Medea è una figura mitica immortale nella tradizione letteraria antica e moderna. Si tratta dell’eroina della Colchide che, innamoratasi di Giasone, tradisce la propria patria e il re Eeta, suo padre, per aiutare la spedizione degli Argonauti nella conquista del vello d’oro, antico cimelio della sua stirpe regale; fuggendo dal padre, Medea uccide e sparge le membra del fratello per seminare gli inseguitori. Giunti a Corinto, Giasone tradisce Medea per convenienza: il matrimonio con la giovane figlia del re Creonte potrà giovargli in ricchezze e prestigio. Il fedifrago cercherà pure di convincere Medea che ciò possa essere un vantaggio anche per lei e per i figli che hanno avuto insieme. Medea non accetta però questo affronto: uccide la giovane principessa, il re di Corinto e i suoi propri figli per infliggere a Giasone il dolore più straziante.

Tuttavia, nessun evento della spedizione degli Argonauti è narrato da una tragedia di Euripide, tragediografo ateniese di V secolo a. C., che si intitola appunto Medea, il testo più celebre dell’antichità che racconta della storia dell’eroina, ma che si concentra solamente sulla tragica conclusione. All’inizio dell’opera troviamo Medea già a Corinto, tradita e abbandonata, e solo le ultime azioni omicide devono essere compiute. Ma perché il teatro greco presenta soltanto quest’evento, di certo il più emozionante, ma decisamente parziale?

La risposta è che il teatro greco è un teatro di parola e non di azione. La vicenda precedente è implicita per il pubblico ateniese; l’elemento importante è l’elaborazione peculiare del poeta per giungere alla conclusione della narrazione. I miti greci hanno infatti una certa libertà nella loro concretizzazione in una storia: il mitologema, come è definito da Karol Kerényi, è l’elemento minimo che permette di riconoscere un dato mito in una specifica rappresentazione, quindi se degli elementi fissi ci sono il mito può declinarsi in modi diversi: se come personaggi abbiamo una Medea in qualità di principessa orientale e un Giasone fedifrago e opportunista, che Medea uccida o no i suoi figli non è una contraddizione che il pensiero mitico greco possa non tollerare.

Sembra che Euripide abbia plasmato in modo peculiare il mitologema di Medea; si discute ancora se l’infanticidio sia una sua creazione o se sia una variante esistente del mito. La messa in scena nella narrazione dell’infanticidio dei propri figli potrebbe dunque essere una variante secondaria ricercata, ma presente nella tradizione: vi era, ad esempio, una tradizione che rendeva i Corinzi colpevoli dell’uccisione dei figli di Medea, per noi esplicitata dalla testimonianza del poeta epico del VII secolo a. C., Creofilo di Samo; a questa variante sembra alludere Euripide quando, nel monologo della risoluzione all’infanticidio, si riferisce all’ipotesi di lasciare al linciaggio dei Corinzi i propri figli, colpevoli di aver recato i doni mortali alla principessa. La Medea euripidea non può accettare questa opzione, ma il tragediografo sembra proprio alludere al mondo possibile che la narrazione apre: c’è un'altra maniera di declinare la vicenda, ma questo percorso possibile viene rifiutato dalla stessa maschera di Euripide, Medea, la vera regista del dramma nel dramma.

Se Euripide non inventò la variante dell’infanticidio della madre, di certo fu lui a renderla celeberrima. Dopo il 431 a.C., data della prima realizzazione di Medea, che si classificò soltanto al terzo posto alle Grandi Dionisie, competizioni tragiche primaverili dell’Atene del tempo, la storia di Medea divenne pressoché immutabile. L’identità di Medea era scritta. Quest’identità fu talmente solida che nel I secolo a.C., nella sua Ars Poetica,  Orazio nel descrivere i luoghi comuni che il poeta deve assumere per convenzione letteraria, affermerà: «Medea sia crudele e vittoriosa, Ino sia docile». Seneca nel I secolo d.C. farà dire alla sua Medea nel momento in cui la protagonista assume su di sé la propria identità, in conclusione al concitato monologo della risoluzione finale di uccidere figli, un icastico e pregnante: «Ora sono Medea. È cresciuta l’indole nei mali». L’identità di Medea è dunque ben codificata dall’opera di Euripide per tutta la tradizione antica ma, anche in epoca moderna, ogni autore ha dovuto fare i conti con l’eroina euripidea.

Se dunque la storia di Medea è tradizionalmente quella della tragedia euripidea, c’è tuttavia un altro quesito che emerge ora: come si costituisce la sua personalità, la sua identità ineguagliabile? Medea è un personaggio atipico, proprio nel senso etimologico greco di a-topos: non appartiene a nessun luogo. Non solo non appartiene alle categorizzazioni greche, ma neanche è riassorbibile nella visione del mondo orientale. La nostra condotta morale ci costituisce come individui: quella di Medea, così estranea a qualsiasi modello, la rende una figura a sé stante, incomprensibile, che come i profeti non può che essere condannata a diventare sé stessa nella piena fedeltà alle proprie azioni, senza la possibilità della comunicazione ad altri che sé stessa. Ma nella tragedia dell’ateniese, Medea come fa a diventare se stessa? Come assume la propria identità? Per comprendere questo passaggio delicato che influenzerà la storia delle “Medee” di tutta la letteratura occidentale, è importante tornare a rileggere Euripide.

