese. La grammatica italiana, in linea con le considerazioni di D’Achille, lo definisce un genere grammaticale non marcato, ma studi recenti hanno messo in discussione questa definizione. Un’indagine del 2017, condotta da Jean-Daniel Lévy, Gaspard Lancrey-Javal e Morgane Hauser sulla lingua francese, ha mostrato che il maschile plurale non è poi così poco marcato. A tre sottogruppi, su un campione di 1.000 persone rappresentativo della popolazione francese, è stato chiesto di elencare rispettivamente “due scrittori celebri” (« deux écrivains célèbres », maschile plurale), “due scrittori e scrittrici celebri” (« deux écrivains ou écrivaines célèbres  », forma inclusiva), “due persone celebri per i loro scritti” (« deux personnes célèbres pour leurs écrits », formulazione epicena). A partire dai dati, è possibile constatare che il numero medio di donne citate in risposta alle domande con forma inclusiva o epicena ha avuto un incremento del 46%. In ogni caso, le persone che sono state esposte al maschile plurale, hanno per la maggior parte citato solo uomini, mentre le persone che hanno visto le altre formulazioni hanno più spesso menzionato individui di entrambi i sessi. Per cui, nonostante l’affermazione di D’Achille: «[…] la scelta del plurale maschile nello standard non dipende dalla numerosità dei maschi rispetto alle femmine all’interno di un gruppo: basta una sola presenza maschile a determinarlo, ma non si tratterebbe di una scelta sessista (come viene invece considerata da molte donne), bensì dell’opzione per una forma “non marcata” sul piano del genere grammaticale», bisognerebbe tener conto che,  anche se nella grammatica francese, come in quella italiana, il maschile plurale viene considerato non marcato, lз parlanti sembrerebbero influenzatз, quantomeno nell’attuale momento storico, da questo peculiare uso linguistico – non così del tutto privo di marcatezza; e ci sono diversi indizi per ritenere che la situazione sia la stessa anche nella lingua italiana, nonostante la sofferta assenza di indagini di questo tipo.

 

 

Una questione marginale, ma non troppo

 

«[...] ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti» (P. D’Achille 2021, Un asterisco sul genere).

 

Più di cento anni fa, Ferdinand de Saussure, considerato come il padre della linguistica moderna, tenne tre corsi nelle aule dell’Università di Ginevra; gli appunti di quelle lezioni furono poi raccolti da due suoi ex-studenti, Albert Sechehaye e Charles Bally, e pubblicati in un’opera postuma all’autore, intitolata Cours de linguistique générale. All’interno del testo, certamente non passata inaudita durante le lezioni, troviamo (più di) una menzione dell’esperanto:

 

«[Chi crea una lingua artificiale] la tiene in pugno finché essa non è in circolazione: ma dal momento in cui essa compie la sua missione e diventa cosa di tutti, il controllo sfugge. L’esperanto è un tentativo del genere; se riesce, sfuggirà alla legge fatale? Passato il primo momento, la lingua entrerà molto probabilmente nella sua vita semiologica: essa si trasmetterà con leggi che nulla hanno in comune con quelle della creazione riflessa e non si potrà più tornare indietro. [La lingua] sarebbe trasportata, volere o no, dalla corrente che trascina tutte le lingue». (F. de Saussure [1922] 1967, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari, pp. 94-95).

 

Oggi si può dire che già da tempo l’esperanto sia entrato appieno nella sua vita semiologica, avendo sviluppato attorno a sé una propria sfaccettata cultura, assieme a una letteratura originale e interessanti peculiarità sociolinguistiche, tanto che, anche in questa lingua, è possibile trovare dibattiti in merito all’uso di forme linguistiche inclusive. Per un primo approfondimento sulla complessa realtà della comunità esperantofona si consiglia questa intervista a Federico Gobbo, già apparsa ne Il Chiasmo.

 

Che Saussure avesse intuito questo inevitabile processo già più di cento anni fa, è notevole; che si continui ad ignorare ancora oggi la vitalità dell’esperanto, soprattutto in ambito linguistico, dopo più di centotrenta anni dalla nascita di questa lingua, è inaccettabile, tanto più se una tale affermazione proviene dall’Accademia della Crusca, di cui Bruno Migliorini, esperantista, fu presidente.

