«Il buon senso è che in ogni cosa vi è un senso determinabile; il paradosso è i due sensi nello stesso tempo». Con questa affermazione incisiva il filosofo francese post-strutturalista Gilles Deleuze introduce il concetto di paradosso in Logica del senso, una delle sue opere teoreticamente più rilevanti. Potrebbe perciò sembrare bizzarro, o quanto meno curioso che un filosofo affronti questioni complesse come quelle del senso, del paradosso e dell’origine del linguaggio a partire da un confronto serrato con le opere di Lewis Carroll, in particolare Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio, in quanto esse si presentano in apparenza come storie fantastiche per l’infanzia, costellate da giochi di parole e da personaggi impossibili.

Eppure, questa è proprio la strada seguita da Deleuze, che individua in Carroll la genialità di un autore in grado di costruire storie sul fatto stesso che si possa parlare di qualcosa tramite il linguaggio, ovvero che le parole abbiano un corrispettivo effettivo nella realtà di esprimere qualcosa (per saperne di più sul rapporto tra linguaggio e riflessione linguistica si veda il seguente articolo). Per il filosofo francese «Alice è la storia di una regressione orale», nel senso che l’opera indaga l’origine del linguaggio umano, il suo darsi come evento e condizione generale per cui si possono nominare degli oggetti, rendendo possibile in questo modo la capacità umana di espressione. Se qualcosa quindi può essere in generale espresso, è perché è manifestazione del senso.

Il possedimento del senso delle cose per Deleuze è infatti propriamente non solo la condizione necessaria affinché il linguaggio possa esprimersi, ma anche la ragione per cui possono essere individuati gli universali linguistici di soggetto e oggetto. I rapporti logici che legano questi universali si sviluppano a partire da una tripartizione logica determinata a posteriori, ossia la capacità di ogni parola di riferirsi a qualcosa, definita da Deleuze come designazione; e altre due dimensioni che formano la semantica di una proposizione, le quali sono rintracciate dal filosofo francese nella manifestazione, che è la possibilità di richiamare ogni azione espressa ad un soggetto che la compie e la ordina nel tempo**,** e la significazione, che garantisce un rapporto di congruenza tra le parole e i concetti universali che danno significato a queste. Ciascuna di queste tre dimensioni, tuttavia, non è prioritaria rispetto alle altre, poiché la piena operatività di ognuna di queste si fonda necessariamente sulla coesistenza di almeno un’altra dimensione. Ciò che tutte le espressioni linguistiche presuppongono è appunto il senso, la condizione per cui il pensiero, attraverso il linguaggio, si può applicare alle cose e che non esiste al di fuori della frase che lo esprime, eppure non si confonde con ciò che è espresso o con una parte di esso.

Il senso dunque non si trova mai da una sola parte, non sta né nella dimensione della proposizione né nei corpi designati. Per questo motivo esso non è mai buon senso, ovvero direzione unica e ordinata di espressione, che permette logicamente di distinguere in classi di opposti e in proprietà definite. Per Deleuze il senso è sempre doppio senso e la sua struttura fondamentale è, per l'appunto, paradossale. L’istanza paradossale unisce allora corpi e linguaggio, designati ed espressi, significati e significanti, ma proprio facendo convergere due sensi al tempo stesso assicura la divergenza di due serie lineari e non contraddittorie. In questo contesto, la storia di Alice è propriamente quella di una bambina che inizia a vedere questi due sensi allo stesso tempo, sperimentando i paradossi interni al linguaggio, che sovvertono le certezze logiche di chi si esprime, tanto che, già dalle prime avventure in cui Alice rimpicciolisce e cresce a dismisura, la destabilizzazione è tale che la bambina non è più certa di sapere quale sia la sua identità e se ne ha effettivamente una.

Nella storia è partita la caccia al senso: Alice, che è convinta di possederlo nelle sue solide certezze, mostrando di confonderlo con il designato delle proposizioni, viene messa in crisi da una serie di incontri, come quello con il topo, il quale, interloquendo con l’anatra durante il raduno di animali causato dalle lacrime della stessa bambina, mostra che la parola questo può essere utilizzata non solo per indicare un oggetto concreto, ma anche per riferirsi al senso di un’altra proposizione. Come osserva Deleuze «ogni designabile o designato è per principio consumabile, penetrabile; Alice del resto osserva di poter “immaginare” soltanto del cibo. Il topo invece usa questo in tutt’altro modo: come il senso di una proposizione preliminare, come l’evento espresso dalla proposizione».

Siamo in presenza di quello che Deleuze definisce il paradosso di Carroll o della regressione infinita: il senso è già sempre presupposto in ogni proposizione e per spiegarlo si ha sempre bisogno che esso diventi oggetto di un’altra proposizione, il cui senso necessita a sua volta di essere spiegato e così all’infinito. Questo paradosso è ben esemplificato dal comportamento di un personaggio incontrato da Alice alla fine del suo viaggio in Attraverso lo specchio, ossia il cavaliere, che si propone di sollevare l’animo della ragazza cantandole una canzone, “Haddocks’ Eyes”, il cui titolo innesca una serie progressiva di espressioni, che potrebbero protrarsi all’infinito, nel tentativo di spiegarne il senso, mai definitivamente afferrabile. In questo modo, è possibile affermare che il paradosso coesiste con ciò che si esprime, ma è neutro e inafferrabile, come il sorriso senza gatto che rimane nel momento in cui lo stregatto svanisce davanti agli occhi di Alice.

