Leenhardt, osservando la società come luogo del consumo letterario e come soggetto della creazione artistica, afferma che è impossibile una distinzione rigorosa tra le due parti: il consumo, infatti, essendo la fase finale di un processo, prevede una produzione ad esso finalizzata. Partendo da questo presupposto, è interessante analizzare come venga “consumato” un particolare fenomeno letterario in una società diversa da quella che lo ha prodotto: è questo il caso del petrarchismo in Spagna.

Se prendiamo in considerazione un’analisi critica di questo movimento nel senso più ampio, però, è possibile notare come questo manchi di una definizione chiara e regolare; nota Klaus Hempfer che il significato del termine “petrarchismo” sembra essere così chiaro, nella sempre più ampia letteratura al riguardo, da rendere raro il tentativo di precisare il concetto che rappresenta. A sostegno di questa tesi, cita nel capitolo Per una definizione del petrarchismo alcune ammissioni di difficoltà e sfortunati tentativi di esplicazione. Fra i primi a corroborare l’idea di partenza, Baldacci lo chiama «fenomeno letterario di ancora oggi incerta definizione», mentre Hoffmeister, più scoraggiato, si dice «quasi senza speranza di trovare una definizione calzante»; tra i secondi, invece, l’autore del saggio rintraccia alcune mancanze di chiarezza: a Ernest H. Wilkins critica due affermazioni in particolare. La prima, di petrarchismo rinascimentale, per la quale «the writing of lyric verse under the direct or indirect influence of Petrarch in a period beginning in his lifetime and ending about 1600», è contestata per la sua portata troppo ristretta: il Rinascimento è infatti ricco di risonanze del Petrarca al di fuori della lirica (per esempio nell’epica e nel teatro, come dimostrano l’Orlando Furioso e Romeo and Juliet); la seconda, che accoppia al petrarchismo il concetto di  «productive activity in literature, art or music under the direct or indirect influence of the writings of Petrarch, the expression of admiration for him, and the study of his works and their influence» è criticata per la vaghezza di indiretto e di influsso. Questo perché, ed accade soprattutto in Francia ed Inghilterra, l’influenza proviene non direttamente dall’autore in questione, ma dai suoi tardi studiosi e rifacitori, come i membri della scuola flamboyant. Inoltre, si può classificare come poesia nata sotto l’influsso del Petrarca anche la poesia antipetrarchista, comica e parodica dello stesso. Se da un lato, quindi, un’affermazione esclude più componimenti del dovuto dalla corrente, l’altra ve ne inserisce fin troppi.

Alcuni autori, tra cui Graf, trovano il segno distintivo del petrarchismo, se non l’unico, nell’imitatio. A tal proposito, potrebbe essere utile la proposta di Hoffmeister di restringere il campo di imitazione al solo Canzoniere. Infatti, sebbene oltre  nove decimi dell’opera petrarchesca siano scritti in latino, Allodoli riscontra quanto i petrarchisti siano esclusivi imitatori dell’opera in volgare:

Curioso che i petrarchisti così platonici nei loro versi italiani diventavano […] sensuali e lubrici se poetavano in latino all’oraziana o all’ovidiana. Ariosto tiene infatti Migilla fra le braccia se scrive in latino, e molto strettamente la tiene, mentre in italiano è ‘nel dir lento e restio’, ossequioso devoto all’alta beltade.

I modelli latini sono quindi ben altri. Se prendiamo come punto fermo l’imitazione del Petrarca volgare, però, dobbiamo riconoscere che neanche questa è un blocco compatto, come dimostra l’esistenza delle sue molte varianti, che si distinguono in base alle caratteristiche dell’autore  che  suoi imitatori riprendono con più insistenza. Le prose della volgar lingua del Bembo rivestono in quest’analisi un ruolo fondamentale, essendo il risonante “incoronamento” del Petrarca come modello poetico. Come sottolinea infatti il Bigi nel suo contributo Petrarchismo ariostesco, nell’ambito del contenuto «troppa distanza rimane per questa parte fra il poeta di Laura e il cantore di Angelica e di Bradamante». Lo stesso studioso, d’altra parte, nel comparare le diverse edizioni del poema di Ariosto, prima e dopo la pubblicazione dell’opera di Bembo, del 1525, ravvisa quelle che chiama «correzioni ‘toscane’». Alla prima edizione, del 1516, vengono diminuite le forme dialettali, nel tentativo di epurare i tratti ferraresi dell’opera: scelte ascrivibili al piano lessicale, morfologico e fonologico descritto nelle Prose. Diventa quindi un’operazione essenziale distinguere il duplice ruolo del poeta come modello di lingua e come modello di poesia, se vogliamo estendere il concetto di petrarchismo a letterature in altra lingua. Tale dualità si ritrova, ad esempio, come è riportato da Vallone, nella variante napoletana del fenomeno, in cui i due aspetti «non sembrano identificarsi o convogliarsi verso uno stesso esito».