 

 

Quale pronome per le persone non-binarie?

 

Alla domanda: «Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale [come avviene in inglese, ndr] o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?», la Crusca suggerisce, in mancanza di alternative, di evitare di parlare marcando il genere dell’interessatǝ, utilizzando soluzioni che la lingua italiana già offre. Tuttavia, come fa notare lo stesso D’Achille, si tratta di una scelta onerosa; inoltre, l’assenza, nella lingua italiana, di forme adeguate per riferirsi alle persone non-binarie potrebbe avere un effetto di rinforzo negativo sulla percezione del fenomeno, senza considerare che una persona non-binaria con tutta probabilità non si sentirebbe a proprio agio all’interno di un medium linguistico in cui l’unico modo che ha per parlare di sé è evitare articoli, participi passati, un’intera classe aggettivale, ecc. Ovviamente, tale difficoltà si rintraccia anche in chi intende rivolgersi a quella persona rispettando la sua identità di genere.

 

L’autore conclude scrivendo: «[…] non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla». Questo è errato; soluzioni pronte ci sono, semmai è giusto dire che esse non sono utilizzate che da una piccolissima minoranza della popolazione italiana. Accanto all’asterisco, alla chiocciola e altri segni grafici di contestata pronuncia, si trovano almeno altre due soluzioni: lo schwa e la -u(-ie). Nell’economia di questa rassegna, verrà analizzata solo la proposta dello schwa, per le altre si rimanda a questo contributo.

 

 

Lo schwa

 

Una delle prime critiche mosse da D’Achille è che lo schwa sarebbe un ostacolo per le persone dislessiche, rendendo di fatto l’introduzione di questo grafema una scelta abilista. Questo rappresenta, in effetti, un limite reale della proposta, a cui si dovrà trovare una soluzione; limite che però si pone, va sottolineato, anche per altre lingue in cui lo schwa è ufficialmente lettera dell’alfabeto. D’Achille è, infatti, in errore quando afferma: «[Lo schwa] non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico»; tra le lingue aventi alfabeto latino si rammenta almeno l’azero (che però lo usa in luogo del fonema /æ/), nelle lingue con alfabeto cirillico la lettera schwa si rinviene in abcaso, baschiro, cazaco, tataro e alcune lingue caucasiche. Si fa tuttavia notare che, pur avendo lo schwa (o suoni affini) nel loro repertorio fonologico, queste lingue utilizzano la lettera schwa < ǝ >, tipicamente, per indicare una vocale anteriore bassa /æ/, con eccezione dell’abcaso, in cui indica velarizzazione /ʷ/; il fonema schwa /ǝ/ è, invece, generalmente indicato, almeno nelle lingue citate, dai grafemi cirillici < ы > e < ө >, a seconda della lingua (in passato anche < ѵ >). In tal senso, nell’eventualità in cui la proposta si trovi ad avere maggiore diffusione, l’italiano rappresenterebbe una delle pochissime lingue nel mondo in cui alla lettera schwa corrisponda lo schwa inteso come fonema.

 

E ancora D’Achille: «L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə». Attualmente, è possibile riscontrare diversi usi dello schwa. C’è chi estende l’uso del grafema < ǝ > al singolare e al plurale; chi usa grafemi diversi per distinguere il numero; varie, e non sempre coerenti da un punto di vista morfologico, sono anche le forme riscontrate per gli articoli e le preposizioni articolate. Volendo citare un caso concreto, si rinviene a volte la forma epicena “lǝ studente” (che deriva dalle forme “la studente” e “lo studente”), altre volte, invece, si trova “lǝ studentǝ” (in luogo di “la studentessa” e “lo studente”). In tal senso, utili suggerimenti, utilizzati, peraltro, in fase di stesura di questo contributo, sono rintracciabili in Italiano Inclusivo, pagina curata da Luca Boschetto. Si ricorda soltanto che “forte” non abbisogna della desinenza inclusiva, essendo una parola epicena, mentre “sostenitorǝ” si pone come proposta inclusiva per “sostenitore” e “sostenitrice”. È naturale riscontrare forme di questo tipo, essendo il fenomeno abbastanza recente e mancando modelli di riferimento normativi o prescrittivi a cui rifarsi – tuttavia, considerata la natura della proposta, è molto improbabile che vi saranno.

