24 gennaio 2020

Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo come epopea della parola sperimentale

Stefano D'Arrigo ha il volto di un pellisquadre. In quasi tutte le foto a lui scattate dall'amico fotografo Ferdinando Scianna egli si mostra sogghignante, aggrotta la fronte. Il suo volto è scavato da rughe profonde, il suo sguardo è indagatore e remoto come la terra da cui proviene. Egli non ha mai cacciato fere ma conosce il mestiere: ad Alì Terme, dove lo scrittore è nato, la prima fonte di sostentamento è la pesca ed è impossibile per gli abitanti del piccolo paese in provincia di Messina non conoscere la vita dei pescatori che ogni giorno perpetuano in un mondo ancora premoderno l'antica lotta dei pellisquadre contro le fere, stando bene accorti a distinguerle dai delfini perché, se l'animale è lo stesso, la parola non lo è, e nel romanzo Horcynus Orca - in cui questo mondo è descritto - tanto basta per individuare un immaginario altro e un corrispondente sistema linguistico  capace di creare regole proprie.

 

Horcynus Orca è un'opera che difficilmente riesce a rimanere reclusa negli schemi canonici della letteratura. Nata in un clima fortemente sperimentale, è stata indicata come un superamento del neorealismo, un'anticipazione del postmoderno, un romanzo che poco si adatta alle linee tradizionali del genere. D'Arrigo, nel corso della pluriventennale gestazione del suo capolavoro, pubblicato nel 1975, si confronta con alcune tra le più grandi opere della letteratura mondiale, primo tra tutti Omero, ma anche Melville, Faulkner, Conrad, Stevenson e Joyce. Il riferimento ad ognuno di questi autori è funzionale ai grandi temi affrontati in Horcynus Orca: il rapporto tra l'uomo e il mare, i traumi della age of anxiety che si traducono nel flusso di coscienza e il nostos, il ritorno in patria di un eroe dalla guerra. Omero è forse l'influenza più strutturalmente conclamata, in quanto l'opera di D'Arrigo può essere definita un "poema epico in prosa" in cui vengono esibiti i rituali e il codice valoriale di una società premoderna impoverita dalla guerra e caratterizzata da persone-personaggi straviati dal loro contesto d'origine e costretti per sopravvivere a spostarsi, a compiere atti per loro inauditi, a infrangere tabù per ricostituire un ordine dopo averne sacrificato un altro. L'aspetto corale è fondamentale nel romanzo e si ispira non solo alla tragedia greca ma anche alle forme rituali di rielaborazione del dolore che D'Arrigo aveva studiato e approfondito tramite le opere dell'antropologo Ernesto De Martino, studioso delle culture meridionali.

 

Non a caso la vicenda di Horcynus Orca si svolge nel sud dell'Italia e ha come protagonista un pellisquadre, parola che indica il pescatore nella peculiare lingua darrighiana. Dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943 il giovane 'Ndrja Cambrìa, ex soldato della marina militare, comincia il suo viaggio di ritorno verso la natìa Cariddi, un piccolo paese sullo Stretto di Messina che, come l'Alì Terme di D'Arrigo, vive di pesca e di caccia alle fere. La storia segue il percorso che 'Ndrja compie partendo da Napoli e non si articola in un viaggio lineare in cui fabula e intreccio coincidono: numerosi sono i flashbacks, le premonizioni, le digressioni e i racconti nei racconti che imprimono al tempo della storia un andamento a sistole e diastole. Ogni avvenimento si rivela indispensabile e intimamente orientato verso il finale della storia, modulato sui passi del protagonista in un percorso governato da quella che Andrea Cedola definisce nel saggio La parola sdillabbrata. Modulazioni su Horcynus Orca «ricorsività palindroma».

 

L'opera si articola attorno a una serie di temi ricorrenti, esemplificati in misura maggiore o minore dai personaggi che 'Ndrja incontra e per cui, come Dante nella Commedia, funge da catalizzatore muovendoli al racconto, spingendoli con la sua sola presenza a sbrogliare le trame del loro dolore. Horcynus Orca è infatti un'opera sulla perdita, sul lutto individuale e collettivo, sugli effetti della guerra: il protagonista si muove attraverso un'Italia di macerie, rudemente concreta e terribilmente fantasmatica nei suoi spazi liminali, ovvero le coste, disseminate di carcasse e relitti e popolate da figure emarginate, reiette, residuali. La narrazione ci sospinge più volte a vedere la storia come un sogno, come una visione post-mortem di 'Ndrja che, ormai fantasma, torna dall'aldilà a visitare i luoghi dell'infanzia e della giovinezza, così che l'opera stessa vive in uno spazio liminale tra realismo e mitopoiesi.

