La riflessione sulla facoltà di linguaggio è da sempre un punto cardine del dibattito linguistico. A lungo si è ritenuto che il neonato, incapace di parlare, fosse una tabula rasa e che le sue progressive conquiste linguistiche fossero esclusivamente frutto di imitazione. Fu Noam Chomsky, celeberrimo linguista, a rivoluzionare l’ottica con cui definire lo sviluppo del linguaggio nei bambini. Chomsky formulò infatti la teoria della povertà dello stimolo, così sintetizzabile: è impossibile che i bambini apprendano per sola imitazione perché (i) sono in grado di produrre parole e frasi mai ascoltate e (ii) gli adulti non forniscono loro tutti gli input di cui necessiterebbero per imparare pienamente una lingua. Teorizzò pertanto che la facoltà di linguaggio fosse innata nella specie umana, paragonandola ad un organo.

Ad oggi la teoria innatista, seppur in una versione più mitigata rispetto a quella del primo Chomsky, è universalmente accettata. I linguisti concordano nel dire che la facoltà di linguaggio, ossia la capacità per un essere umano di imparare una lingua, sia innata. Questo, tuttavia, non esclude la necessità dello stimolo, ovvero della presentazione di input linguistici ai bambini. La facoltà di linguaggio si sviluppa quindi attraverso l’acquisizione di (almeno) una lingua, la cosiddetta lingua madre, che corrisponde al set di stimoli linguistici cui l’infante è esposto. Inoltre, tali stimoli devono essere presentati ai bambini entro una certa fase della loro vita, che prende il nome di periodo critico, affinché la facoltà di linguaggio possa attivarsi.

Dal punto di vista ontogenetico, l’acquisizione di una lingua ha nella dimensione uditiva il proprio punto di partenza. Il bambino è in grado, da ancor prima della nascita, di percepire i suoni linguistici. Dopo la nascita inizia a sviluppare progressivamente la propria competenza fonologica e conseguentemente diviene in grado di produrre suoni linguistici. Il bambino impara così generalmente a parlare attorno ai 2 anni. Con la crescita e l’immissione in nuovi contesti di socialità sarà poi in grado di sviluppare abilità linguistiche anche di natura non uditiva, imparerà dunque a leggere e scrivere, e migliorerà le proprie abilità produttive orali.

Sorge spontaneo interrogarsi a questo punto su come sia possibile per i bambini sordi attivare la propria facoltà di linguaggio. Se infatti il linguaggio si sviluppa grazie all’apprendimento di una lingua e una lingua è appresa grazie alla percezione uditiva come è possibile che i bambini sordi imparino a comunicare attraverso il linguaggio?

Bisogna innanzitutto sottolineare che il linguaggio umano è uno, uguale per l’intera specie, e le lingue sono invece moltissime. Si stima che le lingue del mondo siano circa 7000, sebbene enumerarle con precisione sia del tutto impossibile. Molte delle lingue cui si è soliti far riferimento sono orali: ovvero sfruttano gli organi vocali e uditivi per manifestarsi. Accanto alle lingue orali, che costituiscono l’assoluta maggioranza delle lingue esistenti, esistono le lingue dei segni: ovvero lingue che sfruttano il canale visivo-gestuale per manifestarsi.

Le lingue dei segni sono appunto lingue, non una forma alternativa di linguaggio né una trasposizione visivo-gestuale di lingue orali. La linguistica è giunta a questa consapevolezza in tempi piuttosto recenti e la società sembra rimarcare questo ritardo, facendo ancora uso di espressioni come ‘linguaggio dei segni’ o ‘mimica’. Parlare di lingua significa rinvenire in un certo sistema (verbale o segnico) una serie di caratteristiche, su cui non è necessario dilungarsi in questa sede; il primo a rinvenire tali caratteristiche in una lingua dei segni è stato William Stokoe, il quale nel 1960 studiò per la prima volta l’American Sign Language.

Dagli anni Sessanta è iniziato dunque un lento cammino per la riscoperta della dignità comunicativa delle lingue dei segni, che in Italia ha avuto avvio solo alla fine degli anni Settanta. I successivi studi condotti in materia hanno dunque confermato quanto teorizzato da Stokoe e promosso una progressiva sistematizzazione delle conoscenze sulle lingue dei segni.

Tornando alla facoltà di linguaggio, si discuteva sul fatto che il rischio del suo mancato sviluppo da parte di bambini sordi dipendesse dall’incapacità di apprendere una lingua: si è detto infatti che l’apprendimento di una lingua ha avvio grazie alla percezione uditiva. Alla luce di quanto esposto sull’esistenza delle lingue dei segni si potrebbe però concludere – e non scorrettamente – che basterebbe che i bambini sordi imparassero una lingua dei segni al posto di una lingua orale: in questo modo non si correrebbe alcun rischio di mancato sviluppo della facoltà di linguaggio e dunque delle aree cerebrali connesse a tale facoltà.

Bisogna però considerare che questo non è affatto scontato: per molto tempo infatti l’apprendimento di una lingua dei segni non è stato considerato con positività. Il vero e proprio stigma che ha colpito le lingue dei segni, sin dalle prime fonti che si hanno su di esse (inizio del 1600), ha sicuramente rappresentato il limite più importante alla diffusione dell’apprendimento delle lingue dei segni in età infantile. A questo si sono aggiunte le preoccupazioni, poi rivelatesi infondate, dei neurologi.

