Pensare alla Resistenza come a un monumento granitico, monolitico, non è una prospettiva storica, tale da potersi adottare. La monumentalizzazione e la creazione del mito dell’inviolabilità del movimento di liberazione furono stratagemmi comprensibili nel dopoguerra, al fine di cementare una nuova unità nazionale in un Paese sconvolto. La guerra di liberazione, infatti, è stata anche guerra civile, afferma Claudio Pavone, conflitto tra italiani fascisti e italiani partigiani, e anche all’interno della coalizione dei “patrioti” stessi ci furono motivi di discordia; non ultimo, il rapporto contrastato con la controparte jugoslava. Alcuni episodi controversi della Resistenza (per quanto non ne inficino il complessivo scopo e progetto) pertanto non appaiono sufficiente discussi, oppure, ne sono state date delle spiegazioni capziose e non scevre di lacune. Il fatto esemplificativo che si vuole raccontare è il cosiddetto eccidio di Porzûs.
Che cosa successe il 7 febbraio 1945? La radice di quanto avvenne quel giorno è rintracciabile nelle tensioni esistenti fra comunisti italiani e jugoslavi: i secondi intendevano convincere i propri compagni di confine ad approvare e dar seguito formale alle proprie volontà annessionistiche, riguardanti, nello specifico, i territori della Slavia friulana, dei territori, diciamo, relativi alle Valli del Natisone. A queste rivendicazioni si aggiungeva un problema contingente: la «repubblica partigiana» che era stata creata istituendo la «zona libera della Carnia» (settembre 1944) era stata smantellata dai tedeschi; lo scompiglio determinato da questa dispersione aveva acuito i contrasti tra partigiani osovani (una formazione autonoma, in cui militavano soprattutto cattolici e monarchici) e comunisti. Fino ad allora si era riuscito a riunire in un comando unificato le due parti, e quindi a far tessere loro una collaborazione pacifica e proficua. Il comando sulla Brigata Garibaldi Natisone era poi stato ottenuto, tramite pressioni, dal IX corpus della resistenza jugoslava. Ora, i guerriglieri jugoslavi pensavano che, aggregando a sé delle truppe italiane, avrebbero potuto, oltre ad aumentare la propria forza bellica, assoggettare le terre cui miravano. In questo modo, terminata la guerra, nelle trattative di pace si sarebbe dovuto tener conto del fatto compiuto, cioè della perdita per l’Italia dei territori della Slavia friulana. Peraltro, le pressioni jugoslave furono esercitate col beneplacito del PCI.
Quanto riassunto serve a fornire un succinto quadro generale per incasellare con più chiarezza la questione. Rispondiamo ora alla domanda precedentemente posta: quel giorno, un gruppo di circa cento gappisti (Gruppi di Azione Patriottica – una formazione partigiana di matrice comunista) fintisi degli sbandati, sotto il comando di Mario Toffanin detto «Giacca», attacca e uccide alcuni membri della Brigata Osoppo, fra cui il capitano, Francesco De Gregori, il cui nome da battaglia era «Bolla». I restanti sarebbero stati uccisi nei giorni successivi. In totale, le vittime furono venti. La strage ebbe luogo presso le malghe di Porzûs, situate nelle vicinanze di Faedis, un paese in provincia di Udine.
Il problema principale riguardo a questa vicenda non è tanto accertare la dinamica del crudo fatto in sé stesso, ma comprendere da quali istanze abbia avuto origine, se sia stato direttamente promosso dall’alto, per così dire, oppure se possa essere ricondotto all’ iniziativa di un singolo. Cercheremo, quindi, di ripercorrerne le principali interpretazioni, allo scopo di dimostrare come, a seconda dell’adesione di un determinato storico a una corrente politica, delle circostanze geopolitiche in cui scriveva, si possano riscontrare differenze sostanziali. Infatti, in base alle più recenti acquisizioni della disciplina, si è riusciti a definire meglio la “doppiezza” e l’ambiguità del PCI, intesa come la coesistenza in esso di due obiettivi che non si autoescludevano, e cioè la volontà da un lato di formare una coalizione efficace con le altre forze antifasciste, dall’altro di perseguire la rivoluzione comunista. In questo caso, l’atto di favorire l’instaurazione di un regime comunista in un paese confinante avrebbe potuto giovare alla causa comune al fronte rosso internazionale.