 

Il romanzo è un'eclatante lamentazione corale e polifonica di coloro il cui mondo è stato stravolto dalla guerra: le femminote, donne calabresi che, scomparsi i ferribò (trascrizione darrighiana di ferry boat) dopo la loro riconversione in navi da guerra non possono più passare lo Stretto per contrabbandare il sale; lo "spiaggiatore", un uomo che vive lungo le coste calabresi frugando tra i rifiuti delle spiagge; i pellisquadre, pescatori senza più barche i quali, ridotti in carestia, sono costretti a commerciare le fere e a cibarsi del loro amaro e rivoltante «lordume di carne».

 

Il tema della lotta contro le fere traina l'intero romanzo e lo determina anche a livello linguistico. La fera e il delfino appaiono simili nell'aspetto ma solo un vero pescatore sa distinguere l'uno dall'altra e sa che la fera è l'animale da abbattere. La fera (da "fiera", "bestia") è nemica dei pellisquadre, che fanno della lotta contro di essa una questione di vita o di morte. Il «pesce bestino», definito così nel romanzo in senso dispregiativo, è diventato il padrone indiscusso dello Stretto da quando sono stati chiamati alle armi i pescatori che prima lo cacciavano. Tuttavia, alla fine dell'opera il nemico più grande dei pellisquadre si rivelerà l'orcinus orca, l'orca assassina – una proiezione amplificata della fera -  comparsa a largo di Cariddi e ultimo ostacolo da affrontare dopo la fine della guerra perché i pescatori possano tornare alla loro vita d'un tempo.

 

Questo epos della perdita e della cultura meridionale premoderna si articola in 1257 pagine e la sua struttura non prevede alcuna divisione in capitoli. Solo gli "spazi bianchi" intervengono per segnalare la separazione tra tre diversi macro-episodi, all'interno dei quali si individuano quarantanove storie. Il sistema a incastro in cui tali storie sono inquadrate permette di definire l'opera di D'Arrigo un romanzo a cornice nel quale i personaggi non sono disposti lungo vettori linearmente orientati ma vengono trascinati nel generale andamento "a spirale" della vicenda, in una continua alternanza di richiami e anticipazioni. Un altro elemento da sottolineare a livello di struttura riguarda l'importanza data alla concezione figurale; D'Arrigo riprende infatti il concetto di "figura" elaborato dal filologo Erich Auerbach relativamente alla Commedia di Dante - il concetto era già presente nella Bibbia - e lo applica ai personaggi e agli episodi di Horcynus Orca: essi racchiudono in sé anticipazioni, premonizioni e letture nascoste difficilmente individuabili nell'immediato, ma sempre svelate negli eventi successivi del romanzo.

 

A rendere unica l'opera di D'Arrigo nel panorama della letteratura contemporanea è l'applicazione della concezione figurale anche alla lingua adoperata nell'"epos dei pellisquadre".

 

Come anticipato sopra, Horcynus Orca nasce in un momento in cui molti scrittori del secondo Novecento, tra cui Luigi Meneghello e Vincenzo Consolo, si dedicano alla sperimentazione dal punto di vista formale e linguistico. D'Arrigo si inserisce in questa schiera di autori estremamente innovativi e minimamente canonici o normalizzati. Lo scrittore messinese, nella sua incessante riflessione sulla parola, affronta un percorso singolare partendo dalla "parola pura" degli ermetici, ancora presente nella sua opera poetica Codice siciliano (1957), per giungere al superamento della lirica in favore del romanzo. La poesia resta per D'Arrigo un serbatoio da cui attingere per la prosa o, per dirla come Daria Biagi nel suo saggio Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D'Arrigo, essa rimane «un laboratorio di sperimentazione privato».

 

Negli anni in cui esce il romanzo gli scrittori italiani sono chiamati in causa per risolvere la "questione della lingua": le posizioni a riguardo sono molteplici e spesso discordi, e fanno riferimento al problema del rapporto tra italiano e dialetto e allo sperimentalismo ad essi connesso. D'Arrigo, che ha costruito tanto accuratamente la lingua di Horcynus Orca da essere capace di giustificare ogni sua scelta lessicale, punta alla «ricerca di un linguaggio capace di esprimere la bivocità e la compresenza di punti di vista anche opposti di cui il romanzo non può fare a meno.».

