Il fascismo fu una rivoluzione? A questa domanda, almeno fino al rinnovamento degli studi sul Ventennio grazie al contributo di Renzo De Felice, era quasi impossibile rispondere affermativamente.

Il fascismo nel secondo dopoguerra non poteva essere inteso come una rivoluzione, in quanto non aveva conseguito quanto promesso, non aveva elaborato una propria originale ideologia e non era stato altro, infine, che un inganno perpetrato ai danni del popolo italiano. Questa visione, frutto di una fortissima politicizzazione della storiografia sul regime fascista, è stata avversata e demolita dal grande allievo di De Felice, Emilio Gentile. Gentile ha distinto il termine "rivoluzione" in tre diverse declinazioni: rivoluzione come "concetto", rivoluzione come "mito" e rivoluzione come "ideale". Quest’ultima, coincidente con la natura "progressista" (o presunta tale) o meno di una rivoluzione, ha costituito per molto tempo il discrimine tra una vera rivoluzione e una "controrivoluzione". La natura reazionaria dei Fasci di Combattimento, nati in un contesto di grandi sollevazioni operaie e socialiste, conduce apparentemente ad immaginare il fascismo come una pura controrivoluzione.

Ciò viene, tuttavia, ampiamente smentito dai fatti e dalla complessità del fenomeno, ben analizzata da diversi studiosi. Il fascismo fu, infatti, come sottolineato da Gentile, un prodotto della democrazia. O meglio un tentativo di superarne gli aspetti giudicati come più critici, tra cui la decadenza dei costumi e l’incapacità del parlamentarismo liberale di gestire i disordini sociali. Mosse ha trovato come definizione quella di «rivoluzione di destra», ovvero una liquidazione delle vecchie classi dirigenti senza sconvolgere l’ordine sociale. Fu la rivoluzione dei ceti medi, sostenuta da uomini nuovi e da giovani, intellettuali, ex-sindacalisti rivoluzionari, futuristi, ex-legionari dannunziani e reduci dalla Grande Guerra. Fu la rivoluzione dello "Stato Nuovo". Cosa si intende però con "Stato Nuovo"?

Trasformare lo Stato voleva dire adattarlo alle esigenze della modernità. Dal punto di vista fascista si trattava, perciò, di un’idea progressista, oltreché di un modello adottabile anche dagli altri Paesi occidentali. A differenza di un modello rivoluzionario comunista, orientato al superamento dello Stato, il modello fascista implicava un suo rafforzamento ma anche, allo stesso tempo, una sua fatale distruzione. Per fare un altro confronto si potrebbe affermare che, se una rivoluzione come quella russa fu essenzialmente «ottimista», orientata verso un futuro utopico di redenzione del genere umano, la rivoluzione fascista fu nettamente pessimista. Fu una rivoluzione «tragica».

Gentile ha coniato a tal proposito la definizione di «tragedia del pessimismo attivista». La «volontà di potenza» fascista, liberamente ispirata dal pensiero di Nietzsche, si traduceva nello sforzo di un intero Stato, potenziato, totalitario ed organicamente amalgamato con la sua popolazione, verso un fine eroico ed estremo. Presa in sé, la vita umana risultava completamente svalutata. Nel desiderare un sacrificio di tal genere, emerge chiaramente il profondo malcontento di una parte degli intellettuali italiani verso i valori della borghesia e del progresso materiale infinito. Nella fusione tra popolo, Stato e capo, la politica diveniva, tuttavia, niente di più che un puro spettacolo.

Le adunate oceaniche dinanzi ai discorsi del duce costituivano gli esempi più evidenti del superamento di una vecchia idea di politica: il cittadino era un semplice spettatore. Inoltre, poiché il fascismo si poneva al tempo stesso come fenomeno italiano e come esperimento da estendere ad una Europa corrotta nei suoi costumi e nei suoi ideali, di quest’ultima esso desiderava essere il canto del cigno. Come delineato da Kunnas, i fascisti:

Hanno sperato in una nuova politica animata da un nuovo senso della vita, che l’uomo disincantato, adoratore del denaro e corroso dal vizio, si sarebbe trasformato in un eroe integro – ed è avvenuto esattamente il contrario. Non avevano alcuna fiducia nell’essere umano, di cui mostravano l’egoismo e l’ipocrisia, e malgrado la loro simpatia per l’uomo, il loro pessimismo era pericolosamente prossimo a diventare un vero e proprio odio contro l’uomo.

La rivoluzione totalitaria fascista non mirava a salvare l’uomo, quanto piuttosto ad accompagnarlo il prima possibile verso un tragico ed "eroico" epilogo.

Un esempio pratico si può individuare, più che nella disperata e inutile resistenza degli ultimi fascisti di Salò, nel ciclo di guerre inaugurato da Mussolini con l’invasione dell’Etiopia nel 1935, proseguito con la guerra civile spagnola e conclusosi con la disastrosa guerra mondiale al fianco della Germania di Hitler, di cui la lotta armata della Repubblica Sociale costituì l’estrema conclusione.

Una serie ininterrotta di conflitti avrebbe dovuto porre, nelle intenzioni del duce, gli italiani dinanzi ad una prova di forza. Avrebbe "purificato" la razza italiana da secoli di incrostazioni. Infine, avrebbe dovuto costituire una preparazione al conflitto che, come riportato da uno studio sull’imperialismo italiano fascista ad opera di Rodogno, avrebbe visto protagonisti dei nuovi e giganteschi agglomerati geopolitici, i quali si sarebbero fronteggiati fino alla morte.

Mussolini parlava della morte in guerra e del sacrificio degli italiani come di una gigantesca opera d’arte da portare a compimento ad ogni costo. Difatti, nel momento in cui, già nel 1941, ciò apparve compromesso dai rovesci militari, scrisse di aver bisogno di un "materiale differente" per portare a termine la sua rivoluzione: «È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista.»

Il duce non fu perciò mai sfiorato dal dubbio, come puntualizza Gentile, che fosse soltanto la follia di un artista il voler trattare l’argilla a colpi di maglio, come se fosse marmo. La sconfitta, per Mussolini, era opera del carattere irrecuperabile di un popolo come gli italiani. L’unico modo per "salvarlo" avrebbe dovuto essere, dunque, la sua distruzione. Una morte tragica, insita in una rivoluzione pensata per l’uomo e allo stesso tempo avversa alla sua sopravvivenza e al suo futuro.

Per saperne di più:

Il principale autore da segnalare per un approfondimento sulla natura rivoluzionaria del fascismo è Emilio Gentile, di cui si consigliano in particolare La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (Laterza, Roma 2011) e Fascismo. Storia e interpretazione (Laterza, Roma 2008).

Per comprendere le ragioni del profondo fascino esercitato dal fascismo sugli intellettuali si consiglia anche la lettura del saggio Il fascino del fascismo. L’adesione degli intellettuali europei di Tarmo Kunnas (Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed, 2017). Infine, per avere una panoramica dell’idea di un nuovo ordine mediterraneo fascista si consiglia Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943) di Davide Rodogno (Bollati Boringhieri, 2003).

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