Le sirene sono delle figure mitologiche e religiose di origine greca. Omero, nel XII libro dell’Odissea, parla di tali creature presentandole come incantatrici di uomini che vivono su un’isola vicino ai mostri marini Scilla e Cariddi. Le sirene con la loro voce catturano gli uomini che, incautamente, si lasciano indurre dal piacere dell’ascolto a fermare la loro navigazione finendo per scivolare in un torpore che li porta alla morte. Per chi si lascia irretire dalle sirene, infatti, il tempo si ferma, e il ritorno dalla moglie e dai figli diventa impossibile: quando Odisseo e i suoi compagni raggiungono l’isola abitata dalle sirene, infatti, il vento si ferma e giunge la bonaccia. L’eroe e i suoi compagni, tuttavia, avvertiti precedentemente dalla maga Circe sulle precauzioni da adottare per evitare di essere incantati, riescono a superare indenni il pericolo:

«Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti / gli uomini incantano, chi arriva da loro. / A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini / gli sono vicini, felici che a casa è tornato, / ma le Sirene lo incantano con limpido canto, / adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa / di uomini putridi, con la pelle che raggrinza» (Omero, Odissea, XII, vv. 39-46).

Odisseo riempie con della cera ammorbidita le orecchie dei compagni; egli, al contrario, decide di ascoltare il loro canto, facendosi prima legare saldamente all’albero maestro della nave. La voce delle sirene è talmente irresistibile da indurlo a implorare i compagni di liberarlo dalle funi. Quelli, però, avvertiti in precedenza, si rifiutano. Il canto irresistibile delle sirene che cercano di tentare Odisseo con la promessa della conoscenza viene descritto così da Omero:

«Qui presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, / ferma la nave, la nostra voce a sentire. / Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, / se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; / poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose. / Noi tutto sappiamo, quanto all’ampia terra di Troia / Argivi e Teucri, patirono per volere dei numi; / tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice» (Omero, Odissea, XII, vv. 184-191).

Omero non descrive l’aspetto delle sirene, poiché quasi sicuramente le loro sembianze sono già note al pubblico cui si rivolge, sia perché esse sono parte del patrimonio mitico greco, sia perché compaiono in altre opere, come le Argonautiche di Apollonio Rodio, in cui tra gli Argonauti anche Orfeo, come Odisseo, grazie alla forza della sua cetra e, con il suo canto, salva i suoi compagni vincendo la voce delle sirene:

«La brezza favorevole spingeva la nave, e ben presto avvistarono / la splendida Antemoessa, isola in cui le canore sirene, / figlie dell’Acheloo, annientavano chiunque / vi approdasse, ammaliandolo coi loro dolci canti. / La bella Tersicore, una delle muse, le aveva generate / dopo essersi unita all’Acheloo; un tempo erano ancelle / della potente Deò, quando ancora era vergine, / e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte / simile a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli. / Sempre appostate su una rupe munita di buoni approdi, / avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno, / consumandoli nello struggimento. / [...] ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra / Bistonia con le sue mani, fece risuonare le note allegre, / di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono / sovrapposto della sua musica rimbobasse nelle loro / orecchie». (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, vv. 890-910).

Apollonio Rodio riprende qui la tradizione mitologica che vuole le sirene figlie di Acheloo, un dio-fiume, e della musa Tersicore; altri, invece, vogliono le sirene figlie di un’altra musa, Melpomene. Non si tratta in ogni caso di creature esclusivamente marine. Esse, infatti, non abitano il mare ma la terraferma, sia pure un’isola, e lì stanno di vedetta in attesa delle loro vittime. Il loro rapporto con il mare, inoltre, sembra essere non del tutto positivo: la leggenda vuole che esse, dopo aver fallito nella seduzione di Odisseo, si siano suicidate proprio gettandosi nel mare. Le sirene sono, inoltre, come afferma Apollonio Rodio, metà donne e metà uccelli, dai lunghi artigli. Per esprimere l’idea della pericolosità della voce e del canto, infatti, i simboli migliori da utilizzare sono proprio l'uccello, animale sonoro per eccellenza, e un volto umano capace di articolare parole. Esse, tuttavia, sono figlie di Acheloo, venerato anche come il principio di tutte le acque correnti, e per questo, oltre ad essere affini sia alla terra sia all’aria, risultano legate imprescindibilmente anche all’acqua. Sembrano anzi essere particolarmente a loro agio in quei luoghi in cui acqua e terra si mescolano.

Le sirene, come il loro padre, sono creature dalla natura indefinita, ambigua, in bilico tra forme diverse. Vengono inoltre considerate onniscienti e risultano essere connesse anche con il mondo dell’Ade. Un riferimento che indica il collegamento tra tali creature e l’Oltretomba è presente in Euripide, dove Elena, nell’omonima tragedia, le invoca:

«Voi piumate vergini / figlie della Terra, voi / Sirene invoco, ai pianti miei / venite qua, col libico / flauto o con le cetre: siano per i miei / tristi lutti, consone lacrime, / pianti per pianti, per musiche musiche» (Euripide, Elena, vv. 167-173).