 

La lingua di Horcynus Orca si configura come composita, molteplice e polifonica. Sono compresenti in essa l'italiano, tutti i dialetti della Sicilia e anche le lingue straniere, riportate con  trascrizioni italianizzate o sicilianizzate a seconda del codice linguistico di partenza proprio dei personaggi facenti uso delle parole e delle espressioni estere. Alcuni esempi: dal francese si hanno «visavì» ("vis à vis"), «purparlé» ("pour parler"), «bisquì» ("biscuit"); dall'inglese si ha «ferribò» ("ferry boat"). Nello strutturare il peculiare sistema linguistico del suo romanzo, Stefano D'Arrigo ha in mente una lingua unitaria e variabile allo stesso tempo. Fu lo scrittore in persona a parlare di multilinguismo relativamente alla sua opera e a preoccuparsi del fatto che la propria ricerca non venisse semplicemente ricondotta al binomio lingua-dialetto. Dice Daria Biagi:

L'inventiva stilistica di Horcynus risponde infatti in modo persino pedissequo a una logica di grammaticalizzazione interna, senza che sia possibile identificare alcun intento provocatorio o straniante nei confronti del lettore, al quale anzi viene richiesto di "accettare" l'innovazione linguistica e prendere parte attiva alla costruzione del lessico.

Attraverso una sapiente e calcolata disposizione dei termini probabilmente "estranei" al lettore medio italofono, quest'ultimo viene reso in grado di comprendere il senso della parola e di coglierne di volta in volta le diverse sfumature; sono infatti pochissimi gli hapax in D'Arrigo e laddove un termine risulta meno comprensibile la prima volta, lo sarà sicuramente la seconda e così via, fino a generare un meccanismo di ritorno verbale che conduce il lettore a rivedere costantemente i vocaboli utilizzati e ad arricchire i loro significati delle nuove sfumature scoperte nel flusso dell'opera. Il lettore viene altresì posto nelle condizioni di entrare nel meccanismo creativo di Horcynus Orca e oltre a comprendere i neologismi e le formazioni più peculiari riesce a penetrare nei meccanismi onomaturgici darrighiani in un gioco costante di anticipazione, previsione e infine creazione della parola horcynusa. A tal proposito D'Arrigo si oppose sempre fermamente all'inserimento di un glossario in appendice al suo romanzo, convinto che la lingua auto-generatrice da lui ideata fosse capace di auto-insegnarsi al lettore senza bisogno di alcun supporto esterno.

 

Tutto il romanzo è orchestrato sul contrasto tra la voce e il silenzio, sulla consapevolezza e inconsapevolezza linguistica dei parlanti, che talvolta si abbandonano a riflessioni metalinguistiche. Nella lingua di Horcynus Orca il segno linguistico è strettamente ancorato al suo referente e i personaggi lo sanno molto bene, tanto che – informa Daria Biagi - il pescatore Crocitto, dopo aver intavolato una discussione sul contrasto fera-delfino, «pretende che la parola coincida con la cosa, e diffida di ogni astrazione che non sia supportata dalla (sua) esperienza. L'adesione al sistema verbale con cui si esprime è totale, segno inequivocabile della sua sintonia con il mondo premoderno da cui proviene».

 

Il rapporto tra traduzione e tradimento è strettissimo e si lega alla necessità di ricostruire e risemantizzare. Dice ancora Biagi:

 

Tutti i personaggi di Horcynus Orca sono ossessionati dalla necessità di tradurre in parole, in racconto, la loro esperienza [...] e tutti i personaggi si trovano di conseguenza ad avere con la lingua una relazione fuori misura: [...] devono riuscire a esprimere l'esperienza senza tradirla (cioè senza chiamare "delfino" la "fera"), ma allo stesso tempo facendosi intendere.

 

I personaggi reinterpretano e rimotivano costantemente le parole e D'Arrigo si assicura che anche i lettori apprendano lo stesso meccanismo per comprendere pienamente la lingua dell'opera.

 

Il processo di «onomaturgia darrighiana», secondo la celebre definizione di Gualberto Alvino, investe anche il titolo dell'opera: D'Arrigo riprende infatti la definizione scientifica dell'orca elaborata da Linneo, ovvero Orcinus orca, aggiungendo una "H" e una "Y" con un intento straniante legato secondo Anna Infanti ad alcune teorie alchemiche. La parola è dunque straviata sin dal titolo, è portata fuori strada, customizzata, ri-plasmata ad hoc per ogni personaggio e situazione.