Tali preoccupazioni possono essere riassunte come il frutto dei rischi che, erroneamente, si attribuivano alla plasticità crossmodale del cervello. Si credeva infatti - si dimostrava addirittura con studi scientifici (poi dimostratisi inadeguati) - che l’apprendimento di lingue dei segni da parte di bambini sordi provocasse il mancato successo degli impianti cocleari e del successivo apprendimento di lingue orali. Ciò si attribuiva al fatto che, per effetto della plasticità crossmodale, i neuroni deputati all’elaborazione di stimoli acustici fossero ormai “persi”, ovvero, a causa della lingua dei segni, impiegati per attività altre, ad esempio visive.

Bisogna però sottolineare che attualmente questo tipo di conclusioni, grazie a studi successivi più consapevoli, non sono più accettate. L’errore alla loro base era la mancata distinzione tra effetti della sordità, come ad esempio il reimpiego da parte del cervello di neuroni tipicamente acustici per altre funzioni (cioè la plasticità crossmodale), e l’apprendimento di una lingua dei segni. Ciò che non si era distinto era ciò che la linguistica sa dagli anni ’60, cioè che il linguaggio è uno solo e le modalità per realizzarlo possono essere diverse. Questo è dimostrato dal modo in cui il cervello elabora le lingue dei segni: impiegando le aree del linguaggio che contraddistinguono anche le lingue orali con la sola differenza dell’attivazione delle aree deputate all’udito, necessarie per le lingue orali e non per le lingue dei segni. Ciò vuol dire che, sebbene si noti un reimpiego (che può tradursi nell’insuccesso degli impianti cocleari) di popolazioni neurali acustiche per scopi altri nel cervello di persone con sordità congenita o precoce, l’apprendimento di una lingua dei segni non ne è la causa. Le popolazione neurali reimpiegate non sono sfruttate per la lingua e non sviluppano funzioni altre (perlopiù visive) sotto influenza dell’apprendimento linguistico. Al contrario, invece, la conoscenza di una lingua dei segni sembrerebbe favorire il successo di apprendimenti linguistici orali a seguito di impianti cocleari di successo, come dimostrato dall’interessante studio di Rachel I. Mayberry e Elizabeth Lock, Age constraints on first versus second language acquisition: evidente for linguistic plasticity and epigenesis (2003).

Superato lo stigma clinico, resta alle lingue dei segni lo scoglio di quello sociale, che si declina, come sottolineato dalla maggior parte degli studiosi di bilinguismo (orale e bimodale), nella seguente prospettiva: il mancato apprendimento di lingue orali determina una forma di esclusione dalla maggior parte della società, udente. La scelta di segnare (ovvero comunicare con la lingua dei segni) diventa, secondo quest’ottica, una scelta di segregazione del soggetto nella comunità sorda. Questo significa che la lingua dei segni non è per l’intera comunità sorda la scelta preferita, e si configura piuttosto come la conseguenza dell’insuccesso di altre strategie (es. recupero dell’udito attraverso la chirurgia e conseguente apprendimento di una lingua orale) e dunque come un’ammissione di sconfitta.

Questa riflessione si connette quindi a tutto ciò che ruota attorno alla lingua madre e alla sua percezione da parte del parlante che la impiega. Segnare, secondo questa prospettiva, identifica il soggetto come sordo, ne delinea l’identità come affetta da disabilità, così come per molti di noi parlare italiano significa identificarci come italiani. La scelta di non segnare quindi si connette al grande tema della rappresentazione del sé e si può paragonare alla scelta, compiuta da alcuni migranti di seconda generazione, di non apprendere la lingua madre dei genitori stranieri per non essere identificati come ‘diversi’ da parte del gruppo maggioritario (cfr. I processi educativi nelle situazioni multiculturali di Maria Teresa Moscato).  Preme però sottolineare che l’associazione della lingua all’identità è una scelta, non un obbligo. Scegliere di segnare può voler dire rivendicare la propria identità sorda così come può semplicemente significare sviluppare la capacità di impiego di un mezzo di comunicazione efficace. Preme sottolinearlo soprattutto dal momento che questa scelta è spesso imposta dai genitori di bambini sordi (la lingua dei segni, come ogni altra, si sviluppa grazie a input consistenti da parte degli adulti significativi): non è quindi compiuta dai sordi, che subiscono passivamente quanto scelto dai genitori, nella maggior parte dei casi (stima del 90%), udenti.

Pertanto, alla luce di quanto illustrato, appare oggi fondamentale sottolineare il ruolo chiave che l’apprendimento di una lingua dei segni ricopre per l’inserimento nel mondo comunicativo (udente o non udente) di persone affette da disabilità uditiva. Insegnare ai bambini sordi la lingua dei segni significa quindi fornire loro un mezzo di comunicazione efficace che, oltre ad avere una sua intrinseca validità, ne favorisce lo sviluppo linguistico orale. Cioè, se appresa in età precoce, la lingua dei segni consente lo sviluppo della facoltà di linguaggio e pertanto anche la possibilità di apprendere lingue orali a seguito di recupero della facoltà uditiva, come magistralmente dimostrato anche dallo studio di Saeed Hassanzadeh, Outcomes of cochlear implantation in deaf children of deaf parents: comparative study (2012). Insegnare ai bambini una lingua dei segni non significa quindi condannarli all’esclusione, ma anzi favorirne l’inclusione in una comunità linguistica, segnante o parlante che sia.

Per saperne di più:

A tutti coloro che volessero iniziare ad approcciarsi al mondo delle lingue dei segni consiglio un testo compatto ma fondamentale che è stato anche il mio punto di partenza: Lingua dei segni, società, diritti a cura di Benedetta Marziale e Virginia Volterra, Carocci, Roma 2016. Per saperne di più sulla lingua dei segni italiana invece consiglio il testo-manuale di Virginia Volterra La lingua dei segni italiana: la comunicazione visivo-gestuale dei sordi, Il Mulino, Bologna 2009.

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