Un caso esemplare in cui si manifesta questa grande difficoltà nel riconoscere i diversi piani di imitazione del poeta di Arezzo è l’opera castigliana dell’autore toledano Garcilaso de la Vega. L’imitazione di Petrarca fa il suo ingresso nella poesia spagnola nel 1526, stando alla cronaca di Juan Boscán, quando quest’ultimo, in una conversazione con l’ambasciatore italiano Andrea Navagero, presente alle nozze del sovrano Carlo V, ricevette il consiglio di provare a scrivere in lingua castigliana i metri della poesia italiana. Boscán decise allora di dedicarsi alla composizione al itálico modo, come farà anche il compagno d’armi e di lettere di cui curerà gli scritti, Garcilaso. A quest’ultimo è riconosciuto il merito di aver consolidato la poesia italianizzante in Spagna.

L’imitatio di Petrarca presente in Garcilaso, però, è un nodo alquanto complesso da sciogliere: se, da un lato, gli appartiene la qualità di aver esaltato forme strofiche come il sonetto e la canzone, innovative per la Spagna, sulla scia dell’autore trecentesco, dall’altro la parabola dell’io lirico nella sua opera segue un tragitto incompatibile con quello del modello imitato. Con Garcilaso, infatti, si sviluppano diversi fenomeni della lingua poetica che richiamano chiaramente Petrarca: l’adozione dell’endecasillabo, verso più lungo di quelli a cui erano abituati i letterati spagnoli, avvezzi agli ottosillabi della lirica cancioneril; l’abbandono della coincidenza sintattica tra la frase ed il verso, da cui risulta un’attenuazione della rima; la riduzione a tre degli accenti ritmici, numero più basso in proporzione alle sillabe. Abbondano, quindi, come si può notare dagli studi sul poeta, i parallelismi tecnici fra Garcilaso e Petrarca, ma nonostante questo venga scelto come modello formale, l’opera spagnola presenta un’architettura semanticamente non chiara e una varietà stilistica lontana dall’originale, includendo anche egloghe ed elegie, escluse dall’opera volgare del poeta-modello. Morros spiegherebbe questa scelta con la mediazione di un più flessibile petrarchismo napoletano, ed effettivamente Garcilaso scrisse parte significativa della sua opera proprio nella città campana. Anche sul piano contenutistico è sfuggente la fedeltà all’autore da imitare: se, infatti, nell’opera di de la Vega ritroviamo immagini del locus amoenus, motivi amorosi e richiami diretti a versi e componimenti, che vanno ben oltre la sfera stilistica, rintracciando il «propósito de asimilarse no sólo los metros, sino las esencias del petrarquismo», come scrive Rafael Lapesa; non troviamo, però, caratteristiche fondamentali del Canzoniere, nessuna traccia di una travagliata tensione all’ideale cristiano, di un “dissidio” psicologico.