 

I meccanismi dello sperimentalismo di Stefano D'Arrigo riguardano ogni ambito della lingua e sono di molteplice natura. Come accennato sopra, numerose sono le trascrizioni di pronunce "italianizzate" di parole straniere; lo stesso meccanismo si ha per le parole siciliane o italiane, che vengono rispettivamente "italianizzate" e "sicilianizzate". Lo scrittore messinese cura attentamente la fonetica e utilizza molte onomatopee, spesso tratte dal siciliano, e ne conia anche di nuove, come ad esempio "nfunfù nfunfù", che sta a indicare il movimento dei macchinari avvolti dai fumi nelle sale macchine dei ferribò. Spesso D'Arrigo non utilizza segni grafici per indicare neologismi o parole straviate: ciò non è da interpretare tanto come una volontà straniante nei confronti del lettore quanto piuttosto come una spinta verso la "normalizzazione" dei nuovi termini introdotti in modo da permettere al lettore di entrare più in fretta in sintonia con essi.

 

A livello sintattico è interessante sottolineare come nel passaggio tra la redazione del libro intitolata I fatti della fera e Horcynus Orca non siano solamente intercorsi circa quindici anni di correzione di bozze, ma anche quindici anni di ampliamento. "I fatti" restano sostanzialmente gli stessi, la trama è la stessa, ma tutto è narrato in modo molto più prolisso, ampio e dettagliato. Francesca La Forgia fa notare bene questo procedimento nel suo saggio Note sull'espansione sintattica dalla «Fera» a «Horcynus Orca», nel quale afferma che il meccanismo adoperato «è quello della dilatazione sintattica, attuata attraverso l'iterazione di sintagmi e formule che strutturano il romanzo a breve e a lunga distanza fino ad articolarne profondamente la narrazione».

 

D'Arrigo stravolge la struttura delle parole scomponendole, assemblandole e plasmandole ex novo: vengono messi in atto processi di univerbazione e agglutinazione attraverso i quali nascono moltissimi neologismi d'autore, tra cui "nuovolare", che unisce "nuotare" e "volare", "orcinuso", aggettivo che «vuol dire [...] animale mortifero», e "orcaferone" da "orca" e "fera" con il suffisso accrescitivo "-one".

 

Quanto alla semantica, diverse sono le modalità e le strategie individuabili, prima tra tutte il ricorso all'etimologia, che se da un lato si esplicita nella ricostruzione del significato arcaico e originario delle parole, dall'altro rivela in Horcynus Orca un aspetto seminascosto ma costantemente presente, ossia quello dell'auto-parodia, del distacco, della finzione; ciò fa sì che il versante puramente etimologico viri verso quello paretimologico o dell'etimologia popolare, dove «l'abbondanza quasi ossessiva di echi, di risonanze giocate sulle radici delle parole si rivela infatti più spesso pretesto per nuovi innesti di significato che non effettiva ricerca di un senso deducibile dall'etimo» così che – seguendo ancora le parole di Biagi – l'operazione di reinterpretazione, anziché svelare «l'origine segreta delle parole, presunta portatrice di verità profonda, ne mette in luce l'origine presunta, difende la pista falsa.». Nei meccanismi dell'etimologia popolare risiede la forza innovatrice della lingua horcynusa, che nel suo caleidoscopico intreccio di parlate, gerghi, lingue e dialetti si configura come un organismo in crescita costante.

 

Si legge in Orche e altri relitti di «come la paretimologia non venga utilizzata soltanto in funzione mimetica, per una caratterizzazione linguistica, ma sia la base di un più profondo processo cognitivo che prevede, e anzi sfrutta artisticamente, le sovrainterpretazioni del lettore non dialettofono.». Un esempio valido a dimostrare questa tesi è l'utilizzo dell'aggettivo "'ntartarato" con cui l'anziana femminota Jacoma apostrofa 'Ndrja durante il loro incontro. I significati attribuibili a questo termine sono molteplici, sia su base dialettofona che italofona, e tenendo presente la consapevolezza di D'Arrigo nella scelta dei termini adoperati si può a ragione affermare che tali significati siano tutti validi. Si esaminino le varie sfumature dell'aggettivo: in diversi dialetti "'ntartarato" vuol dire "sporco", "infangato": esattamente la condizione di 'Ndrja quando incontra le femminote; valutando un'accezione colta e classicheggiante si può inoltre ipotizzare un riferimento al Tartaro o più comunemente all'Inferno; prendendo al contrario in considerazione un'interpretazione popolare si può pensare al tartaro dei denti e per sineddoche a una figura "incrostata" in quanto abbigliata con dei vestiti secchi e rappresi, quali dovevano essere quelli indossati da 'Ndrja, che non possedeva un cambio da portare con sé; infine, si pensi ai tartari come popolo e alla concezione che di essi poteva avere una femminota: tartaro come qualcuno proveniente da un luogo lontano e che pare essere stato "reso tartaro" a seguito di un processo (si noti il suffisso "-ato") o, considerando l'accezione negativa, "tartaro" come "predone", "nemico", "pirata". Nessuna di queste interpretazioni può univocamente sciogliere "ntartarato"; tutte restano contemporaneamente valide.

