Da diversi millenni i filosofi si domandano se il nostro agire sia libero o meno, lanciandosi in dibattiti che si intrecciano sia con questioni molto pratiche riguardanti, per citarne alcune, la morale, il diritto, la politica o la religione, sia con riflessioni puramente astratte, ad esempio sul modo in cui si concepiscono la realtà e la conoscenza. Infatti, nel discutere l’esistenza o meno del libero arbitrio, è necessario far fronte a domande sulla natura del nostro universo, il modo in cui è e il modo in cui si manifesta a noi, e quindi anche le condizioni sotto le quali se ne può avere conoscenza.

Negli ultimi decenni, la scienza ha contribuito in maniera sostanziale a far luce sul problema del libero arbitrio, tanto che ad oggi è impossibile impostare qualsiasi discorso a riguardo senza tener conto in qualche modo dei numerosi risultati ottenuti in ambito scientifico, specialmente nel campo delle neuroscienze. Nei prossimi paragrafi percorreremo alcune delle principali argomentazioni che usano gli scienziati per dimostrare o negare l’esistenza del libero arbitrio.

Per prima cosa è bene osservare che il punto di vista scientifico non presuppone univocamente una visione deterministica della realtà (che quindi esclude l’esistenza del libero arbitrio: se tutto è pre-determinato non può esistere l’auto-determinazione). Le leggi della meccanica quantistica, ad esempio, concepiscono una visione indeterministica dell’universo e numerosi scienziati, in effetti, se ne servono per dimostrare come esisterebbe il libero arbitrio. In secondo luogo, nonostante i metodi di ricerca avanzati attualmente in nostro possesso, non esiste una teoria scientifica sulla libertà dell’uomo che non sia duramente messa in discussione da filosofi o altri scienziati, perché in un qualche modo non riesce a rispondere in maniera esaustiva alla questione. Sembra dunque che il dibattito moderno intorno al problema del libero arbitrio differisca da quello condotto nei secoli scorsi solo per quanto riguarda i mezzi più avanzati con cui siamo in grado di indagare il comportamento umano.

Dallo studio dell’autocoscienza umana, diversi biologi, psicologi e neurologi sono arrivati a concludere che il libero arbitrio è un’illusione. Lo psicologo Daniel Wegner, ad esempio, nel suo libro The Illusion of Conscious Will, pubblicato nel 2002, descrive come, così come le azioni, anche l’esperienza della volontà cosciente è creata dal nostro cervello e non è niente di più che uno strumento che «aiuta ad apprezzare e ricordare la paternità delle cose che fanno la nostra mente e il nostro corpo» e che «serve da guida per comprendere meglio noi stessi e per sviluppare un senso di responsabilità e moralità».

Un punto di vista simile è preso da Antony Cashmore, professore di Biologia all'Università della Pennsylvania, il quale afferma che la convinzione di essere liberi deriva dal fatto che siamo consapevoli del nostro agire e dunque crediamo di esserne autori. Secondo Cashmore la consapevolezza è stata un vantaggio evolutivo, poiché forniva all’uomo l’illusione di essere responsabile delle proprie azioni. La sua visione del mondo è radicalmente deterministica: la nostra mente, come ogni sistema biologico, obbedisce alle leggi della chimica e della fisica, ed è chiaro dunque che, citando il biologo, «free will doesn’t fit with how the physical world works» (Lisa Zyga. Free will is an illusion, biologist says. Phis.org, 2010).

A sostegno di una visione deterministica della realtà entra in gioco anche la cibernetica, ossia lo studio matematico «unitario dei processi riguardanti la comunicazione e il controllo nell’animale e nella macchina» il cui intento è quello di descrivere e trovare analogie tra sistemi, ponendoli sostanzialmente alla stregua di macchine computazionali equivalenti. Il corpo ‘governato’ dal sistema nervoso, le cellule dal nucleo, la nave dal sistema di controllo e lo stato dal governo, sono esempi di ‘macchine’ simili che svolgono attività equivalenti. Le implicazioni della teoria della computazione e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale hanno portato via via alla concezione della mente umana come una macchina governata da algoritmi, senza soggetto né tantomeno libero arbitrio. Il sistema nervoso funziona secondo leggi e processi causa-effetto precisi, pertanto il suo comportamento è totalmente predeterminato e prevedibile. Si veda a tal proposito lo studio di Warren, McCulloch e Walter Pitts (Warren S McCulloch and Walter Pitts. A Logical Calculus of Ideas Immanent in Nervous Activity. The bulletin of mathematical biophysics, volume 5(4), pagg. 115–133, 1943), la prima formalizzazione dell’equivalenza logica tra il sistema nervoso e un calcolatore elettronico, e della possibilità di rappresentare ambedue con strumenti della logica formale: logica delle proposizioni e algebra di Boole. In questa maniera non sarebbe solo la libertà d’azione ad essere un’illusione, ma anche l’essenza stessa dell’individuo, privato del tutto della sua soggettività.