 

«C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta». Purtroppo, ciò che lз lettorз hanno rilevato non è poi frutto di tanta acutezza, esistendo infatti lingue che, avendo la lettera schwa nel proprio alfabeto, dispongono del corrispettivo maiuscolo. Inoltre, non si regge neppure la critica secondo cui lo schwa maiuscolo (Ə) non sarebbe altro che la versione ingrandita di quello minuscolo (ǝ), producendo un effetto poco piacevole – secondo l’autore. Anche coppie come v/V, s/S, o/O, x/X, w/W sono differenze di corpo del testo, ma di certo non inficiano sul «bell’effetto». Né ha senso contestare l’uso eventuale di una < Ǝ > maiuscola, in luogo di < Ə >, in quanto già usata nella logica matematica, e pertanto fonte di confusione; se si seguisse questa logica, la lingua greca dovrebbe rinunciare alle lettere utilizzate in ambito matematico, onde evitare fraintendimenti. L’ambiguità è un fenomeno pervasivo di tutte le lingue umane, siano esse naturali o pianificate.

 

Così D’Achille: «Lo schwa opacizza invece spesso la differenza di numero, tanto che tra chi ne sostiene l’uso c’è stato chi ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere a un altro simbolo IPA, ɜ, come “schwa plurale” (altra scelta a nostro avviso discutibile, anche per la possibile confusione con la cifra 3)». La proposta di Boschetto prevede l’uso di < ǝ > al singolare e di < з > al plurale. Il simbolo IPA [ɜ], citato da D’Achille, ha un codice Unicode – (025C) – diverso da < з > (0437), usato in Italiano Inclusivo come plurale dello schwa, che invece rappresenta una lettera dell’alfabeto cirillico, con il corrispettivo maiuscolo < З > (0417), diverso a sua volta dal numerale 3 (0033). Tale somiglianza non provoca alcuna confusione tra chi, usando l’alfabeto cirillico, fa uso di questo grafema. Una critica che si può sollevare, al più, è l’incoerenza tra la scelta del simbolo < з > – definito da Boschetto come schwa “lunga” –, che in cirillico (con debite eccezioni) rappresenta il fonema /z/, e la pronuncia suggerita, che in Alfabeto Fonetico Internazionale è [ɜ], ossia uno schwa leggermente più aperto, ma non certo di lunghezza maggiore, né facilmente distinguibile da [ǝ], anche alle orecchie di unǝ fonetista espertǝ.

 

Parte della comunità non-binaria italiana accetta, nel parlato, l’uso indiscriminato di entrambe le forme pronominali: sia maschile che femminile. Questa scelta, tuttavia, produce generalmente un effetto indesiderato: l’interlocutorǝ finisce quasi sempre per utilizzare in percentuale maggiore (se non assoluta) il pronome o le desinenze più affini al ruolo di genere di quella persona. Anche per questo motivo, da più parti si è sentita l’esigenza di avere un pronome nuovo; nel caso dello schwa, il pronome proposto è “lǝi”.

 

L’inserimento di tale nuova forma linguistica nella lingua italiana non è da sottovalutare. Nelle intenzioni della proposta, questo pronome, così come anche gli articoli inclusivi e le desinenze, può avere diverse funzioni. In primo luogo, “lǝi” troverebbe uso nel riferirsi a una persona senza specificarne l’identità di genere, pur nota; in secondo luogo, “lǝi” si potrebbe utilizzare in quelle situazioni in cui ci si trova a dover parlare di qualcunǝ senza conoscerne l’identità di genere; in un terzo contesto, “lǝi” indicherebbe il pronome da utilizzare nei riguardi di coloro che lo scelgono come identificativo della propria identità di genere. Quest’ultimo punto permette di distinguere le funzioni di “lǝi” in usi marcati (pronome che denota una precisa identità di genere) e usi non marcati (pronome che denota un’identità di genere indefinita, sia essa volontariamente celata nelle intenzioni comunicative, sia essa non nota). Questi usi linguistici possono però dare adito ad alcune ambiguità: riferendosi ad una persona usando il “lǝi”, si sta forse asserendo che quella persona è non-binaria? o che non si conosce la sua identità di genere? o che semplicemente tale identità non è ritenuta pertinente ai fini dello scambio comunicativo, e pertanto omessa? La soluzione più comune per fugare questi dubbi resta anche la più semplice: domandare. Domandare non è inopportuno, rappresenta anzi una forma di rispetto e interessamento. Un primo passo potrebbe essere quello di iniziare a chiedere alle persone con cui si parla quale pronome preferiscono, e iniziare ad usare, al posto del maschile plurale non marcato (in realtà più marcato di quanto si creda), forme epicene o inclusive.

