A partire dagli anni ’70 del Novecento, mentre si presentano nuovi movimenti letterari (tra questi, sicuramente la poesia performativa del festival di Fiumalbo oppure, in ambito più internazionale, la poesia pubblica di Alain Arias-Misson) e vengono creati metri inediti per il racconto poetico, in Italia riemerge la forma del sonetto, emblema della lirica italiana sin dal lontano Trecento. Benché ognuno lo rielabori e interpreti a modo proprio e secondo l’uso, un simile schema metrico, semplice e diretto nelle sue due terzine e due quartine, diventa un modello della poesia italiana del XIX secolo. Di norma, una tale ripresa della forma avrebbe implicato solo un chiaro mettersi in rapporto con la tradizione classica nonché con l’esperienza di Francesco Petrarca (1304-1374); in questo specifico caso, invece, finisce per determinarne l’inserimento in un circuito mai interrotto e che percorre a balzi alterni tutta la storia della letteratura italiana: si pensi, per esempio, ai petrarchisti del Cinquecento come Gaspara Stampa o Michelangelo Buonarroti, a Giacomo Leopardi nell’Ottocento o ancora ai “petrarchisti dell’Ermetismo”, cioè Eugenio Montale o Mario Luzi, durante il Novecento.

Seppure il recupero della forma sia evidente, interessa qui capire in quali modi e con quali contenuti si riflette e riverbera il sonetto nel corso del Novecento. Non poche sono le esperienze poetiche a cui poter fare riferimento, partendo da chi, come Giorgio Caproni (1912-1990), vi opta sin da subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale affinché, come afferma in L'opera in versi (1998), la sua poesia possa fungere da «un qualsiasi tetto all’intima dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo d’istituzioni e miti sopravvissuti ma ormai svuotati e sbugiardati e quindi di tutta una generazione d’uomini che, nata dalla guerra […], nello sfacelo dell’ultimo conflitto mondiale doveva veder conclusa la propria […] giovinezza». Diversamente, al di là dei confini nazionali, un altro poeta, Blas de Otero (1916-1979), mira più semplicemente ad esplorare la realtà per mezzo di una nuova struttura metrica. Da eccellente produttore di sonetti, non a caso, l’autore spagnolo si diletta nel comporre versi liberi: ne troviamo un esempio in Facciamo sì che il sonetto si diffonda (1997, traduzione nostra), dove, proprio sul finire, annuncia l’interruzione della composizione perché il telefono squilla, deve alzarsi e non può più completarla:

«Facciamo sì che il sonetto si diffonda, respiri come un mare senza riva,__l’endecasillabo è consumato, sgozzato, morso come quella mia lettera agli dei,diamo spazio, elasticità al sonetto e all’endecasillabo.[...]__Parliamo della solitudine dell’uomo,__gli angoli che tacciono come morti in piedi,__e ora il telefono squilla e mi alzo e finisco.»

Altro caso ancora è quello del comparatista e traduttore neo-metrico Gabriele Frasca (1957-), il quale, per una maggiore musicalità, compone una serie di poesie in metrica petrarchesca. In Rimarrà Mario (1995), ad esempio, melodicamente e metricamente perfetto già dai suoi primi versi («questo tuo sogno questo sogno nostro / questo tuo sogno nostro che non cede / resiste questo sogno […]»), lo schema rimico classico del sonetto è perfettamente rispettato, senza neanche servirsi della punteggiatura. Essendo una forma veramente iconica, il sonetto, per esser riconosciuto come tale, ha bisogno di davvero pochi elementi (tra gli altri, il tipo di rima o il numero dei versi): il rapporto al modello diventa, dunque, immanente, seppur talvolta allusivo.

Su una scia altra, quella del rimodellamento, si pone invece Edoardo Sanguineti (1930-2010) che, volendo – per esempio – utilizzare le forme classiche per generare lo straniamento nel lettore, compone un particolare Erotosonetto (1992), il cui acrostico risulta essere “Sanguineti amat”:

«Se sa sedurti soltanto un sonetto,__Archetipo d’amaro amore assente,__Nasconderò nei tuoi nomi il mio niente,__Golfo mio, mia girandola, mio ghetto:__Umiliato unicorno, unico e urgente,__Inciderò in te impronte, intimo insetto,__Nodo dei nodi, nudo nervosetto,__Enfasi estrema, epigramma emergente:__Tenera in tutto, torre di tormenti,__Infarcito mio infarto, idolo, inferno,__Apriti a me, tu, aurora di aghi ardenti:__Muta medusa, muscolo materno,__Ascoltami, arida aspide, e acconsenti:__Tremo con te, tremendo, tardo terno.»

