Si legge nell’ Iconologia di Cesare Ripa, un repertorio di allegorie allestito tra Cinquecento e Seicento, che la paura è «Donna con faccia picciola e […] starà in atto di fuggire con spavento e con le mani alzate in alto; averà i capelli drizzati […] et alle spalle vi sarà un mostro spaventevole». Essa trova un’incarnazione nel contesto relazionale che le dà motivo di esistere: non si può prescindere dal dettaglio del «mostro spaventevole» alle sue spalle per il semplice fatto che, senza di esso, la paura non prenderebbe forma. Ma se a provare paura fosse il mostro, colui cioè che costringe a «fuggire» con i «capelli drizzati» le sue vittime? Come cambierebbe la scena tratteggiata dal Ripa? Quali sarebbero le conseguenze sui suoi personaggi e sui rapporti che li legano? Queste domande impongono i Promessi sposi di Alessandro Manzoni, di cui ricordiamo l’ambientazione secentesca: a questi interrogativi il presente articolo si propone, timidamente, di rispondere – senza l’ambizione di estendere la sua tesi a testi diversi da quello su cui si fonda. Nel quale, del resto, gli esempi di questo schema non mancano: anzi, si affollano a formare una costante.
Tutta l’opera di Manzoni è attraversata da una profonda riflessione sul male: nella forma del romanzo essa si sviluppa nell’arte del ritratto – un ritratto sempre narrativo, solidale con lo sguardo e l’azione dell’Altro. Perciò i Promessi sposi non sono soltanto la storia di povera gente perseguitata dalla ferocia dei potenti e premiata finalmente dalla giustizia del Potentissimo; ma anche la vicenda di un’umanità spietata il cui dramma è tanto più profondo quanto più ampio è l’arco della sua conversione. Ogni lettore del romanzo porta con sé, nella memoria, una selva oscura di antagonisti – e tutti i più memorabili tra questi hanno vissuto una profonda esperienza della paura. I più feroci persecutori ne sono perseguitati, eppure non rinunciano a farne la più violenta delle loro armi. L’importanza dell’uomo e della legge si misura sulla scala della paura che l’uno e l’altra sono in grado di incutere nel prossimo : e tutto il sistema di iniquità che Manzoni rintraccia nel Seicento lombardo di dominazione spagnola si potrebbe spiegare come un attrito tra due diversi latori di paura. Nel corso della commedia degli equivoci che intercorre tra l’Azzeccagarbugli e Renzo nel terzo capitolo del romanzo l’avvocato dice, descrivendo una carta del suo ufficio, «“grida fresca; son quelle che fanno più paura”».
Ma le gride non vengono applicate; il potere terroristico della legge è superato da quello degli individui; maggiore è il grado di paura in cui sanno gettare il prossimo, maggiore l’implacabilità del loro arbitrio divenuto legge. Perciò Don Abbondio, «fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui». Nel mondo cruento in cui si muovono Renzo e Lucia il potere produce strumenti di terrore, e il terrore domina l’esercizio del potere. Nasce così un meccanismo di tirannia progressiva degli antagonisti che stringe gli altri personaggi nelle spire di un controllo al quale si fugge soltanto rinunciando allo strumento d’oppressione: la paura. Don Abbondio, che «non era nato con un cuor di leone», non ce la fa – perciò accetta passivamente la paura dell’altro come principio di condotta fino a renderla strumento di oppressione di sé stesso. Il curato è la prima vittima di questo dominio, che lo trasforma a sua volta in un anello della catena degli oppressori di Renzo e Lucia: non v’è dubbio che si debba ascrivere al catalogo degli antagonisti. Perciò tutta la differenza che separa l’antagonista Don Abbondio dall’aiutante Fra Cristoforo si gioca sui toni della paura: il secondo soccorre i poveri protagonisti perché s’è liberato dalle catene del terrore; nessun signore ha potere su di lui, se non Dio. Così quando nel sesto capitolo si scontra con Don Rodrigo, che gli chiede: «“Come parli, frate?...”» egli può rispondere: «“Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura”». Liberato dalla paura, egli è libero dal male; timorato di Dio, egli cerca il bene.
Viceversa, stretto nella morsa della paura degli uomini, Don Abbondio trascura il timore di Dio, che risponde alla moralità, per abbracciare il terrore della violenza, che risponde alla forza. Questa è il «mostro spaventevole», per riprendere le parole di Ripa, che Don Abbondio ha alle spalle: essa lo rende un nemico di Renzo e Lucia, ossia un avversario della giustizia sulla terra. È anche tramite il ritratto di uomo pavido che Manzoni, con il cinismo di un demiurgo, denuncia nel curato la mancanza di una vera fede.
