Bolaño nacque a Santiago del Cile nel 1953. L’identità sudamericana di questo scrittore è non solo un dato biografico ma pure culturale, riscontrabile innanzitutto nelle sue maggiori e dichiarate influenze letterarie: Borges, Cortázar, Nicanor Parra. Nondimeno Bolaño aveva orizzonti, cultura e interessi che andavano ben al di là del Sudamerica, tanto da sembrare «completamente a proprio agio scendendo e risalendo a piacimento lungo la scala della cultura occidentale», come ha scritto Nicola Lagioia. Nelle pagine di Bolaño infatti incontriamo, in un elenco che non pretende di essere esaustivo: riferimenti alla cultura classica (ad esempio, le citazioni di Archiloco in Tra parentesi  o le 73 citazioni dei classici latini intercalate nel testo di un memorabile capitolo de I detective selvaggi); alla poesia trobadorica (ne La universidad desconocida un’intera sezione è intitolata Giraut de Bornelh); alla poesia contemporanea di molti paesi occidentali (cfr uno dei primi capitoli de I dispiaceri del vero poliziotto); a elementi di natura «(inter)nazional-popolare» (Lagioia), tra i quali spicca la citazione di una canzone di Nicola di Bari in un racconto di Chiamate telefoniche.

I luoghi fondamentali della vita di Bolaño sono paesi di lingua spagnola, che l’autore poté ascoltare nelle diverse varianti diatopiche, facendone tesoro nella caratterizzazione linguistica dei propri personaggi. Benché molte delle sue storie siano ambientate in Cile (o del Cile cerchino di parlare in tutti i modi), le trame dei suoi lavori più ambiziosi orbitano intorno al Messico, e non mancano scene e vite ambientate in Spagna, nell’Unione Sovietica o nelle maggiori città europee (con una certa predilezione per Parigi, meta d’elezione degli intellettuali sudamericani nel secondo Novecento). Questa ricognizione men che sommaria risponde al bisogno di affermare che, se l’ambientazione delle narrazioni di uno scrittore dice qualcosa sulla sua concezione del mondo, allora Bolaño guardava alla terra come a un posto pieno di problematicità e connessioni, la cui analisi doveva basarsi sul superamento di ogni municipalismo in nome di un cosmopolitismo innanzitutto culturale.

È vero che si tratta di un autore ossessionato dai propri temi, ed è vero che tra questi un posto privilegiato è riservato alla riflessione sulle conseguenze del golpe di Pinochet e alla denuncia di ingiustizie e atrocità del mondo latinoamericano, ma la parola di Bolaño ambisce sempre a coniugare la volontà di alzare la voce contro l’ingiustizia con quella di affrontare aspetti della condizione umana che preesistono e sopravvivono alle vicende storiche in cui trovano particolare declinazione. Così, per citare solo l’esempio più clamoroso, in 2666 la trasfigurazione letteraria degli omicidi seriali e impuniti di migliaia di giovani donne a Ciudad Juarez apre la strada a riflessioni sulla natura del male.

Il periodo su cui Bolaño si concentra quasi esclusivamente è il Novecento, raccontando nei modi più diversi i suoi trascorsi storici e artistici. Proprio la storia e la letteratura sono i due fronti, per così dire, su cui Bolaño ha portato avanti le sue battaglie cruciali. L’autore ha affrontato questi temi con una grande, dirompente inventiva restia all’esaurirsi in se stessa, perché nella prosa di Bolaño non viene mai meno la tensione verso un valore fondamentale qual è l’esercizio critico della memoria. E qui giace la lepre. Tutto in Bolaño viene dalla memoria ed è rivolto alla memoria: il prete di Notturno cileno che impartisce lezioni di marxismo alla cerchia di Pinochet, l’invenzione di agiografie apocrife di scrittori arcinoti, la composizione di finti manuali di letteratura, l’invenzione di avanguardie letterarie mai esistite – la lista potrebbe continuare a lungo. Non si contano, nella sua produzione, le frasi che con brevità quasi epigrammatica o, al contrario, con levità allusiva sottolineano la cardinalità della memoria nella concezione del mondo elaborata, proposta e difesa dallo scrittore.