Nel testo, e in particolar modo nei monologhi e nei dialoghi con il coro o la nutrice in cui è protagonista assoluta e incontrastata, Medea sceglie il proprio destino, è fin dall’inizio la regista del dramma e, al termine, la sua risolutrice. L’espediente teatrale dell’ex machina, ovvero dell’uscita dall’ultima scena su uno strumento per la rappresentazione del volo solitamente svolto da una divinità, è impiegato nel nostro caso da Medea sul carro del Sole, rendendola una vera e propria dea, immensa, immortale, protagonista e autrice di tutta l’opera. Come dice nel monologo risolutivo, Medea conosce il bene e il male, li distingue e, forse in spregio all’intellettualismo socratico che prevede la conoscenza del bene come condizione sufficiente e necessaria all’agire morale, non lo compie: sceglie il male, sceglie di essere consapevolmente feroce. La sua scelta è ponderata, i monologhi sono quasi dei trattatelli di filosofia morale. La sua condotta etica determina la costituzione della propria individualità.

Partendo da questi presupposti, possiamo ora servirci della nozione di “esercizi spirituali” introdotta dal filosofo francese Pierre Hadot: la filosofia antica per Hadot non sarebbe un insegnamento di una dottrina astratta, di nozioni speculative e specializzate, ma consisterebbe in un’arte di vivere, una pratica concreta, uno stile di vita che investe tutta l’esistenza. La filosofia antica è dunque una conversione che investe in toto la propria disciplina di vita e non si circoscrive a ciò che il filosofo sa intellettualmente. Il termine greco epistrophé e quello latino di conversio, che significano entrambi conversione, condividono la radice lessicale che indica il rivolgimento, il voltarsi. A che cosa si ri-volge il filosofo quando decide di stravolgere la propria vita e di dedicarla alla filosofia? A sé stesso.

La filosofia antica in tutte le sue branche ha una profonda portata morale, ma la conoscenza più fondante resta il rapporto con se stesso, la comprensione di sé, la presa in carico della propria esistenza, il passaggio al proprio vero essere, alla vita autentica. L’accesso alla propria verità è oggetto della consapevolezza fondante di sé: conoscendo la propria verità, la si plasma e si diviene appieno sé stessi. Questa nozione è particolarmente utile per comprendere il divenire Medea di Medea. Nei monologhi tragici, in particolare in quelli euripidei, mi sembra verosimile che si possano scorgere i germi di questa filosofia morale atta a stravolgere e rivolgere il filosofo a sé stesso: Medea sarebbe dunque il protofilosofo. Medea infatti non fu filosofa in quanto possiamo ricondurre la sua esposizione ad un sistema compatto, metafisico, compiuto, ma in quanto Individuo, con la lettera maiuscola, che sa prendersi carico della propria esistenza e della propria moralità. La grandezza d’animo di Medea, in greco megalophrosyne, la renderanno uno dei personaggi preferiti dai filosofi stoici, che più apprezzarono questa qualità come caratteristica essenziale del proficiens, ovvero di colui che avanza nella filosofia. Medea tituba, si interroga, cambia idea, ma la sua forza divina la rende in realtà pienamente coerente con sé stessa fin dall’inizio. I famosi boulémata, le decisioni, sono chiari fin dalle prime battute; la morte è già sulla scena fin dalle prime battute. La pièce serve solo per portare a compimento il proprio esercizio di consapevolezza, per consolidare la propria fedeltà a sé stessa: Medea deve essere matricida. Ma di matricidi ne è pieno il mondo della mitologia di ogni tempo e luogo. Che cosa rende allora la Medea euripidea così affascinate e scandalosa?

Esattamente ciò che la rende acuta filosofa: la consapevolezza. Medea delibera lucidamente di uccidere i propri figli e non perché non li ami o perché questo le sia indifferente o perché non abbia altra scelta (molti mondi possibili si affacciano nei suoi monologhi quando sta scegliendo la “trama” della sua vita): Medea si sta autodistruggendo nella sua umanità per rinascere allo statuto divino (che è anche quello del filosofo antico) sul carro del Sole. Medea non è pazza, è coerente e fedele a se stessa, come lo sarà anche Socrate nell’andare incontro alla propria morte per mano degli Ateniesi nel 399 a. C. Socrate e Medea non indietreggiano davanti al pieno compimento della propria esistenza, anche quando questo significa autoannientamento.

Per saperne di più:

Consigliamo la lettura della Medea di Euripide, facilmente reperibile in diverse edizioni. Per una conoscenza filosofica della tragedia greca non si può prescindere dalla lettura di La nascita della tragedia dallo Spirito della Musica di Friedrich Nietzsche, edito in traduzione italiana da Adelphi, Milano, 1977. Un importante studio di Michel Foucault sul tema è Herméneutique du sujet. Cours au Collège de France (1981-2), Seuil/Gallimard, Paris, 2001.

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