Siamo soliti associare lo studio delle lingue e del linguaggio al dominio dell’astrazione. Lo spazio fisico del mondo reale, al contrario, non è immediatamente percepito come connesso ai fenomeni linguistici.

Eppure la tradizione linguistica più recente sa bene che un rapporto concreto tra lingua e mondo reale esiste. Tale rapporto si manifesta su più piani ed è oggetto di riflessione di diverse branche della linguistica; la più produttiva in questo senso è sicuramente la glottodidattica che più di altre fa propria una visione della lingua come oggetto concreto e strumento di comunicazione.

Tuttavia anche le prospettive più teoriche, maggiormente focalizzate sulla lingua in quanto sistema di regole (e che dunque analizzano la lingua secondo un’ottica più astratta rispetto a quella della glottodidattica), non possono oggi prescindere dal rapporto che le lingue instaurano con la realtà. In rapporto a tali studi, soprattutto connessi alla branca della sociolinguistica, si può dunque affermare che i parlanti modificano la lingua, anche come sistema oltre che come strumento, attraverso l’uso.

Già con queste sommarie indicazioni sarà quindi chiaro che la lingua non è qualcosa di puramente astratto, non è solo un insieme di regole da memorizzare, anzi; come ci insegna Noam Chomsky, noto linguista e fondatore delle teorie innatiste sulla genesi del linguaggio, apprendere una lingua è soprattutto un processo spontaneo, regolato da meccanismi universali e innati. Molto di ciò che sappiamo sulla nostra lingua madre, soprattutto il modo in cui la utilizziamo oralmente, non ci è stato quindi insegnato a scuola ma lo abbiamo appreso in quanto esseri umani.

Chomsky teorizza quindi che il cervello umano sia “programmato” per apprendere il linguaggio e dunque qualsiasi bambino, se opportunamente stimolato, può imparare a comunicare attraverso una lingua. È opportuno sottolineare che dunque i principi innatisti, almeno in relazione al tema dell’apprendimento del linguaggio, non entrano in contraddizione con quanto detto circa il rapporto tra lingua e uso, tra mondo astratto cui siamo soliti pensare quando si parla di lingua e mondo reale in cui le lingue sono impiegate come strumento comunicativo. Il LAD (Language Acquisition Device), cioè la facoltà innata di apprendere il linguaggio di cui parla Chomsky, può essere infatti attivata solo grazie all’interazione e quindi dagli input linguistici che il bambino riceve.

Il fatto che esista una fondamentale componente innata nell’apprendimento del linguaggio è ad oggi un’ipotesi universalmente condivisa poiché dimostrata da diversi dati. Si cita ora, a titolo esemplificativo, solo uno di questi dati, il più importante, quello relativo alla povertà dello stimolo; con questa espressione Chomsky descrive un dato oggettivo: il bambino sa produrre più espressioni linguistiche di quante ne abbia effettivamente ascoltate. In particolare, produce anche espressioni che non ha mai ascoltato, generalizzando regole linguistiche che ha implicitamente dedotto. Un bambino potrà dunque tranquillamente produrre un passato prossimo del tipo *ho diciuto piuttosto che, nella maniera corretta, ho detto, pur non avendo mai ascoltato l’input *ho diciuto. Chomsky dimostra così che la lingua non è appresa per pura imitazione, come sostenevano le precedenti teorie comportamentiste, poiché gli stimoli che il bambino riceve si dimostrano sempre troppo limitati, poveri appunto, rispetto all’intero sistema lingua che questi deve imparare. L’apprendimento sarebbe quindi soprattutto determinato dall’attivazione di specifici meccanismi cerebrali, appositamente programmati per generare connessioni linguistiche a partire da input, necessariamente limitati.

Ma quali sono questi meccanismi e come si producono? Sarebbe bello poter rispondere in maniera chiara e completa a questa domanda; purtroppo però una risposta di questo tipo non esiste e possiamo ipotizzare che non esisterà mai. Una delle poche cose che possiamo affermare con certezza riguardo alle connessioni cerebrali è che sono organizzate in maniera estremamente complessa: pensare di poterle spiegare con la stessa esattezza con cui possiamo analizzare i diversi passaggi di risoluzione di un quesito matematico è dunque impossibile.

Sarebbe però sbagliato arrendersi a tale evidenza. Il fatto che i meccanismi cerebrali alla base del linguaggio siano complessi non significa che la linguistica debba abbandonare questa strada; al contrario, la neurolinguistica ha cercato di rapportarsi a tale complessità ricavandone informazioni preziose. Grazie a tali scoperte possiamo oggi affermare con sicurezza almeno una cosa: l’organizzazione del linguaggio umano consta di una sua fisicità. Questo vuol dire che la lingua, questo concetto così astratto, si manifesta attraverso uno spazio fisico nel nostro cervello.