Il primo esempio che prenderemo in esame è quello della «Storia della Resistenza italiana» di Roberto Battaglia, uscita nel 1953. Egli aderì al PCI nel 1946, e la sua opera è paradigmatica: si tratta di una storia di partito che abbina analisi critiche ad accenti marcati di retorica trionfalistica. D’altronde, erano i primi tempi della Guerra Fredda, e la dicotomia tra i due poli del mondo era appena divampata. Con ciò si spiega la stringatezza con cui è presentato il fatto (quasi del tutto confinato in una nota a piè di pagina) e la negazione della possibilità che vi avesse avuto parte la divergenza con gli jugoslavi riguardo al problema del confine. Il gesto sarebbe stato dettato dalla necessità di controbattere all’anticomunismo di Bolla. Similmente si pone Giorgio Bocca (che per altro apparteneva al partito d’azione), il quale pensa che Francesco De Gregori – scriveva nel 1966 – si dedicasse unicamente a denunciare le «beghe slavo-comuniste», invece che a imporsi sul campo di battaglia per salvare la patria. Inoltre, evidenzia l’arroganza di Toffanin, e dà credito all’ipotesi che il deplorevole eccidio sia stato scatenato dal suo settarismo, dalla sua arroganza; era, a suo giudizio, un «tipo violento». Come coronamento di queste spiegazioni si può citare quella di Pierluigi Pallante (1980): per lui non ci sono prove che Ostelio Modesti, l’allora segretario della federazione comunista friulana, abbia dato il via libera all’eccidio a Giacca, e nega anche che sia possibile che alla federazione siano state impartite delle direttive, «un orientamento in quel senso». Egli ipotizza dei contatti compromettenti fra partigiani osovani e la legione X MAS di Junio Valerio Borghese. Tuttavia, fa notare la storica Elena Aga Rossi, Tito stesso aveva proposto ai nazisti di collaborare per eliminare la fazione nazionalista della resistenza jugoslava, capeggiata da Draza Mihajlovic.
Quanto al più recente lavoro sull’argomento, gli autori Franzinelli e Flores assumono un punto di vista meno condizionato dalla vicinanza agli eventi, e avvalorano la tesi della connivenza del PCI con le richieste jugoslave sulla scorta di una lettera di Palmiro Togliatti. Questa missiva, inviata al rappresentante del partito per le questioni jugoslave Vincenzo Bianco, getta luce sulla disponibilità del segretario a concedere i territori desiderati, a cui si aggiungeva la città di Trieste; si sottolineava, poi, l’opportunità di incentivare queste iniziative, senza che suscitassero il malcontento della popolazione italiana locale, corroborando la cooperazione tra le masse popolari di entrambi i paesi. Bisognava reprimere i rappresentanti dell’«imperialismo e nazionalismo italiano», ovverosia tutti coloro che si fossero opposti ai disegni annessionistici. Riportiamo quindi alcuni passi salienti della lettera:
Noi consideriamo come un fatto positivo la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. […] Il nostro Partito deve partecipare attivamente, collaborando coi compagni jugoslavi nel modo più stretto, alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito e in cui esista una popolazione italiana. […] I comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia fra i popoli. Questa direttiva vale anche e soprattutto per la città di Trieste […].
Resta ora un ultimo nodo da sciogliere: perché si è cercato di minimizzare, omettere la vicinanza del capo del PCI alle posizioni jugoslave? Ciò, spiega Elena Aga Rossi, avrebbe messo in dubbio la dedizione dell’estrema sinistra al mantenimento dell’italianità delle terre della Venezia Giulia, nell’ambito della linea di unità nazionale sancita dalla «svolta di Salerno», che era, nelle parole di Ginsborg, «la logica applicazione alla realtà italiana» della volontà di Stalin di creare governi che si fondassero sull’alleanza di tutte le forze antifasciste. Tuttavia, non ogni particolare della vicenda è stato chiarito: a giudizio di Franzinelli e Flores, non pare si possa soprassedere sulla responsabilità della sezione friulana del PCI, ma non vi sono tuttora dei documenti probanti. Si presume che, data la lontananza dall’eccidio, verranno presto prodotte nuove ricostruzioni.
Per saperne di più
Come punto di partenza, si consiglia Porzûs, Violenza e Resistenza sul confine orientale (Il Mulino, Bologna, 2012), a cura di Tommaso Piffer: esso raccoglie degli interventi molto utili sia sull’eccidio, sia sul retroterra politico-culturale (si veda quello di Pupo per approfondire i rapporti travagliati tra le fazioni della resi ì, fra qui quello di Elena Aga Rossi. Per un’analisi del contesto europeo con un focus sull’Italia, si veda il secondo capitolo del libro di Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (Einaudi, Torino, 1989). Per prendere visione della lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco di cui si è fatta menzione, si rimanda a Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano-la Resistenza. Togliatti e il partito nuovo (Einaudi, Torino, 1975). La lettera è trascritta a pagina 437. Si rimanda, inoltre, al lavoro di Pierluigi Pallante, Il PCI e la questione nazionale Friuli-Venezia Giulia 1941-1945 (Del Bianco, Udine, 1980). In ultimo, per quanto concerne le opere generali citate sul movimento di Liberazione: si vedano Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza (Laterza, Roma-Bari, 2019); Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana (Laterza, Roma-Bari, 1966); Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana (Einaudi, Torino, 1953).