Una chiave di interpretazione di questo petrarchismo apparentemente intermittente è, secondo lo studioso Matteo Lefèvre, la netta distinzione che intercorre tra imitatio styli ed imitatio vitae. La differenza fra questi due aspetti è un utile strumento al momento di analizzare un’opera che voglia essere, più che una raccolta di liriche, un canzoniere di stampo petrarchista, in quanto, nelle parole di Santagata, questo è «un genere fluido, in grado di perdere e di riacquistare il proprio statuto di testo a seconda che il lettore privilegi l’autonomia dei singoli componimenti o la loro interdipendenza come componenti di un tutto». Ne è sintomo la disposizione oculata che porta Petrarca, come dimostra il suo autografo vaticano, a preferire un ordine diverso da quello cronologico più arbitrario. L’imitatio vitae s’inserisce, quindi, nell’arco narrativo che attraversa l’io lirico, stabilito dall’ordine sul quale si struttura l’opera. Molti imitatori del Canzoniere, come segnala Morros, dividono in due sezioni, in vita e in morte, le proprie opere pur di imitare il fortunato modello, anche quando la propria dama non è morta, dedicando la seconda metà di sonetti e canzoni funebri ad amici, a poeti ed anche a personaggi religiosi. Il Bembo stesso, rigido imitatore di Petrarca, adotta un simile comportamento nell’edizione del 1530 delle Rime, componendo sulla morte del fratello Carlo, di Navagero e altri; non è diverso da ciò che fa Bernardo Tasso nei suoi Amori, e persino Juan Boscán che, stabilmente sposato, dedica i componimenti funebri all’amico Garcilaso ed ai benefici scaturiti dalla morte di Cristo. A differenza di questi autori, de la Vega è sopravvissuto a Isabel Freyre, la dama portoghese che non gli si era concessa, alla quale aveva dedicato i suoi componimenti amorosi, esibendo quindi una biografia incline alla struttura del Canzoniere, il cui autore sopravvisse a Laura.

Purtroppo, anche Garcilaso è morto prematuramente, eliminando la possibilità di stabilire con certezza se avesse avuto intenzione o meno di seguire la costruzione petrarchesca, in quanto i suoi versi castigliani furono ordinati e pubblicati in Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso de la Vega nel 1543, nove anni dopo la sua morte. Quello che porta Morros a dubitare dell’ipotesi di una bipartizione è la scarsa presenza di sonetti funebri: ne rintraccia con chiarezza uno solo, il venticinquesimo, altri due, il decimo ed il ventiseiesimo, dice, potrebbero tanto esserlo quanto non esserlo. Morros sottolinea, inoltre, la mancanza di indicazioni editoriali, che in altre edizioni erano spesso presenti come pagina bianca, a segnare la suddivisione. Quello che nota Lefèvre, invece, è l’assenza di una traiettoria che guidi l’io lirico dalla presentazione della propria condizione alla preghiera finale. In questo caso è essenziale riconoscere il valore del sonetto proemiale, dal quale dipende la semantizzazione della dispositio. Mentre in Petrarca, infatti, il primo sonetto ha valore introduttivo a partire dal «voi» rivolto al pubblico ideale, che ascolta le «rime sparse», con cui enuncia i temi dell’opera, il primo sonetto di Garcilaso, invece, non ha chiari destinatari, appare, anzi, stando alle scansioni temporali, come una riflessione personale in corso, che potrebbe inserirsi in diversi momenti dell’io lirico, non a posteriori come dovrebbe essere per conferirgli valore proemiale. L’itinerario dal prologo differente ha, inevitabilmente, differente epilogo. La canzone conclusiva del Canzoniere è il punto a cui tende l’intera struttura, la preghiera, la religiosa invocazione finale alla «pace» di cultura cristiana medievale, contrariamente al mitologico aldilà della finale terza egloga in cui Garcilaso dà valore di classico all’amore fra il suo alter ego, Nemoroso, e la sua ninfa Elisa, platonica personificazione di Isabel.

Sembrerebbe, in conclusione, che Petrarca abbia posto le basi per una poesia così geograficamente e cronologicamente vasta, da non poterne essere neppure lui il centro indiscusso, ma guadagnando per secoli e in varie nazioni, coi suoi versi, il ruolo non di semplice maestro, ma di sinonimo della poesia, anche quando da entrambi ci si allontana.

Per saperne di più:

De la Vega, Garcilaso, Poesía castellana completa, a cura di C. Burell, Madrid, Cátedra, 2011.

Fernández, Mosquera Santiago, El cancionero : una estructura dispositiva para la lírica del Siglo de Oro, «Bulletin Hispanique», 97, no. 2, 1995, pp. 465-492.

Lefèvre, Matteo, Garcilaso vs. Petrarca. Heterodoxia Lingüística, Ética Y Hermenéutica Ante el Cancionero, «Calíope: Journal of the Society for Renaissance and Baroque Hispanic Poetry», 15, no. 2, 2009, pp. 5-31.

Petrarca, Francesco, Le rime, a cura di G. Carducci & S. Ferrari, Firenze, Sansoni Editore, 1978.

Wilkins, Ernest Hatch, A general survey of renaissance petrarchism, «Comparative Literature», 2, no. 4, 1950, pp. 327-342.

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