Le prime evidenze scientifiche in tal senso risalgono agli studi del medico francese Paul Broca. Tra 1861 e 1865 Broca seguì diversi pazienti divenuti afasici, cioè incapaci di utilizzare il linguaggio in maniera chiara, a seguito di lesioni cerebrali. In particolare, divenne noto il caso di Monsieur Leborgne, soprannominato Monsieur Tan Tan poiché il suo eloquio post lesione era limitato alla sillaba “tan”. Alla morte di Leborgne, l’autopsia permise di identificare esattamente il luogo della lesione cerebrale che ne aveva provocato l’afasia: si trattava di una piccola area nella parte infero-posteriore del lobo frontale sinistro, oggi nota come area di Broca. Il confronto con lesioni di altri pazienti afasici portò Broca ad affermare che « nous parlons avec l’hémisphère gauche ».

Successivi studi, come quelli condotti dal neurologo tedesco Karl Wernicke nel 1875, sempre su pazienti afasici, confermarono la teoria secondo cui l’emisfero sinistro appariva specializzato nell’elaborazione del linguaggio. Ancora oggi si ritiene che tale specializzazione esista ma si è più cauti nel definirla una condizione assoluta (esistono anche soggetti in cui la specializzazione è riservata all’emisfero destro) e si è soprattutto consapevoli del fatto che le nostre abilità linguistiche non dipendono solo dall’emisfero sinistro. Inoltre diversi studi su bilingui afasici hanno evidenziato che la specializzazione emisferica può anche manifestarsi in modi piuttosto diversificati o addirittura non determinarsi. In questo caso si parla di organizzazione bilaterale del linguaggio ed è qualcosa di non troppo raro nei parlanti bilingui, non a caso molto studiati anche da chi fa ricerca in ambito medico circa malattie neurodegenerative.

Il ruolo dell’emisfero destro appare però fondamentale anche per l’elaborazione linguistica in parlanti che presentano una specializzazione del linguaggio nell’emisfero sinistro (la maggior parte dei destrimani monolingui). Grazie alle tecniche di neuroimaging siamo infatti oggi in grado di localizzare le aree cerebrali che subiscono maggiore attivazione in rapporto a determinati input. Sappiamo così che esistono aree della corteccia cerebrale maggiormente coinvolte nell’elaborazione di stimoli fonologici, altre maggiormente attivate in rapporto a fenomeni lessicali, e così via.

Tali localizzazioni sono chiaramente parziali ed è universalmente condivisa l’idea che non sia possibile elaborare o produrre alcun input linguistico senza il lavoro sinergico di più aree cerebrali. Inoltre sia neurologi che neurolinguisti appaiono piuttosto cauti anche sulla fiducia da accordare ai dati ricavati dal neuroimaging. L’attivazione di determinate aree potrebbe essere un effetto di riflesso di meccanismi cerebrali più profondi che le tecnologie attuali non permettono di indagare. Per chiarire può essere utile riflettere sull’interessante metafora coniata da Andrea Moro, uno dei maggiori linguisti moderni italiani, in rapporto a questa potenziale problematica. Moro ipotizza che ad un alieno venga assegnato il compito di individuare le maggiori città italiane a partire da un unico dato: l’organizzazione della linea ferroviaria. L’alieno potrebbe quindi supporre che Voghera, nodo ferroviario strategico, sia una delle città più importanti d’Italia e che da lì si generi la maggior parte delle decisioni rispetto al nostro Paese. Moro quindi sottolinea che l’area di Broca (ma in realtà è un discorso che vale per tutte le aree specializzate individuate da neurologi e neurolinguisti) potrebbe essere la Voghera del nostro cervello e che c’è il rischio che noi, gli alieni, stiamo utilizzando un insieme di dati fuorviante per trarre conclusioni affrettate.

Nonostante la chiara legittimità di queste supposizioni, si può dunque concludere affermando, con tutte le cautele del caso, che l’organizzazione del linguaggio occupa uno spazio di realizzazione specifico nel nostro cervello. Tuttavia come tale spazio si determini è ancora oggetto di studio e discussione.

Per saperne di più:

In relazione al rapporto tra cervello e linguaggio mi sono basata soprattutto su quanto riportato da Psicologia del linguaggio di Cristina Cacciari (Il Mulino, Bologna 2011). Rispetto al tema del rapporto tra dati ricavati dalle tecniche di neuroimaging e conoscenze linguistiche invito alla visione del video-documento Che cos’è il linguaggio? (Sossella, Roma 2010) in cui è riportato integralmente l’intervento di Andrea Moro dal quale ho tratto la metafora parafrasata nell’articolo.

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