Le sirene sembrano assolvere il compito di mediatrici tra il mondo umano e quello soprannaturale, ed ecco che viene così spiegata anche la loro natura ibrida di donne-uccello, che coniuga la loro umana capacità di parlare all’abilità in cui gli uccelli eccellono, ossia produrre suoni che siano in grado di incantare chi li ascolta. Solo tra la fine del VII e l’VIII secolo d. C., negli anni del passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana, le sirene sono descritte come creature dal busto di fanciulla e dalla coda squamosa di pesce, aspetto che esprime una nuova concezione del mare come elemento di transizione tra umano e soprannaturale.

Le sirene sembrano appartenere a due tradizioni differenti e contraddittorie: una le considera creature mortifere e pericolose per l’uomo, mentre l’altra come consolatrici nei momenti di lutto e morte. Tali figure hanno sempre attratto gli uomini di ogni epoca, e, anche nella contemporaneità, il loro canto continua a essere raccontato con nuove modalità, che si fanno però portatrici delle medesime istanze.

Murubutu, pseudonimo di Alessio Mariani, cantautore emiliano, nell’album “Gli ammutinati del Bouncin’ ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari”, racconta, nel brano intitolato “Le sirene”, proprio l’ambiguità delle sirene. Il testo narra la storia del buon Carlo Caravita, rimasto vedovo dopo la scomparsa in mare della moglie, «sua moglie l’ha presa il mare, è partita senza tornare / lasciandolo a cuore infranto ed il corpo che fa fatica». Il brano inizia con le parole di Carlo «Chi mi chiama? Sa il mio nome? Chi mi vuole? Dove, dove?» che sente una voce «bagnata d’aria marina, / esalata dalla battigia, sbarcata da spume d’ombre». Carlo, colpito dalla familiarità di tale voce, vuole scoprire «la foce di quelle note, che sembrano di Annarella, la voce della sua bella». Dunque, il protagonista inizia la ricerca dell’origine di quel suono che lo chiama e gli sussurra «Seguimi» ovunque, tra piazze, case, strade, vigneti, sentieri, e arriva infine di fronte al mare. È lì che Carlo vede una barca con sopra una donna estremamente somigliante a sua moglie. La sua reazione è quella di gettarsi tra le onde per raggiungerla, un’azione che lo porterà alla morte, vissuta non come un’esperienza negativa ma come una liberazione, perché lo condurrà a ritrovare la pace dopo la scomparsa della moglie. La voce che il protagonista sente è quella di una sirena che lo trae a sé, incarnando quello che più desidera: riavere la moglie morta. Nella canzone, tuttavia, la sirena non viene connotata in modo negativo, come quelle presenti nell’Odissea o nelle Argonautiche, al contrario essa è fonte di pace e consolazione, e quindi più simile alle creature invocate da Elena nell’omonima tragedia.

«Carlo sorride ai flutti, la fronte sugli occhi asciutti, le stringe la mano forte pronto per la traversata» è nel sorriso del protagonista di fronte al mare che si percepiscono il valore consolatorio di quella voce e la sensazione di pace provata da Carlo, che può finalmente lasciarsi andare.

Nella seconda parte del brano, cantata da Claver Gold, rapper marchigiano, che si immedesima nel protagonista, vengono descritte le sensazioni di Carlo che si getta nel mare: «Ora tolgo le scarpe ed accorcio la distanza / Come Giorgio de Chirico ho Ulisse in una stanza». Il riferimento al quadro di de Chirico è esemplificativo, in quanto l’artista raffigura Ulisse ai remi di una barca in un mare domestico all’interno di una stanza con la porta socchiusa: l’eroe è infatti pronto a ripartire per ottenere le risposte ad un’esistenza inquieta. Così, Carlo prende il largo per intraprendere un ultimo viaggio, per ottenere la fine di un’esistenza che senza l’amore della sua vita era per lui priva di senso. Per questo motivo, quando Claver Gold canta «Lei che mi stringe la mano, vuole portarmi lontano / Sento chiamare il mio nome da dodicimila diverse sirene» si avverte una sensazione di pace, come se le preoccupazioni e le ansie del protagonista scomparissero nella calda voce delle sirene. Alla fine della canzone viene descritta la morte del protagonista «L’acqua è già sopra il mio cranio non ho saputo schivarne il richiamo / Ora ho le gambe stanche, avrei bisogno di branchie / Non basterebbero neanche a dirti quanto ti amo». Il canto delle sirene è sì portatore di morte, ma anche di oblio e pace, e assume quella funzione consolatoria che la voce di queste creature aveva anche nell’antichità. Carlo annega nella sensualità della sirena che lo attrae con la voce della moglie scomparsa, cerca l’oblio di se stesso nel flusso del mare, andando incontro allo stesso canto da cui Odisseo un tempo era fuggito.

L’ambiguità di tali figure mitologiche, portatrici di morte ma anche di pace, legate sia alla terra sia all’acqua, esercita un fascino irresistibile sugli uomini di ogni epoca. E sono le parole pronunciate dalla sirena Lighea, protagonista dell’omonimo racconto del 1958 di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cristallizzare infine l’archetipo incarnato dalle sirene e dal loro canto: «Sono tutto. Perché sono soltanto corrente di vita priva di accidenti; sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me [...] e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma panica e quindi libera [...]. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato».

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura del libro XII dell’Odissea di Omero, Gli Dei della Grecia di Károly Kerényi, Milano, il Saggiatore, 1994, e l’ascolto della canzone Le sirene di Murubutu feat. Claver Gold.

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