«Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu.»

Il legame tra parola e creazione è evidenziato in maniera esplicita sin dalle primissime battute del libro della Genesi: ogni atto di creazione che Dio compie è preceduto e causato dall’enunciazione del nome di ciò che sta per essere creato. Questo duplice atto di enunciazione-apparizione non è un’esclusiva della riflessione religiosa: meccanismi simili si possono riscontrare in una serie di situazioni non strettamente riconducibili alla tradizione giudaico-cristiana, come ad esempio le pratiche magiche che prevedono la recitazione di incantesimi (termine che nella sua stessa etimologia ci riporta alla voce, al canto) per ottenere l’effetto desiderato. Pare che pure la celebre formula abracadabra abbia come significato originale «creerò come parlo»

Tra la creazione divina raccontata nella Genesi e la recitazione di incantesimi c’è, tuttavia, una differenza fondamentale: nel caso di Dio, infatti, la parola è impiegata per trarre dal nulla (ex nihilo) una creatura nuova, mentre la recitazione di incantesimi richiama all’essere creature o eventi che si danno già in natura e rientrano, dunque, in un ordine precedentemente fissato da un creatore. Nel caso dell’incantesimo, dunque, non potremmo parlare di creazione in senso proprio (atto divino dal nulla) ma piuttosto di evocazione. Se si legge con attenzione il testo biblico, ci si rende conto, inoltre, che l’importanza del nome delle cose non è legata unicamente alla creazione: ancora nella Genesi, infatti, l’essere umano (non ancora diviso in maschio e femmina) è invitato da Dio a imporre un nome a ciascuna specie animale. «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.» (Genesi, 2, 19).

Al di là delle specifiche riflessioni della filosofia del linguaggio, da un punto di vista puramente teoretico l’impiego del nome comporta due conseguenze concettuali. In primo luogo, sottolinea la relazione tra chi chiama e chi è chiamato: se il nome non è solo evocato, ma anche attribuito, come nel caso di Dio con le sue creature o dei genitori col proprio figlio, la relazione rispecchia una gerarchia causale, tra genitore e generato; qualora il nome sia, invece, solo chiamato e non attribuito, il rapporto tra chiamante e chiamato è di tipo paritario, come tra amici, fratelli o conoscenti. Come diretto sviluppo di questo primo punto, il secondo snodo concettuale consiste nella codificazione del rapporto: se il primo incontro con l’Altro è dato dalla vista del suo volto – come sottolinea il filosofo francese Emmanuel Lévinas, «[il volto parla] in quanto è esso stesso a rendere possibile, e a cominciare, ogni discorso» –, l’impiego del nome come appellativo (nome proprio, nomignolo, nome e cognome) è il passo successivo nella delineazione dei rapporti interpersonali.

Questo preambolo può esserci utile se consideriamo l’importanza della parola e, in particolare, dell’attribuzione del nome  in un romanzo come La storia infinita di Michael Ende. Definito dall’autore come un fantasy fiabesco, il libro si presenta come un romanzo di formazione con struttura metanarrativa, che unisce al dipanarsi della trama avventurosa numerosi riferimenti filosofici di rilievo, tra cui proprio il potere della parola.

La capacità di creare e dare nuova vita con la parola è il motivo per cui il protagonista, un ragazzino grassoccio e triste di nome Bastiano Baldassarre Bucci, viene attirato nel libro che stava leggendo, appunto La storia infinita, per salvare l’immaginario regno di Fantàsia. Il regno è infatti minacciato da uno strano male, chiamato Nulla, che si espande nelle terre fantàsiche divorandone i luoghi e gli abitanti; questo fenomeno è legato a doppio filo alla malattia che ha colpito l’Infanta Imperatrice, una creatura alla cui esistenza è legata la sopravvivenza di Fantàsia e che per cause sconosciute si sta lentamente spegnendo. L’Infanta Imperatrice affida al giovane Pelleverde Atreiu il compito di cercare colui che, si scoprirà in seguito, potrà salvare il reame donando alla sovrana un nuovo nome. L’unico che ha la capacità di attribuire un nome nuovo è un figlio dell’uomo, ovvero proprio Bastiano.

La differenza “ontologica” tra Bastiano e gli abitanti del regno di Fantàsia sta proprio nella dissimmetria relazionale sopracitata: come esplicita il romanzo stesso in più passaggi, il mondo degli uomini e il mondo di Fantàsia sono strettamente connessi e la duplice piaga che colpisce il reame fantàsico (il Nulla e la malattia dell’Infanta Imperatrice) è dovuta al fatto che gli esseri umani hanno smesso di credere a Fantàsia. Questa la riflessione di Bastiano quando scopre il legame tra i due mondi:

Adesso capiva che sia Fantàsia, sia il mondo degli uomini erano malati. Perché una cosa era legata all’altra. In fondo lo aveva sempre pensato, senza saperselo spiegare. Non si era mai potuto convincere che la vita dovesse proprio essere così grigia e indifferente, così priva di misteri e di miracoli, come tutti affermavano quando dicevano rassegnati: così è la vita!