 

All'etimologia popolare fanno riferimento una serie di strategie messe in atto da D'Arrigo, da ricordare mediante opportuni esempi: innanzitutto la paronomasia, che si ritrova nel trinomio "arca-varca-vara", utilizzato dallo scrittore per creare un'immagine intensa e cruda legata alla disperazione dei pescatori ridotti in miseria: la varca ("barca" in siciliano) potrebbe essere un'arca, ossia un mezzo di salvezza (si noti il riferimento biblico all'arca di Mosè) per i pellisquadre, che vivono di pesca ma per la distruzione della guerra non hanno più barche; per le femminote, che necessitano dei ferribò per attraversare lo stretto e svolgere i loro traffici; per 'Ndrja, che di una barca ha bisogno per tornare a Cariddi. La varca potrebbe essere arca ma non lo è: è diventata una vara ("bara" in siciliano) contenente i corpi dei soldati morti e mandata a largo per nascondere un eccidio. Questa è la storia narrata dal pescatore costretto a spacciare la fera per tonno, la storia dei molti pellisquadre sopraffatti dagli effetti della guerra.

 

Altri due meccanismi relativi all'etimologia popolare sono l'uso di soprannomi, che quasi sempre diventano nomi di fatto, e l'uso di nomi parlanti. Tra i soprannomi, due dei più significativi sono "Facciatagliata", usato per descrivere Jacoma, un'anziana femminota il cui volto è solcato da profonde rughe, e "Mosè", che nell'indicare 'Ndrja Cambrìa amplifica la portata della sua avventura mettendola in relazione con la biblica traversata del Mar Rosso. Bisogna inoltre ricordare che diversi personaggi vengono chiamati con i nomi dei loro paesi di provenienza: così è per "Portempedocle" e "Boccadopa", due compagni di viaggio di 'Ndrja.

 

Infine, il più emblematico dei nomi parlanti: Ciccina Circé. Donna estremamente seducente ed enigmatica, il suo è un personaggio in cui si incrociano diverse figure letterarie: ella non solo è traghettatrice di anime come Caronte e giudice a guardia dell'Inferno come Minosse, ma anche maga come la Circe di Omero e come l'Alcina di Ariosto. Ciccina Circé è la guida della traversata notturna di 'Ndrja, la donna che egli scopre di amare con una passione estranea al codice di valori a lui noto ma più vicina «alla verità delle cose». Ella è l'unico personaggio del romanzo cui 'Ndrja riveli parte della sua storia e dei traumi legati alla guerra. Le sfumature del legame che i due intrecciano affiorano nel nome di lei: Ciccina, cioè "Franceschina", un diminutivo affettuoso che non esclude un riferimento alla Francesca di Dante, e Circé, "Circe", la maga seduttrice, la femme fatale inafferrabile la cui voce 'Ndrja continuerà a sentire fino alla fine della storia.

 

In Horcynus Orca esistere vuol dire tirar fuori la voce, parlare, raccontare la propria storia per elaborare il lutto e il dolore causato dalla guerra. La lingua è un atto di resistenza, una ribellione contro le ceneri del conflitto e contro la condanna della carestia. Chi non parla, chi non racconta non può ricominciare a vivere né reintegrarsi nel suo vecchio microcosmo. La forza motrice della lingua determina il destino dei personaggi e il potere rigeneratore delle parole contro il silenzio costituisce il discrimine che separa chi dopo la guerra torna alla vita e chi rimane tra le macerie.

 

 

Per saperne di più:

Stefano D'Arrigo, Horcynus Orca (1975), Milano, BUR Rizzoli, 2017, introduzione di W. Pedullà; Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D'Arrigo, Macerata, Quodlibet, 2017; Francesca Gatta (a cura di), Il mare di sangue pestato. Studi su Stefano D'Arrigo, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2002; Gualberto Alvino, Onomaturgia darrighiana. Nuova edizione riveduta e corretta, «Letteratura e dialetti», 5, 2012, pp. 107-136.

 

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