Uno degli argomenti più usati dagli oppositori delle visioni esaminate finora, è quello che il filosofo tedesco Christian List espone nel suo libro Why Free Will Is Real (2019), in cui critica gli scettici del libero arbitrio che tentano di spiegare il comportamento umano attraverso la descrizione delle attività biologiche, chimiche e fisiche che avvengono a livello atomico nel nostro cervello. Secondo il filosofo, l’azione intenzionale è una proprietà emergente del complesso sistema delle reti neurali che compongono il nostro cervello, che non può quindi essere osservata analizzando (ad esempio) ogni neurone in maniera discreta, ma considerandone l’insieme delle interazioni. Già Platone argomentava nel Teeteto come il tutto, inteso come somma delle parti (to pan), non coincidesse con l’intero (to holon) inteso come magical composition (Platone, Teeteto. Milano: Rizzoli 2011, pag. 111) costituita da parti ma non riducibile ad esse: è pressappoco impossibile e non del tutto illuminante, conclude List, cercare di spiegare il comportamento umano a livello di pattern di emissioni neurali (neural firig patterns) complessi, senza fare un passo indietro per averne una visione d’insieme.

È certo che un ruolo preponderante nello studio del libero arbitrio è giocato dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Grazie a risultati sempre più precisi (attraverso tecniche come il neuroimaging) è ormai indubbia la correlazione tra attività cerebrale e comportamento umano. Inoltre, è risaputo come modifiche patologiche o fisiche al cervello possano causare gravi alterazioni nella natura del soggetto, talvolta temporanee (come l’assunzione di sostanze stupefacenti), altre volte permanenti (riguardo a questo si veda il caso di Phineas Gage - Fleischman, J. Phineas Gage: A gruesome but true story about brain science. Houghton Mifflin Harcourt, 2002). Malattie come la schizofrenia o il DOC (disturbo ossessivo-compulsivo), che limitano in maniera drastica la libertà d’agire del soggetto, dimostrano come ogni nostra azione è strettamente dipendente da cause esterne alla nostra volontà, lasciando poco spazio al libero arbitrio. Ovviamente, la questione non è così semplice e anche in questo campo le controversie sono molteplici.

Secondo Stewart Hameroff lo studio del libero arbitrio nel campo delle scienze cognitive è problematico per tre motivi (Stuart Hameroff. How quantum brain biology can rescue conscious free will. Frontiers in integrative neuroscience, volume 6 pag. 93, 2012): (1) i meccanismi cerebrali responsabili della coscienza (consciousness) umana sono sconosciuti; (2) la coscienza sembra essere un “epifenomeno illusorio”, dal momento che, secondo alcune misurazioni, è emerso che l’attività cerebrale connessa alla percezione cosciente è preceduta da altra attività cerebrale inconscia, che costituirebbe la vera causa delle nostre azioni; (3) il mondo sembra seguire leggi deterministiche, in modo algoritmico e inevitabile.

Per quanto riguarda il secondo punto, esistono diverse prove sperimentali che dimostrano come in alcuni casi la consapevolezza di un’azione arriva ‘in ritardo’ rispetto all’evento stesso. Sono illuminanti gli studi di Kornhuber and Deecke (1965), che registrarono l’attività della corteccia premotoria in individui a cui era stato richiesto di muovere il dito in maniera casuale, in un certo momento non concordato. Quello che trovarono fu che l’attività cerebrale precedeva il movimento del dito di circa 800 ms, e definirono questa attività readiness potential (RP). Un esperimento simile fu poi ripetuto da Libet e colleghi (Benjamin Libet, Curtis A Gleason, Elwood W Wright, e Dennis K Pearl. Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (readiness-potential). In Neurophysiology of Consciousness, pagg. 249–268. Springer, 1993), in cui il soggetto doveva di nuovo muovere il dito, ma questa volta, servendosi di un orologio accelerato, indicare anche il momento in cui aveva deciso in maniera cosciente di muoverlo. Questa decisione cosciente avveniva circa 200 ms prima del movimento del dito, ma centinaia di millisecondi dopo la comparsa dell’RP. In seguito a tali osservazioni, il gruppo di ricerca, concluse (non senza controversie, vedasi l’articolo di M. De Caro, Libertà umana, causalità, neuro-etica) che l’RP rappresentava una determinante inconscia del movimento e che molte azioni apparentemente coscienti sono in realtà attivate da processi inconsci.