Il filone sanguinettano viene poi seguito e condiviso – non senza sorpresa – anche da altri letterati: si veda, ad esempio, Fosco Maraini (1912-2004) con le sue Gnosi delle fanfole (1994), una raccolta poetica di sonetti (un esempio dimostrativo, tra gli altri, è Il lonfo, interpretato da diverse personalità nel corso del tempo, di seguito citato) che non significano nulla ma che presentano esilaranti gruppi fonici, o l’Ouvroir de Littérature Potentielle (OuLiPo) che invece propone di cambiare una lettera in tutte le parole di un qualunque romanzo con un’altra solo per il gusto di vedere (e sentire, ovviamente) l’effetto che se ne produce.

«Il lonfo non vaterca né gluisce__e molto raramente barigatta,__ma quando soffia il bego a bisce bisce__sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.»

Esperienze più forti e strutturate si rintracciano invece in Franco Fortini (1917-1992), il quale, rifacendosi ugualmente alla forma del sonetto, si pone l’intento specifico di descrivere l’esperienza bellica iniziata nel 1941, espressa poi in modo definitivo solo con Foglio di via e altri versi (1946), la sua prima raccolta poetica della maturità. Seppur in modo simile a Caproni, si segnalano  alcune rilevanti differenze nella ripresa del sonetto: Fortini fa affidamento ad uno stupefacente bianco tipografico, attraverso cui far risaltare delle interruzioni strofiche sulla pagina stampata, servendosi anche di rime alternate o pause sintattiche e metriche; Caproni, invece, è più monostrofico, presenta pochi periodi e gioca molto con rime poco canoniche o con terzine un po’ più libere, non segnando snodi metrici per le pause e andando contro l’orizzonte di attesa acustico-fonico di colui che ascolta. Un particolare tipo di invenzione di nuove forme, ispirata dal bisogno di cambiare una struttura già vecchia per parlare del presente, si può trovare per esempio in Considero errore (1994), ove si riferisce agli «eventi del [...] ’91», quelli cioè della Guerra del Golfo, a cui presto dedicherà anche una serie di Sette canzonette del Golfo dal gusto comico.

«I versi comici, i temi comici o ridicoli__mi parvero sola risposta. Come sbagliavo!__Ho guastato quei mesi a limare sonetti, a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.»

In linea con una tale riverniciatura del metro è anche Andrea Zanzotto (1921-2011), cuore poetico e pulsante del Novecento presso cui, al pari dei cosiddetti “ultimi poeti” (Giovanni Giudici e Giovanni Raboni), si può riscontrare una uguale grande passione per il sonetto e per i suoi vari caratteri intimi. Nella sua opera intitolata Il Galateo in Bosco (1978), il richiamo alla tradizione è addirittura duplice, avendo il poeta non solo pensato l’opera come inserita in una trilogia (insieme a Fosfeni del 1983 e Idioma del 1986), ma volendo anche ambientarla in tre diversi contesti geografici (dal sud al nord delle Dolomiti, passando per il centro). Egli non vuole essere né difficile né oscuro o poco chiaro, sebbene, in fondo, sia costretto ad esserlo almeno un po' per via della complessità della realtà in cui vive. L’autore è – soprattutto per questo – sempre presente, sin dall’atto della scrittura stessa, al fine di guidare il suo lettore, regalargli note (talvolta anche banali) per ulteriori spiegazioni o dargli informazioni in più. Tra gli altri, un testo emblematico è Sonetto di stragi e di costumi (III), intitolato prima Sonetto del galateo in bosco per la sua funzione programmatica ed esplicativa della raccolta, che adotta un riferimento ossimorico tra il galateo («costumi») e il bosco («stragi»). Questo modo di descrivere le cose è tipico di Zanzotto per due ordini di motivi: in primis, se ne può rintracciare un altro esempio anche e già nel titolo complessivo dell’opera (per l’appunto, Galateo in bosco); in secundis, perché definisce il sonetto – sempre in maniera ossimorica – come «infamia e mandala» in Sonetto infamia e mandala.

«Falso pur io, clone di tanto falso,__od aborto, e peggiore in ciò del padre,__accalco detti in fatto ovver misfatto:__così ancora di te mi sono avvalso,__di te sonetto, righe infami e ladre -__mandala in cui di frusto in frusto accatto.»

