Nel mondo odierno si pensa agli uomini come globalizzati ed interconnessi, tuttavia a volte sembra mancare la capacità di relazionarsi con gli altri in modo positivo. Si potrebbe ripensare questo schema rivalutando sé stessi e soprattutto ciò che si è in relazione all’altro. Ogni uomo ha valore come singolo, ma ha anche la necessità di ricercare dentro di sé, in profondità, quella connessione intrinseca con il kosmos, da cui poi è lapalissiano il rapporto con gli altri. Si prenda la frase del matematico e meteorologo Edward Lorenz: «Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile causare un tornado in Texas?». Nel contesto di cui si sta parlando la risposta si mostra affermativa. Reinterpretando la citazione ed estrapolandola dal suo contesto, essa ricorda che ogni uomo è una farfalla che da sola crede di essere fragile e inutile, ma in realtà è parte del tutto. Cambiando prospettiva capirà che le sue piccole azioni possono contribuire a qualcosa di più grande. Nonostante non fosse l’intento di Lorenz, egli ha fornito uno schema di valori che nel mondo occidentale si è perso, ma è ancora esistente in altre culture grazie alle quali è possibile recuperarlo. In particolare, quella a cui si sta facendo riferimento è la cultura africana ed è l'Ubuntu la parola chiave su cui costruire un nuovo modello di valori. Non si può certamente trasportare un paradigma che funziona in una certa società in un’altra, ma si può riadattare e soprattutto può servire come spinta per riportare alla luce quei valori nascosti e sepolti da uno strato di nichilismo.

Che cos’è l'Ubuntu? È un termine Ngori della civiltà Bantu dell’Africa Subsahariana; questa parola è composta dal suffisso -ntu, che significa persona e ubu-, il nome astratto che significa umanità. In una lettura veloce di cosa sia l'Ubuntu, quest’ultimo viene recepito come una filosofia africana secondo la quale la comunità è più importante dell’io singolo; si vedrà invece quanto siano più complesse e sfaccettate le qualità che abbraccia l'Ubuntu. Comprende la generosità, l’umiltà, la grandezza di cuore, la bontà, la capacità di sacrificarsi per l’altro, la capacità di cooperazione e la gentilezza. Non è qualcosa che si impara a scuola, ma è un modo di vivere condiviso dalla comunità africana. In un’intervista, Nelson Mandela ha portato un esempio concreto per descrivere questa filosofia: un viaggiatore che si ferma nel suo villaggio non ha bisogno di chiedere cibo o acqua, è la gente ad offrirgliene e ad intrattenerlo. Questo è certamente solo uno dei molteplici aspetti dell'Ubuntu, ma permette di comprendere il senso di umanità di questa filosofia. Non è dunque la comunità ad essere messa al primo posto, ma è l’umanità, intesa sia come insieme di esseri umani sia come qualità umana, cioè il fatto di appartenere alla “razza umana”, che deve essere rispettata. Inoltre, l'Ubuntu è anche utilizzato come modo per descrivere un individuo: nella cultura Bantu l’Ubuntu definisce la persona morale. Comportarsi bene e agire secondo le qualità dell’Ubuntu permette ad un individuo di essere definito _"U_buntu"__, cioè “persona”. In termini occidentali si può affermare che si diventa una “persona morale”, mentre nell’Ubuntu questo è già intrinseco nell’essere “persona”.

La filosofia dell’Ubuntu è stata conosciuta in Occidente grazie a Nelson Mandela, il quale ha lottato contro la segregazione razziale basandosi su questo principio africano: «I am because we are», «io sono perché noi siamo», è la massima fondante del pensiero. L’umanità di ciascuno non è semplicemente intrinseca, ma è una qualità che proviene dalla relazione con l’altro. L’io non è un soggetto rigido, non è un individuo, cioè un nucleo non divisibile, non modificabile, ma è un dividuo relazionale, termine preso in prestito dall’antropologa Marilyn Strathern. L’io è ciò che è grazie alla relazione con l’altro, che sia un altro essere umano, un essere vivente animale o vegetale, o anche un essere inanimato. L’Ubuntu significa rendersi conto di non essere individui singoli, ma di essere un tutt’uno con il kosmos. La vita è relazione, è un dono di cui tutti sono responsabili e che devono quindi preservare. Si deve vivere per sviluppare la vita, sia in sé stessi sia negli altri. L’altro non viene mai visto come una minaccia, al contrario, è un completamento alla propria umanità, arricchisce l’io. L’Ubuntu significa dunque vedere il noi prima dell’io, ma non nel senso occidentale di dare il primato alla comunità e tralasciare l’io, anzi. Proteggere il “we are” ha come conseguenza immediata la protezione dell’“I am”, quindi coltivare il noi implica coltivare l’io, paradossalmente ne comporta il suo miglioramento: è attraverso la comunità che l’individuo diventa persona. L’Ubuntu non nega il valore dell’uno: secondo lo storico Michael Onyebuchi Eze non si tratta di una visione del bene assoluto della comunità, a cui solo successivamente si aggiunge il singolo. È la comunità che dà valore al singolo valorizzando i punti di forza di ciascuno: ognuno ha un ruolo e come in un meccanismo se manca una parte, l’intero non funziona. Questo pensiero è stato esplicitato da Desmond Tutu, arcivescovo e attivista contro l’apartheid sudafricano: nella comunità ognuno è chiamato a svolgere un ruolo importante e necessario alla comunità. Ognuno è quella farfalla che ha la potenza di cambiare il clima.

Secondo Christian Gade, il filosofo che ha studiato la filosofia africana, si può dividere lo sviluppo del termine Ubuntu in cinque periodi caratterizzati dalla sfumatura di significato che ha assunto. Nell’ultimo periodo, in particolare, l’Ubuntu si connette al proverbio Zulu: «Umuntu ngumuntu ngabuntu», cioè «la persona diventa persona solo attraverso gli altri». Questa traduzione in realtà non è precisa e in generale, come crede Donald Swanson, l’Ubuntu non può essere spiegato attraverso termini occidentali. La parola umuntu, per esempio, può essere interpretata come “persona” in termini occidentali, ma essa comprende l’umanità come qualità umana e come insieme di essere umani, cioè racchiude sia l’elemento qualitativo sia quantitativo. Soprattutto in questo periodo, quindi, l’Ubuntu si può spiegare come il fatto di essere umuntu, cioè persona e in tal caso si ricollega alla definizione di persona morale spiegata all’inizio.

Infine, secondo lo storiografo Stanlake J. W. T. Samkange l’Ubuntu si delinea secondo tre massime. È interessante vedere come la terza massima ricordi proprio il principio democratico occidentale: «Kgosi ke kgosi ka batho [setswana]», cioè «la sovranità del re deriva dai sudditi e appartiene ad essi». In una società che si fonda sulla filosofia dell’Ubuntu il sovrano non è un capo che comanda in modo autoritario; è invece un vero leader che ascolta la sua gente, gestisce e organizza con gentilezza e spirito di cooperazione.

L’Ubuntu è una filosofia lontana, ma che tanto lontana non è, perché, come dimostrato, ostenta gli stessi valori che gli occidentali abbiamo perso. Bisogna quindi prendere esempio dall’Ubuntu per ritrovare sé stessi. Deve diventare un modo di vivere, una prassi, perché solo la comunità può essere una risposta alternativa all’individualismo.

Per saperne di più:

Si consiglia la lettura del testo Ubuntu. La via africana alla felicità, di Mungi Ngomane, edito da Rizzoli del 2019, e degli articoli accademici dello storico e filosofo Michael Onyebuchi Eze.

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