 

 

Conclusioni

 

In conclusione al suo intervento, D’Achille sostiene che non si dovrebbe «cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire». È certamente un proposito nobile tenere la lingua slegata strumentalizzazioni ideologiche, ma è ciò possibile in concreto?

 

«Una delle tendenze più nette della linguistica moderna è stata quella di darsi dignità di scienza autonoma. E poiché uno dei primi requisiti di una scienza sembra essere la neutralità, si è cercato di rendere la linguistica una scienza rigorosamente neutra, che osservasse i fatti linguistici con la stessa distaccata imparzialità con cui un naturalista può osservare e catalogare specie e varietà. Neutra la linguistica, quale che sia il momento da cui vogliamo cominciare a datarla, non lo è stata mai, né lo poteva essere» (G.R. Cardona 1976, Linguistica e politica, in R. Corsetti, Lingua e politica, Officina Edizioni, Roma, pp. 255-256).

 

Non poteva esserlo perché la lingua è un fatto sociale. All’interno di un gruppo umano, attraverso l’uso linguistico, si radicano costantemente, in maniera più o meno esplicita, più o meno consapevole, ideologie. D’altronde, non potrebbe che essere così; la lingua è l’elemento primario della vita di ogni comunità: essa veicola valori, idee, principi sociali che possono a loro volta riflettersi nel medium linguistico a più diversi livelli. Se proprio non si può fare a meno di ciò, perché non perseguire un’ideologia moralmente valida, come il riconoscimento del diritto di una categoria di persone di sentirsi rispettate e rappresentate socialmente, anche attraverso la lingua? Questa istanza non può più soltanto essere qualcosa di cui si prende serenamente atto, soprattutto, se, come si è visto, il genere grammaticale non si limita a veicolare informazioni di tipo puramente linguistico.

 

Ciò nonostante, da più personalità pubbliche, intellettuali e accademicз, è emerso un atteggiamento benaltrista che intende considerare tali proposte di innovazione linguistica non opportune in un momento storico come quello attuale, oltre che inconsistenti. È evidente che non si sia ancora riuscito a mostrare con sufficiente chiarezza che sempre più persone vivono quotidianamente il disagio, se non la frustrazione, di abitare una lingua che non offre loro la possibilità di parlare di sé, se non attraverso forme linguistiche, come lo schwa o altre soluzioni, contro cui si ha troppa fretta di scagliarsi pubblicamente, spesso con feroce e ingiustificata ostilità.

 

È, però, comprensibile anche il disagio provato da chi è contrariǝ: modificare le proprie inerzie grafiche o le abitudini nell’uso della lingua è un’operazione tutt’altro che superficiale. In questo caso, peraltro, non si tratterebbe solo di una riforma ortografica, ma anche fonologica e morfologica, operazione che raramente si rinviene tra le lingue del mondo (anche se non impossibile, come invece altrз hanno sostenuto). Interventi linguistici di questo tipo sono sempre carichi di emotività, soprattutto in una lingua, come l’italiano, che vanta una storicità e un prestigio notevoli.

 

In questo tiro alla fune tra grammatica e rivendicazioni sociali ognunǝ ha le sue ragioni, ovviamente. Le motivazioni dello schieramento contrario a tale intervento sono ormai note a chi fa uso dello schwa o di altri espedienti grafici; si spera che, attraverso questo contributo, anche chi contesta tali innovazioni linguistiche possa avere un’idea più chiara delle ragioni alla base delle stesse.

 

La lingua che parliamo è forse più importante del diritto altrui di sentirsi rispettatз?

 

Chiediamoci questo.

 

 

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