Per spiegare il paradosso della ‘coscienza che arriva in ritardo’, il filosofo Daniel Dennet, nel suo libro Consciousness Explained (1991), descrive la coscienza come una costruzione retrospettiva, spiegando come il cervello elabori e revisioni diverse ‘bozze’ del processo cognitivo, la cui edizione finale viene poi innestata nella memoria (ricordando un po’ il ruolo che svolgeva il Ministero della Verità nel romanzo 1984 di G. Orwell). Questa teoria spiegherebbe il fenomeno phi colore descritto dagli psicologi Paul Kolers e Michael von Grünau, in cui l’osservatore crede di vedere un pallino luminoso sullo schermo spostarsi e cambiare colore, quando in realtà si tratta di due pallini diversi che compaiono ad intermittenza. Tuttavia, un’altra risposta potrebbe essere formulata servendosi delle leggi della fisica quantistica, che vedono il tempo come una dimensione che è possibile percorrere in avanti e all’indietro, rendendo così possibili i ‘backward time effects’ nel cervello (George Musser. The Quantum Mechanics of Fate. Nautilus, 2014).

Servendosi dell’indeterminismo della fisica quantistica, Roger Penrose e Stewart Hameroff avanzarono la teoria Orch OR (ORCHestrated Objective Reduction) per dimostrare scientificamente l’esistenza dell’azione cosciente, e dunque, del libero arbitrio (Roger Penrose e Stuart Hameroff. Consciousness in the universe: Neuroscience, quantum space-time geometry and orch or theory. Journal of Cosmology, volume 14 pagg. 1–17, 2011). Nella teoria, sono fondamentali il principio di sovrapposizione (oggetti o particelle esistono in due o più posti contemporaneamente), la correlazione quantistica o entanglement (definita da Einstein come spookie action at a distance, poiché più oggetti o particelle, seppur separati, si comportano come un unico oggetto governato da un’unica funzione d’onda) e la teoria avanzata da Penrose dell’“OR” (Objective Reduction, ‘riduzione oggettiva’), che porta la coscienza all’interno della fisica. Penrose e Hameroff applicano le leggi quantistiche all’interno del cervello, in particolare al funzionamento delle tubuline che compongono i microtubuli, mostrando che esiste un tempo preciso in cui è possibile che si verifichi un momento di coscienza, poiché in maniera del tutto non causale (acausal) né algoritmica (in modo non computazionale) le informazioni trasportate dalle tubuline, fino a quel momento in stato di entanglement, si riducono ad un’informazione precisa (se prima erano 1 e 0, ora si riducono a 1 oppure 0), causando (o meno) un impulso assonale.

Se questa teoria valesse, allora i tre problemi sottolineati da Hameroff sarebbero risolti, poiché la teoria (1) descrive dove e come avverrebbe l’azione causale cosciente, (2) si serve della non-località temporale quantistica per spiegare il passaggio di informazioni anche a ritroso nel tempo e (3) nega il determinismo algoritmico, a favore di una teoria non computazionale. Tuttavia, sono numerose le critiche, specialmente perché Orch OR è vista come un tentativo di cercare di spiegare un mistero (la coscienza umana) attraverso un altro mistero (la fisica quantistica). Orch OR è infatti una delle tante interpretazioni delle leggi della meccanica quantistica, e non è (ancora) detto che sia veritiera.

Come si è visto, trovare una risposta univoca al problema del libero arbitrio sembra un’impresa impossibile. Le opinioni sono così contrastanti anche perché non si basano su una definizione unitaria, che non esiste – e forse non può esistere, essendo quella sulla libertà umana una questione fortemente soggettiva. Questo non dovrebbe comunque scoraggiare: discutere l’esistenza del libero arbitrio ci porta ad avere maggiore coscienza di noi stessi e dell’universo che ci circonda, permette di indagare a fondo come è fatta la mente umana e aiuta ad aprire nuove porte nel campo delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell’intelligenza artificiale e in molti altri ambiti di conoscenza che migliorano la nostra qualità di vita ogni giorno.

PER SAPERNE DI PIÙ

Sul libero arbitrio e la storia della filosofia: O’Connor, T., & Franklin, C. Free Will. In Edward N. Zalta, The Stanford Encyclopedia of Philosophy. Stanford University Metaphysics Research Lab, 2020.

De Caro, M. Libertà e determinismo. Enciclopedia Treccani, 2007.

Musser, G. The Quantum Mechanics of Fate. Nautilus, 2014.

Gallagher, B. Can Neuroscience Understand Free Will?. Nautilus, 2019.

Immagine fornita con autorizzazione all'utilizzo limitato sul magazine online "Il Chiasmo" dall'autrice Nicoletta Busto, detentrice dei diritti.

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