Le bizzarre avventure ideate da Carroll, allora, esplorano tutta la potenza del paradosso nel linguaggio, mostrando come sia possibile diramare storie in serie con elementi senza un significato e/o un designato, presentando le pure potenzialità del senso. Per questo motivo, per Deleuze, Carroll è lo sperimentatore delle serie di senso in letteratura, capace di indagare le figure del paradosso attraverso diversi procedimenti. Uno di questi consiste nell’utilizzo di quelle che il filosofo definisce parole esoteriche, distinte a loro volta in tre tipologie.

Quelle di primo tipo, ad esempio rispondono al tentativo di estrarre il senso componendo monosillabi impronunciabili, ottenuti tramite la contrazione di vari elementi sillabici di una proposizione. Esse corrispondono ad un’operazione compiuta a livello del suono, per allontanarsi dalla designazione, altrimenti immediatamente riconoscibile. Ne è un esempio l’espressione y’ reince (contrazione di your royal highness), tratta dal capitolo I di un’altra opera di Carroll, Sylvie and Bruno, di cui Deleuze esamina allo stesso modo i giochi linguistici messi in atto dall’autore.

Le parole esoteriche di secondo tipo tentano invece di congiungere due serie differenti, di farle coesistere. È il caso della parola Snark, termine indicante un animale fantastico a cui Carroll dedica anche un poemetto a parte, parola-limite, usata per indicare qualcosa che manca a partire dall’unione di due designanti effettivi (Snark, come afferma Deleuze, è l’unione di due parole corrispondenti a due animali realmente esistenti, snake, “serpente”, e shark, “squalo”). Le parole di secondo tipo quindi compongono un nuovo senso globale a partire da due designanti congiunti.

Infine, le parole esoteriche di terzo tipo, che interessano maggiormente il filosofo francese, sono le parole portmanteau, da lui denominate parole-bauli. Queste non uniscono soltanto due designati diversi, ma assicurano una proliferazione disgiuntiva di sensi. A differenza delle parole esoteriche di secondo tipo, le parole-bauli colgono più precisamente la funzione generale del paradosso e la sua necessità: contraendo questa volta più sensi nello stesso termine, la parola-baule ne assicura le diramazioni in serie, mai definitive o riducibili a due o più designati. Un esempio efficace è espresso dal poema Jabberwocky, presentato da Carroll in A_ttraverso lo specchio_. Tutto il poema è costellato di parole-bauli, la stessa parola Jabberwock, come spiega Deleuze «è formata da wocer o wocor che significa rampollo, o frutto, e da jabber, che esprime una discussione volubile, animata, loquace». In tal senso sarà utile riportare una piccola strofa di Jabberwocky, la seconda, in modo tale da connotare meglio ciò che distingue una parola-baule da una di secondo tipo.

Beware the Jabberwock, my son!

The jaws that bite, the claws that catch!

Beware the Jubjub bird, and shun

The frumious Bandersnatch!

Il termine frumious (in italiano fumioso, ovvero l’unione di fumante e furioso, seguendo la spiegazione di Deleuze) ha qualcosa in più di una parola di secondo tipo, in quanto non solo unisce più termini designanti, ma è una sintesi disgiuntiva, poiché in una sola parola rende evidente il sistema di funzionamento stesso del paradosso: proprio unendo in un unico termine, separa serie di senso differenti.

La legge della parola-baule infatti, afferma Deleuze, fa «emergere ogni volta la disgiunzione che poteva essere nascosta» e così accade con la parola fumioso, in cui «la disgiunzione necessaria non è […] tra furioso e fumante [...] ma tra fumante-e-furioso da una parte, furioso-e-fumante dall’altra». Ciò significa che le parole-bauli rendono evidenti le differenti direzioni di senso che possono essere assunte a seconda del versante del termine verso cui si sceglie di propendere. E, se inizialmente la differenza tra le diverse serie diramate potrebbe sembrare insignificante (come nel caso di fumante-e-furioso da un lato e furioso-e-fumante dall’altro), poi, progressivamente, emergerà tutta la potenza delle parole-bauli, quella di continuare a ramificare le serie a cui hanno dato vita, introducendo continuamente nuove relazioni di significato.

Per saperne di più:

Per un approccio diretto alle sperimentazioni linguistiche di Carroll si consiglia la lettura dei due brevi romanzi che hanno come protagonista la piccola Alice: Alice’s Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, possibilmente in lingua inglese, per non perdere nella traduzione gli effetti degli originari giochi di parole.

Per un’analisi filosofica sui paradossi usati da Carroll e sul ruolo del senso nelle espressioni linguistiche si veda G. Deleuze, Logique du sens, Paris, Éditions de Minuit, 1969 [trad. it. di M. De Stefanis, Logica del senso, Milano, Feltrinelli,  2006].

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