(p. 149)

L’interconnessione tra i due piani di realtà è evidente: da parte degli uomini vi è una mancanza di fiducia negli elementi fantastici che arricchiscono la vita di tutti i giorni e questa incredulità nella forza dell’immaginazione fa sì che il mondo di Fantàsia rischi di scomparire, aumentando ancor di più la disillusione degli uomini. Questa interdipendenza tra i due universi prevede che la fantasia, in quanto facoltà creatrice propria dell’essere umano, sia subordinata all’azione dell’uomo. Bastiano è l’unico che può dare un nuovo nome all’Infanta Imperatrice e una nuova vita a Fantàsia perché gli abitanti del regno fantàsico sono privi di fantasia, caratteristica che invece contraddistingue il bambino, non solo in quanto essere umano, ma anche perché dotato di un’immaginazione particolarmente fervida.

Come Dio nomina e crea dando vita al mondo, così Bastiano nomina e rivitalizza il regno di Fantàsia, poiché, come sottolinea la stessa Infanta Imperatrice: «Solo il nome giusto dà a tutte le creature e a tutte le cose la loro realtà.» (p. 173). Più che una creazione ex nihilo, dunque, l’operazione di Bastiano è quella di dare nuova vita a ciò che già in qualche modo esisteva, restituire ad un esse diminutum (un essere incompleto) la sua piena realtà. Nel corso del racconto Bastiano mostra più volte questa sua capacità di donare realtà ad oggetti o esseri preesistenti, che attendevano un nuovo nome per vivere.

È il caso degli Acharai, le creature più infelici del regno, creati inavvertitamente proprio da Bastiano mentre raccontava un mito fondativo alla città di Amarganta. Una volta resosi conto di aver creato degli esseri tanto miserabili, così brutti da vivere nel buio più totale per non essere costretti a guardare la propria bruttezza (Acharai ricorda il termine greco ἄχαρις, ovvero “spiacevole”), Bastiano li ribattezza come Uzzolini, cambiandone completamente la natura: divenuti simili a farfalle, non sono più costretti a piangere per la loro orrenda natura, ma seguono d’istinto qualsiasi desiderio (l’uzzolo, per l’appunto) e vivono nella libertà e nel caos più totali.

Un altro caso degno di nota è quello della spada Sikanda. Il leone Graogramàn, guardiano del Deserto Colorato, porge a Bastiano una spada che a prima vista sembra quasi un giocattolo in legno per bambini. Con un nuovo nome, però, la natura dell’oggetto cambia drasticamente:

«Sei in grado di darle un nome?» domandò Graogramàn.

Bastiano studiò l’arma con fare pensoso.

«Sikanda!» esclamò.

E nello stesso istante la spada sgusciò con un sibilo dal fodero e gli volò letteralmente nella mano. Soltanto allora egli si avvide che la lama era fatta di luce splendente, tanto forte che si poteva a malapena guardare. Era una lama a doppio taglio ed era leggerissima; nella mano pesava quanto una piuma.

«Questa spada», disse Graogramàn, «è destinata a te da sempre. Perché solo colui che ha cavalcato sulla mia groppa, ha mangiato e bevuto il mio fuoco e in esso si è bagnato, come tu hai fatto, solo lui può toccarla senza pericolo. Ma soltanto perché hai saputo darle il nome giusto, essa ora ti appartiene.»

(p. 228)

Sia in quest’ultimo episodio che in quello dell’Infanta Imperatrice, i personaggi hanno sottolineato l’importanza del nome giusto. Questo dettaglio permette di indagare l’aspetto più originale e interessante dell’attribuzione del nome nell’opera di Ende, che gioca sulla già citata interdipendenza tra il mondo umano e quello della fantasia. Poiché l’atto del nominare qualcosa ha una ripercussione sulla natura e sul grado di realtà di ciò che viene nominato, il nome scelto ha un’importanza vitale; riprendendo la citazione dell’Infanta Imperatrice, notiamo la differenza tra nome corretto e nome sbagliato: «Solo il nome giusto dà a tutte le creature e a tutte le cose la loro realtà. […] Il nome sbagliato rende tutto irreale. Questo è ciò che fa la menzogna.» (p. 173).

Se agli abitanti di Fantàsia viene dato il nome giusto, l’immaginazione degli uomini li vivifica: le loro avventure allietano l’animo degli esseri umani, portano quell’alone di mistero, di meraviglioso e di imprevedibile nella quotidianità, rendendola meno grigia e più magica. Tuttavia, se le cose non vengono chiamate con il loro nome, queste diventano delle menzogne, delle bugie che non solo avvelenano l’uomo e la sua fantasia, ma lo rendono cieco alla sua stessa realtà. Il Nulla che minaccia Fantàsia non è solo il sintomo del progressivo impoverimento dell’immaginazione umana, ma anche la porta attraverso cui le fantasie vengono stravolte e diventano false. Questo meccanismo è spiegato crudelmente ad Atreiu, il co-protagonista del romanzo, dal Lupo Mannaro Mork:

«Che cosa sei laggiù [nel mondo umano], mi domandi? Ma che cosa sei qui? Che cosa siete dopotutto, voi abitanti di Fantàsia? Chimere, visioni fantastiche, immagini di fantasia, invenzioni del regno della poesia, personaggi di una storia senza fine! O forse che tu ti ritieni realtà, figliolo? Be’ sì, certo, qui nel tuo mondo lo sei. Ma una volta che sei passato attraverso il Nulla, non lo sei più. Allora diventi irriconoscibile. Allora sei in un mondo diverso. Laggiù non avete più alcuna somiglianza con voi stessi. Voi portate nel mondo degli uomini accecamento e illusione. Indovina un po’, figliolo, che fine fanno tutti gli abitanti della Città dei Fantasmi che si sono gettati nel Nulla?»

«Non lo so», balbettò Atreiu.

«Diventano manie, idee fisse nella mente degli uomini; immagini d’angoscia, là dove non c’è motivo di angoscia; idee di disperazione, là dove non c’è ragione di disperarsi; desiderio di cose che poi li fanno ammalare.»

(pp. 146-147)

Il circolo vizioso che porta gli uomini a non credere alla fantasia e ad accelerarne la scomparsa in favore di un mondo di menzogne ha come fulcro l’uso (corretto o scorretto) delle parole. Il nome giusto racchiude l’essenza della cosa nominata, ovvero permette di riconoscere un’opera di fantasia per ciò che è: questo consente all’uomo di impiegare la propria immaginazione in maniera creativa, dedicandosi all’arte o semplicemente alleggerendo una vita che spesso rischia di essere grigia e opprimente. Il nome sbagliato, al contrario, spaccia per vero ciò che è fantastico, snatura il suo oggetto e lo rende una pericolosa fissazione, una mania o un’angoscia che non hanno alcun corrispettivo nella vita reale.

Questo fenomeno ha una ricaduta sociale e politica che Ende sottolinea in uno dei passi più avvincenti del romanzo, dove la differenza tra fantasie e menzogne sembra rispecchiare la contrapposizione tra la poesia da un lato e la retorica della peggior specie dall’altro. Sempre al malvagio Mork è affidato il messaggio più politico dell’opera:

« […] Solo se [gli uomini] credono che Fantàsia non esiste, non viene loro l’idea di venirvi a cercare. E tutto dipende da questo, perché solo se non vi conoscono per quello che siete veramente si può fare di loro quello che si vuole».

«Cosa… fare di loro cosa?»

«Tutto quello che si vuole. Si ha il potere su di loro. E nulla dà maggior potere sugli uomini che la menzogna. Perché gli uomini, figliolo, vivono di idee. E quelle si possono guidare come si vuole. Questo potere è l’unico che conti veramente. […] Non appena verrà il tuo turno di saltare nel Nulla, diventerai anche tu un servo del potere, senza volontà e irriconoscibile. Chi lo sa a che cosa potrai servire. Forse servirà il tuo aiuto per indurre gli uomini a comperare cose di cui non hanno bisogno, o a odiare cose che non conoscono, o a credere cose che li rendono ubbidienti, o a dubitare di cose che li potrebbero salvare. Con voi, creature di Fantàsia, nel mondo degli uomini si fanno i più grossi affari, si scatenano guerre, si fondano imperi…»

(p. 148)

Come abbiamo visto nella S_toria infinita_, la parola è l’espressione fondamentale del legame tra la realtà ed il regno della fantasia: la scelta del nome da attribuire alle opere della nostra immaginazione è ciò che distingue tra fantasie positive, che allietano e colorano la nostra vita, e menzogne che la avvelenano e gradualmente ci impediscono di separare il vero dal falso. L’attribuzione del nome, il chiamare le cose come sono realmente è ciò che fonda la nostra relazione con il mondo, sia esso quello fisico e materiale in cui viviamo o sia quello fantastico e imprevedibile in cui ci rifugiamo alla bisogna. Come tutto ciò che è complesso, la parola – il nome – può distruggere come creare. Ce lo ricorda l’Infanta Imperatrice, quando dice che «così come i due mondi possono distruggersi a vicenda, allo stesso modo possono vicendevolmente risanarsi.» (p. 172).

Per saperne di più:

Per un approfondimento su La storia infinita (sia libro sia film) si suggerisce l’articolo online di Alessandro Montosi: https://alemontosi.blogspot.com/2013/11/la-storia-infinita-confronto-tra-le-due.html.

Per chi fosse interessato a conoscere meglio le tematiche generali della letteratura fantastica, un’opera fondamentale è il testo di T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 2007. Sul versante più filosofico, invece, il tema dell’Altro e della relazione è ampiamente trattato in numerose opere di Emmanuel Lévinas, tra cui il già citato volume in collaborazione Philippe Nemo, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a cura di F. Riva (Roma, Castelvecchi, 2012), mentre sul tema della parola, sempre di Lévinas, segnaliamo Nomi propri, Roma, Castelvecchi, 2014.

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