Per Bolaño anche la memoria personale è produttiva: l’autore cileno porta talvolta i propri ricordi al di qua del processo creativo, facendone materia prima delle proprie storie. Egli stesso nel 1999, nel corso di un’intervista per un programma televisivo cileno, interrogato a proposito del proprio processo letterario, ebbe a dire che «il gioco effettivo è l’esercizio della memoria […] ma all’interno di un rigore stilistico fortissimo»; e poco più avanti: «credo nella letteratura come macchina autosufficiente». È forse questa posizione, che implica allo stesso momento un intimo coinvolgimento dell’autore nella propria opera di finzione e un’indipendenza almeno teorica di quest’ultima dalla conoscenza dei trascorsi dell’autore, a motivare l’osservazione di Nicola Lagioia sul fatto che «alcuni libri di Bolaño sembrano scritti dopo la morte». C’è però una problematicità ulteriore: dal momento che l’esercizio della memoria viene messo a frutto nell’erigere una struttura narrativa che sta in piedi senza portare i segni (le cicatrici) di tale esercizio, si pone con particolare urgenza la questione del rapporto tra l’autore e la propria opera. A questo proposito Juan Villoro, scrittore messicano che conobbe Bolaño nel 1977 e lo frequentò assiduamente negli ultimi anni della sua vita, in un articolo memorialistico osserva:

«diverse volte commentammo un fatto curioso: l’unica prova affidabile del talento è sentire il testo come se fosse stato scritto da qualcun altro. Tale autonomia della voce rivela che l’opera vive di vita propria. Ci si può sentire orgogliosi di un registro che ormai ci è estraneo? Assolutamente no».

Le pagine di Bolaño, dunque, sono pagine in cui «tutto passa attraverso il filtro elettrico della memoria» (Andres Neuman), e possono essere lette come il risultato della conciliazione di due tendenze se non opposte certo divergenti: da un lato l’inclinazione a utilizzare la propria biografia come materiale da narrazione, dall’altro il rifiuto di fare della propria scrittura un diario di bordo, quasi delle note a margine dell’esistenza. Per capire la concezione che Bolaño aveva della letteratura è significativo un passaggio di un’intervista apparsa sul quotidiano cileno La tercera il 19 marzo 2000: in un primo momento gli viene chiesto quali siano i suoi eroi di finzione preferiti, poi quali quelli della vita reale; la risposta dello scrittore cileno è la stessa a entrambe le domande.

La memoria è una cifra fondamentale anche degli espedienti narrativi utilizzati da Bolaño. La maggioranza dei suoi racconti e romanzi brevi sono scritti in prima persona e ambientati in un passato dal respiro più o meno ampio: la finzione, vale a dire, altro non è che un esercizio di memoria della voce narrante. Così Notturno cileno è costituito da un unico sterminato paragrafo il cui narratore sul letto di morte tenta di tirare le somme della propria vita; così La pista di ghiaccio ha una trama noir costruita con l’alternarsi ricorsivo di tre voci narranti; così Stella distante è il racconto di una pluralità di vicende, ideale trascrizione delle conversazioni tra Bolaño e Arturo Belano (suo alter ego letterario presente in diverse opere); così Un romanzetto canaglia, Monsieur Pain e C_onsigli di un fanatico di Jim Morrison a un discepolo di Joyce_ sono romanzi raccontati da personalità cupe e talora grottesche, nel cui resoconto le cose che non si riescono a ricordare pesano tanto quanto quelle di cui si serba una chiara immagine; così negli ultimi scritti raccolti ne Il gaucho insopportabile è Bolaño stesso a parlare di cosa sono state nella sua vita la letteratura e la malattia; così, infine, i referti medici presenti nella parte centrale di 2666 potrebbero essere interpretati, senza per questo spogliarli del loro valore di brillante mezzo espressivo, come rappresentazione di tutto ciò che effettivamente rimane a ricordare le ragazzine uccise in Messico da criminali senza volto.   
La voce che conduce la narrazione ha però una memoria fallibile e lontana dall’onniscienza: caratteristici della produzione del cileno sono i toni ipotetici del dettato e i finali concisi in cui i personaggi semplicemente scompaiono, come se «saltassero letteralmente fuori dall’ultima pagina e continuassero a fuggire» verso territori preclusi alla memoria del narratore di turno, lasciando incompiuti o ambigui alcuni aspetti della propria vicenda.

