La Bibbia si pone al centro della tradizione ebraica in quanto testo sacro latore della legge perfetta e divina in forma scritta. Prende il nome ebraico di Tanàkh, acronimo che lega in sé inscindibilmente le tre parti di cui è composta (Torah, Nebiìm e Ketubim) e, al contempo, è definita Mikrà (lettura) in quanto oggetto di lettura. Infatti, a differenza dell’universo cristiano, dove il testo sacro è la Scrittura, nel mondo ebraico il Tanàkh è un patrimonio da «osservare», nel duplice senso proprio del lemma italiano: un patrimonio da leggere e da studiare e, al contempo, un patrimonio da rispettare e da custodire in quanto legge dettata da Dio. L’intensità dell’ispirazione divina che definisce la legge si declina in maniera crescente a partire dall’ultima parte della scrittura, il Ketubim, per aumentare nel Nebiìm e, infine, eccellere nella Torah. Quest’ultima si connota come la rivelazione vocale della parola divina dettata a Mosè sul Sinai, voce «gettata» che non si esaurisce, ma sempre più si affievolisce senza mai spegnersi completamente. In qualità di emanazione divina, il testo scritto è irradiato della perfezione di Dio e, al contempo, spezzato e corrotto dal linguaggio umano imperfetto, la cui sintassi e parola incastonano la legge.
Dunque, sebbene secondo la tradizione ebraica sia patrimonio d’ispirazione sacra, il Tanàkh è un testo forgiato dall’uomo con redazione complessa ed è pervaso delle criticità proprie degli scritti dell’antichità, quali corruttele, necessità di emendamenti, ambiguità del significato e ripetizioni del racconto. Tali operazioni, attinte al campo d’indagine proprio della ricerca e della cura filologica, riguardano in maniera privilegiata l’esegesi biblica, volta alla ricostruzione e alla restituzione della parola autentica di Dio nel testo. Pertanto, tale studio critico-testuale nasce da una necessità primariamente religiosa e devozionale, nei cui confini la riflessione e l’osservazione del testo rimangono imprigionate. Infatti, in virtù di scritto cardine dell’universo religioso ebraico, la Bibbia è investita e venerata come forma di sacra scrittura e perciò a fatica studiata come grandezza letteraria, che trascende «sia la dissezione filologica sia la letteratura devozionale» (Oz; Oz-Salzberger 2012). Ciò non accade nell’Israele moderno, dove un secolo fa è stato redatto ed istituito un curriculum di studi biblici non più in chiave religiosa, bensì in prospettiva secolare, avvicinando allo studio del testo anche la popolazione atea in aumento. Tale prassi differenzia la laicità degli Ebrei israeliani da quasi tutti i non credenti dell’Occidente contemporaneo, i quali non hanno mai avuto l’occasione di assumere il testo biblico come oggetto di studio in veste di prodotto letterario (Oz; Oz-Salzberger 2012). L’origine di tale fenomeno è indubbiamente da imputarsi ai curricula scolastici, dai quali è escluso mediante una scelta che si reitera, in ultima istanza, anche nella programmazione dei percorsi di studi universitari specializzati nello studio delle antichità classiche e orientali. Tale volontà è presumibilmente data dall’intrinseca e inamovibile velatura sacra con cui la religione ha avvolto il testo, determinandone in maniera univoca e esclusiva la natura cultuale e favorendone, in tal senso, la consolidata esclusione dal canone di classico (Oz; Oz-Salzberger 2012).
In particolare, l’estromissione del Tanàkh e del patrimonio culturale ad esso correlato dalla nozione di classicità e dal mondo della cultura classica è dovuta ad alcuni presupposti storici e culturali incontrovertibili. In primis, in relazione al patrimonio librario e letterario tràdito dall’antichità, la definizione del canone di classico è elaborata dalla storia della filologia classica, nel cui solco si iscrive la riflessione di Friedrich August Wolf, il padre fondatore della nuova scienza dell’antichità. Specificamente, all’interno dell’opera Esposizione della scienza dell’antichità secondo concetto, estensione, scopo e valore, Wolf sancisce il dogma della supremazia della grecità e della romanità, determinando l’esplicita e deliberata estromissione dal campo di indagine dell’universo ebraico (Lanza; Ugolini 2016). Da tale paradigma è conseguita la definitiva e corrente separazione della filologia classica da quelle orientali, in particolare la giudaica e la cristiana, spezzando il legame fra filologia e Cristianesimo (Cerasuolo 1999). A questo dato storico-critico, si aggiunge la differenza classificatoria postulata dal rabbino Alberto Moshe Somekh, secondo cui la Bibbia si discosterebbe dal patrimonio letterario estetico greco e latino, in quanto prodotto letterario etico posto all’origine di ogni regola di comportamento, pregno di valori morali di difficile insegnamento in quanto intrisi della professione di fede. In tal senso, la difficoltà, che spesso si ritiene insormontabile, di veicolare i valori etici ebraici come fonte di insegnamento in un contesto di laicità avrebbe contribuito all’esclusione della Bibbia dal canone di classico in favore della preminenza assoluta e indiscussa della letteratura greca e latina, caratterizzata da una vena estetica di universale fruizione e divulgazione.