In un anno piuttosto prolifico, cioè nel 1986, quando escono i sonetti di Nanni Balestrini (1935-2019) o La puntura dell’assillo di Edoardo Cacciatore (1912-1996), si colloca anche Salutz di Giovanni Giudici (1924-2011), una raccolta di componimenti rigorosamente disposti in ordine cronologico e raggruppati in 7 sezioni, ognuna delle quali costituita da 10 componimenti d’amore, per un totale di circa 1.000 versi. Protagonista, come si ravvisa nel primo componimento di seguito riportato, è una donna menzionata come “Minne” e “Midons”, cioè con due specifici senhals provenzali e germanici di provenienza trobadorica, tramite cui il poeta tenta di attuare una certa ricercatezza dei sensi anche a livello linguistico. Partendo dalla struttura generale, tutto appare molto studiato anche nella fucina del testo: predilige sempre l’iniziale maiuscola e non si riscontrano particolari segni di interpunzione all’infuori del trattino che, invece, diventa il più diffuso nel testo. Rifacendosi per alcuni studiosi allo stile del trobar clus del XII secolo, il canzoniere si presenta molto complesso anche circa il lessico, piuttosto ristretto o segnato da talune particolari inversioni, e anche da un punto di vista tematico con un fortissimo richiamo alla tradizione del Due-Trecento di Dante e Petrarca. In generale, per quanto i testi siano avvicinabili al sonetto, Giudici parla semplicemente di poesia per tenere basso il suo profilo e per non etichettare il suo prodotto come poeticamente alto.

«Minne Midons__E ogni altra cura lasciata__Esploro volumi__Alcuno che racconti»

In modo ancora diverso dai precedenti, per concludere, Giovanni Raboni (1932-2004) giunge alla forma chiusa con Versi guerrieri e amorosi del 1990, contenuti nella sezione Reliquie arnaldine, dopo Canzonette mortali (1986) e prima di Ogni terzo pensiero (1993). Scopre la forma chiusa anche per il tramite della poetessa Patrizia Valduga a cui si lega sentimentalmente nei primi anni ’70, sebbene riconosca un debito enorme nei confronti di Giudici. Pur continuandolo a mettere in discussione per via della lingua, della maniera o ancora degli accenti, il sonetto, rigorosamente composto da endecasillabi, diventa la sua forma prediletta di scrittura, caratterizzata da uno stile dal sapore prosastico e quotidiano. L’apice viene raggiunto, però, solo nel 1998 con la pubblicazione di Quare tristis, recensito presto detto da Giudici, a cui Raboni aveva – tra l’altro – scritto la prefazione del Salutz. Al di là della forma stessa, tra le altre caratteristiche, si segnalano di seguito alcuni riferimenti a Dante riscontrabili in Sonetto VIII: oltre al richiamo del centauro Nesso, anche qui sembra riecheggiare, come nel XXXIII canto del Paradiso, la sensazione di star uscendo da un sogno, alludendo ad un passaggio da uno stato di vita («o forse ci si strappa via con spasimo ciecamente / dalla madre per nascere»)  ad un altro di morte («passerete dalla cruna»).

«Come uno che sta sognando e sa__di sognare e nel sogno si ribella__al sogno per liberarsi di quella__camicia di forza o Nesso che già__un po’ cade, un po’ si scuce s’appella__disperamente alla potestà__dei nervi che lo catapulti là__dove trema e si inerpica la stella__del piccolo giorno o forse ci__si strappa via con spasimo ciecamente__dalla madre per nascere, così__sarà, credo, anima, la più urgente__delle volte che tu e la mente una__per volta passerete dalla cruna.»

PER SAPERNE DI PIÙ:

Per una trattazione sintetica e agile della storia della letteratura italiana (dalle nostre origini fino ai poeti e agli scrittori più contemporanei) si segnalano due volumi editi da Il Mulino nel 2014 e curati da Andrea Battistini, professore emerito dell’Università di Bologna: Letteratura italiana. I Dalle origini al Seicento e Letteratura italiana. II Dal Settecento ai nostri giorni. Invece, per una storia del sonetto (sempre dalle origini sino al Novecento) si consiglia l’opera curata dai proff. Fabio Magro e Arnaldo Soldani e pubblicata per Carocci nel 2017: Il sonetto italiano. Dalle origini a oggi.

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