I due concetti, infatti, non vanno separati. La paura di Don Abbondio è tanto più gretta quanto più suscitata da fatti di nessuna importanza oltremondana, sorda al dovere e cieca alla carità: è ideologicamente la più grave tra quelle provate dagli antagonisti del romanzo, perché non risponde a nessun richiamo della morale cristiana. Le si può associare, e soltanto in parte, quella di Gertrude , un’altra celebre antagonista del romanzo manzoniano. Tutta la storia della sua monacazione, narrata con un’analessi che occupa il nono e il decimo capitolo dei Promessi sposi , è il racconto della più spietata tirannia della paura: l’apice, fuor di dubbio, della ferocia cantata in tutto il romanzo. Gertrude, figura d’assassina e di sciagurata, è stata forgiata nel terrore . Sistematica è l’oppressione operata dal Principe padre con l’ipocrisia dell’affetto e l’arma della colpa, con una determinazione implacabile e soprattutto l’uso violento del silenzio, della reticenza che induce paura e vergogna («scossa dal timore, preparata dalla vergogna»). Egli assume i contorni di un vero e proprio Dio maligno – finché a lui, taciturno e onnipresente come Dio, «Gertrude […] si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: “perdono!”». La paura della monaca di Monza è quanto mai lontana dal principio del “quieto vivere” di Don Abbondio: anzi, lo ripugna; è priva, poi, del calcolo e dello scrupolo grottesco di quella del curato. Tuttavia è parimenti improntata al rispetto di un principio di immoralità: non soltanto al dominio della forza, ma anche a quello di un Dio perverso e contraffatto, in grado di sovvertire ogni ordine morale. Il «mostro spaventevole» alle spalle di Gertrude è senza dubbio il Principe de Leiva; eppure ella stessa non rinuncerà a suscitare terrore. Né Gertrude né Don Abbondio varcano, attraverso l’esperienza della paura, la soglia di un’autentica conversione. Il che accade, invece, nel caso degli antagonisti più indipendenti della diegesi manzoniana: vale a dire, nel caso dei più deliberatamente violenti, degli individui più cupi del suo mondo – perché diverso è il «mostro» alle loro spalle.
Non possiamo perciò esimerci dal trattare la paura dell’Innominato : tanto più profonda, quanto più è ampia l’evoluzione del personaggio. Non per nulla tutto il capitolo ventesimo, prima della notte in cui si consuma la conversione del «selvaggio signore», prima anche che arrivi nel «castellaccio» Lucia, è improntato al tema della paura. Mentre la povera popolana, rapita a Monza con la complicità di Gertrude dai bravi dell’Innominato, viene trasportata in carrozza al castello di quest’ultimo, il Nibbio si raccomanda «di non farle paura». Le ripete più volte, poi, di non temere; e quando, nel capitolo seguente, dovrà riferire al suo signore quanto compiuto, egli ammetterà: «“M’ha fatto troppa compassione. […] Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo”». L’affermazione è fondamentale, ai fini del nostro discorso, per almeno due ragioni: per la straordinarietà dell’effetto prodotto dalla vista di Lucia e per il ricorso alla nozione di paura. Entrambi gli aspetti illuminano la figura dell’Innominato.
Il primo è espresso già nei pensieri con cui questi, insolitamente malsicuro, reagisce alla confessione del Nibbio: «“Un qualche demonio ha costei dalla sua […] Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più […] Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perchè… perchè ho promesso: e ho promesso perchè… è il mio destino”». L’Innominato non vuole avere a che fare con Lucia, desidera che se ne vada subito; in una parola, la teme. Non trova più una ragione per cui avrebbe dovuto promettere quel crimine, se non il suo destino; vale a dire, il riconoscimento di un passato votato al culto del male. Per questo teme Lucia come la teme Don Rodrigo, senza confessarselo, quando decide di rapirla: lo intuisce il conte Attilio, suo cugino, notando l’inquietudine troppo zelante del signorotto: «“Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno nè anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura […] Sapete, cugino,” disse guardandolo, meravigliato, “sapete che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà”».
Allo stesso modo Lucia, «“pulcin bagnato”» latore di un messaggio di purezza morale che Manzoni conduce fin dentro il «nido insanguinato» dell’«aquila», incute paura all’Innominato. Colui che nel Fermo e Lucia è definito «“Quell’uomo senza paura che fa paura a tutti”» diventa infine la vittima del terrore di sé stesso, del suo passato votato alla ferocia del peccato, non appena intravede, e nel viso di Lucia vede, l’altezza e la possibilità del bene. Non appena, cioè, ha l’occasione di parlare con Federigo Borromeo, vincitore della paura come lo era stato Cristoforo. L’Innominato, viceversa, è un vinto: e questa sconfitta, poiché è inflitta da un giusto terrore, perché è determinata dalla visione di un nuovo «destino» e dal pentimento più autentico – giacché insomma non è come quella di Don Abbondio o di Gertrude –, prelude alla sua salvezza . A confermarlo sono i membri della sua corte, dopo la conversione: «Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca […] se mille volte se n’eran fatti beffe, non era già perché non le credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a pensarci sul serio. E ora, a veder l’effetto di quella paura in un animo come quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se n’attaccasse, almeno per qualche tempo». A guardar bene, dunque, i due aspetti della risposta del Nibbio sono strettamente collegati: la vista di Lucia, così indifesa, incute paura nell’Innominato; la paura lo condanna a constatare la disumanità del suo passato; così, lo salva. Diceva del suo rapitore a Don Abbondio, nel Fermo e Lucia (tomo 3, cap. 2), la povera ragazza: «“ho paura di lui: ho paura”»; nei Promessi sposi , invece, rinuncia a questa espressione per elevarsi senza la zavorra del peccato sul mondo circostante, con l’effetto di illuminarlo di una luce dietro cui si possano allungare le ombre di personaggi, finalmente, umani. Antagonisti in cui del «mostro spaventevole» del Ripa non v’è più traccia, che si dispongono a diventare uomini trafitti dal peccato, dal dolore e dal dolore del peccato: come noi, come tutti.
Per saperne di più :
Consigliata è l’edizione interlineare del romanzo a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 1971, che riporta sia il testo della “ventisettana” sia quello della “quarantana”; parimenti consigliata per il Fermo e Lucia l’edizione Caretti del 1971. Dello stesso studioso, per quanto datato, sempre interessante e di piacevole lettura per un’introduzione all’opera di Manzoni è Lanfranco Caretti, Manzoni. Ideologia e stile , Torino, Einaudi, 1971. Una storica antologia critica di stampo divulgativo sui Promessi sposi è poi Motivi e personaggi dei «Promessi sposi» , a c. di Sarino A. Costa e Giuseppe Mavaro, Firenze, Le Monnier, 1968.