A questo punto della riflessione, è doveroso interrogarsi se il Tanàkh sia un classico e se rispecchi i criteri che da sempre consacrano un’opera alla classicità. In primo luogo, è necessario riconoscere che la nozione di «classico» è una categoria puramente umana, cristallizzata in un canone di autori ed opere codificato, da cui è difficoltoso divincolarsi. Per di più, sebbene sia universalmente riconosciuto che stabilite produzioni letterarie siano classici della letteratura mondiale, sfuggono all’occhio indagatore umano le peculiarità e i paradigmi distintivi e connotativi racchiusi al loro interno. Solamente scandagliando i lineamenti della classicità, è possibile fregiare il testo biblico del titolo di «Classico dei Classici» in quanto grandioso patrimonio collettivo dell’umanità e testo germinativo nella cultura, nella letteratura, nell’arte e nella riflessione filosofica, politica e religiosa (cfr. «Perché la Bibbia a scuola»). Infatti, al pari dell’universo testuale greco-latino, il Tanàkh è un’opera classica perché la sua forza storica e la sua grandezza letteraria hanno indotto una sterminata quantità di uomini in numerosi secoli a ricopiarlo, a mano o a stampa, e in quanto tale è un «testo sopravvissuto» che «ha sconfitto l'inerzia del tempo e le sirene dell’oblio» (Eco 1989). Per riprendere nuovamente le parole di Umberto Eco, la Bibbia, in quanto classico, rivela la forma del pensiero nel mondo antico e, al contempo, delinea l’origine dell’habitus del pensiero moderno, restituendoci le scene primarie, gli schemi e le tracce che hanno fondato e forgiato la nostra cultura. Dunque, è il testo di memoria che riconduce il lettore alle origini della civiltà, svelando le voci di un passato lontano e archetipico e, al contempo, impregnato del sapere del presente. È un classico in quanto opera che parla all’uomo di sé, senza cessare mai di raccontare e svelare, invitando alla reiterata lettura e ponendosi come fonte viva del «mare» dell’interpretazione. Scorto dalla prospettiva di testo secolare, pur rimanendo sempre profondamente legato alla sua natura di testo sacro, il Tanàkh assurge a testo fondativo di un ethos sociale condiviso e latore di verità e significato inestimabili per tutte le generazioni future, connotandosi come «testo dell’essere nella storia e dell’esserci della storia», come «grande codice dell’Occidente» e «grammatica dell’esistenza» (Vignolo 1998).
Per saperne di più:
Cersuolo, S. 1999. Wolf teorico della filologia classica in Wolf, F. A. Esposizione della scienza dell’antichità, Pubblicazioni del Dipartimento di filologia classica F. Arnaldi dell’Università degli studi di Napoli Federico II, Napoli.
Eco, U. 2000. La bustina di Minerva, Bompiani, Napoli.
Grafton, A. 1999. «Juden und Griechen bei Friedrich August Wolf» in: Palingenesia Monographien und Texte zur klassischen Altertumswissenschaft, 8: 9-31.
Lanza, D.; Ugolini, G. 2016. Storia della filologia classica, Carocci, Roma.
Oz, A.; Oz-Salzberger, F. 2012. Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica, Feltrinelli, Milano.
«Perché la Bibbia a scuola» cfr. www.bicudi.net/didattica cfr. bes.bibbia.org
Somekh, A. M.; Melloni, A.; Loewenthal, E. 30 novembre 2020. Messaggi di pace e di guerra nel grande romanzo della Bibbia, conferenza presentata al Festival del Classico 2020.
Vignolo, R. 1998. Metodologia, ermeneutica e statuto teologico del testo biblico, in: Angelini, G. La rivelazione testata. La Bibbia tra testo e teologia, Glossa, Milano, pp. 13-37.
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