Dato il continuo rimbalzare da un libro all’altro di personaggi, vicende, luoghi e stilemi, il lettore dell’opera di Bolaño (quale che sia il suo punto d’entrata e il suo percorso) viene a parte anche di un altro tipo di memoria, questa volta interna all’universo narrativo dello scrittore. Tuttavia anche questa memoria interna non evoca una realtà finita in se stessa, definibile in maniera unilaterale: è vero che lo scrittore Arcimboldi compare ne I dispiaceri del vero poliziotto, ne I detective selvaggi e in 2666, tuttavia nelle prime due opere di lui sappiamo quasi solo la nazionalità (francese), mentre nell’ultimo egli è tedesco e ha un ruolo ben più importante nella narrazione; stando a I detective selvaggi Arturo Belano (alter-ego di Bolaño finanche sul piano onomastico) scompare in Africa, mentre in un racconto di Puttane assassine lo incontriamo ancora vivo e impegnato nella propria assidua attività di lettore.

La memoria, nella narrativa di Bolaño, partecipa sempre alla costruzione dell’architettura narrativa. L’opera in cui essa ha un compiuto ruolo fondativo è I detective selvaggi, romanzo apparso nel 1998. La parte centrale di quest’opera è costituita dall’avvicendarsi di 95 testimonianze in prima persona di 55 voci diverse, tutte incentrate su alcuni episodi occorsi a due poeti nel ventennio 1976-1996. Dal momento che la prima e la terza sezione del romanzo sono il diario di Juan García Madero, si può dire che l’intera opera altro non è che la giustapposizione di parole altrui sui due protagonisti. Ogni capitolo è uno skaz, secondo la terminologia russa inaugurata da Boris Ejchenbaum, ovverosia una narrazione inerente alla fabula compiuta da un personaggio stesso della fabula, caratterizzato mimeticamente sotto l’aspetto linguistico; tuttavia ne I detective selvaggi molte delle voci narranti appartengono alla fabula soltanto in quanto hanno conosciuto i due protagonisti, e di se stessi non raccontano che ciò che serve a restituire con pienezza gli episodi che danno loro diritto di cittadinanza nella narrazione.

I detective selvaggi sono anche l’esempio più alto delle due tendenze individuate in precedenza (quella all’utilizzo della propria biografia e quella a conferire autonomia al testo letterario): l’intero romanzo, eccezion fatta proprio per Madero, è popolato da personaggi che hanno un preciso e dichiarato corrispondente reale, così come la maggioranza delle cose che succedono sono accadute realmente (nella fattispecie, il movimento dei “realvisceralisti”, presente nel romanzo, è calcato su quello degli infrarealisti, fondato da Bolaño a Città del Messico intorno alla metà degli anni Settanta). La stessa ossessiva ricerca che i due protagonisti portano avanti, quella di Cesárea Tinajero, madre estetico-poetica del realvisceralismo, è il tentativo di dare un passato ben definito al proprio presente artistico ed esistenziale. Il fatto che, una volta trovata, Cesárea vada fatalmente incontro alla morte apre a problemi che non possono essere qui esaminati.

In una delle sue ultime interviste Roberto Bolaño si è provocatoriamente definito lo scrittore latinoamericano «con più passato, che alla fine è l’unica cosa che conta». Personalmente ritengo che dietro questa affermazione sibillina ci sia un riferimento alla pluralità delle sue fonti, all’originalità con cui se ne serviva e al rifiuto di identificarsi con una specifica tradizione del romanzo latinoamericano o europeo. La vicenda di Cesárea Tinajero ne I detective selvaggi è ascrivibile a una tematica ricorrente della narrativa di Bolaño, ovverosia l’insufficienza sistematica dell’uomo davanti a se stesso, ai propri desideri e alla storia: tutto, per Bolaño, è ricerca incompiuta, anelito che tende a non compiersi e, nei rari casi in cui si compie, scopre che compimento e morte sono la stessa cosa. La memoria, che pure abbiamo detto permeare tanti aspetti della scrittura del cileno, non è che una delle modalità di questa ricerca, uno dei più importanti mezzi d’indagine che ha lo scrittore nel momento in cui decide di essere «spettatore volontario dell’incubo».

Per saperne di più:

Alcuni contributi interessanti (benché forse insufficienti) si trovano in prefazione o postfazione ai libri di Bolaño: Andrés Neuman, Benvenuti nel deserto: la poesia di Bolaño (prefazione a Roberto Bolaño, Tre, SUR 2017); Nicola Lagioia, Uno scrittore per il ventunesimo secolo (postfazione a Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, SUR 2017). Segnalo poi la raccolta di saggi Bolaño selvaggio, a cura di P.E. Soldafin e M. Magliani, Senzapatria Editore 2009**,** l’utilissimo blog www.archiviobolano.it, e - per un tentativo di inquadrare l’autore cileno in un panorama più ampio - Il romanzo massimalista di Stefano Ercolino, Bompiani 2015.

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