Chiunque abbia una formazione anche solo manualistica nell’ambito del pensiero di Hegel si ricorderà dell’anomalia rappresentata dalla suddivisione delle forme artistiche in simbolica, classica e romantica contenuta nella sua estetica matura. Non è raro, infatti, imbattersi in semplificazioni secondo le quali la filosofia dell’arte è la disciplina in cui l’autore risente della predilezione per un gusto classicistico, esemplificato da una costruzione concettuale atta a omaggiare e, contemporaneamente, a relegare in uno specifico angolo del sistema la passione per la Grecia classica testimoniata negli scritti giovanili. La ricerca degli ultimi decenni, tuttavia, ci spinge a vedere con sospetto queste categorizzazioni, tanto che la successione data da arte incompleta delle antiche civiltà orientali, perfetta corrispondenza tra forma e contenuto esibita nella statuaria greca e nuova dissoluzione con l’interiorizzazione spirituale avviata nell’era cristiana non può più essere accettata senza importanti specificazioni. L’impulso viene, in particolare, dagli studi di Annemarie Gethmann-Siefert, a partire dai quali si è cominciato a indagare un secondo possibile paradigma interpretativo alla base del procedere hegeliano, più sotterraneo rispetto a quello che, ponendo come compimento dello stadio estetico la sua sfera intermedia, sovverte l’abituale andamento sistematico dell’autore: lo statuto simbolico dell’arte.

L’interesse per questa modalità di significazione centrale nella comunicazione estetica nasce dal processo graduale di riedizione critica delle lezioni sulla filosofia dell’arte tenute da Hegel a Berlino in un lasso di tempo compreso tra il 1821 e il 1829. Diversamente da quanto si evinceva nell’edizione postuma dell’Estetica curata dall’allievo Hotho, il filosofo dedica ampia parte della trattazione alla relazione semantica instaurata dal simbolo tanto nella sua struttura concettuale di fondo quanto nella sua concretizzazione storica principale incarnata dalla forma d’arte simbolica (in senso proprio coincidente con le produzioni degli antichi parsi, indiani ed egizi). In sintesi, la modalità di esposizione simbolica trova origine in un’esigenza che in termini odierni potremmo definire antropologica, come illustra un passo relativo al corso del 1823:

Se vogliamo indicare semplicemente i modi dell’inizio, si può dire che arte, religione e scienza iniziano con la meraviglia, come dice Aristotele. Rapportandosi alla natura l’uomo non la considera soltanto come qualcosa di esteriore, ma negli oggetti naturali preavverte la ragione, l’universale, il pensiero; ne è per un verso respinto, per un altro attratto, ed entrambi, il preavvertimento di qualcosa di più elevato e la coscienza di un esteriore, non sono ancora separati. La prosa della separatezza è qualcosa di solo successivo.

In altre parole, il bisogno dell’arte nasce dalla necessità avvertita dall’essere umano di uscire da una condizione di mera naturalità e affermare il primato dello spirituale (termine che, al di là di possibili fraintendimenti, rimanda alla dimensione umana nel suo complesso e non a una fumosa entità metafisica). Lo stesso vale per la religione e la filosofia, le quali trovano nello stadio estetico un passo necessario e preliminare perché possa darsi la compiuta razionalizzazione propria del mondo moderno e della sua «prosaicità» di rapporti etici, politici, sociali, civili, etc. L’arte, tuttavia, si serve della natura non come di qualcosa di superato, ma come il mezzo imprescindibile attraverso cui far trapelare la superiorità dello spirito emergente: il risultato è una singolare e ambigua commistione tra elemento spirituale e naturale, dove alla subordinazione del secondo non corrisponde ancora una piena liberazione del primo dalle coordinate imposte dall’esistenza naturale.

Ci si potrebbe chiedere, dunque, come tutto ciò si connetta a una pura struttura semantica quale è il simbolo considerato di per se stesso. Indicazioni importanti ci vengono fornite in apertura della sezione dedicata dal medesimo corso al «simbolo in genere»:

Il simbolo è un segno; contiene un significato e un modo di presentazione di esso. [...] Il simbolo [...] contiene nella sua esteriorità insieme il contenuto della rappresentazione che deve presentare. Il simbolo dunque rappresenta al contempo se stesso. Il leone per esempio è il simbolo della forza. Il leone – per sé come leone – è forte; egli contiene in se stesso ciò, il cui significato deve far apparire.

Detto altrimenti, la relazione simbolica è il tentativo di veicolare un significato o rappresentazione universale tramite il ricorso a una forma sensibile dotata di caratteristiche analoghe al contenuto che si vuole comunicare, per cui il rimando a una determinata immagine non sarà affatto convenzionale, ma le sue proprietà dovranno rispondere a un requisito di affinità oggettiva con il concetto che intende esibire intuitivamente. Di natura opposta è la situazione configurata dal segno e dal suo significato di riferimento:

Il segno in quanto tale non ha alcuna relazione a se stesso, bensì ha senso solo come significato dato. Così accade per i suoni e i segni delle lingue, i nomi degli individui e molto altro. Il sensibile, attraverso il quale la rappresentazione si presenta, non ha, nella sua peculiarità, alcun rapporto vero e proprio con questa rappresentazione.

Il rimando semiotico, di cui un fondamentale esempio è offerto dai segni linguistici, è il frutto di un collegamento arbitrario istituito dalla soggettività tra intuizione sensibile e contenuto da questa presentata, proprio come, ad esempio, i colori di una bandiera non rimandano come tali a una comunità nazionale, ma il loro significato è l’esito di un accordo convenzionale.

Ora, la definizione appena delineata del concetto di simbolo assume nella trattazione hegeliana un tono tipicamente «antifrastico», come ebbe a dire Paolo D’Angelo. La descrizione della significazione simbolica, infatti, si sviluppa costantemente in un rapporto di analogia per opposizione con la relazione semiotica, quasi a rimarcare la loro inscindibilità reciproca. Le ragioni di un simile atteggiamento sono illustrate solo in modo sommario da Hegel nelle lezioni di estetica, ma trovano una rigorosa base argomentativa nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio e, precisamente, nella parte dello Spirito soggettivo dedicata allo «spirito teoretico», ovvero quella sezione del sistema che, semplificando, potremmo equiparare a un’attuale teoria della conoscenza o epistemologia. Senza soffermarci ulteriormente su questi densi e decisivi paragrafi, ci basterà qui sottolineare come la terminologia piuttosto oscillante dei corsi cede il passo a un’argomentazione più rigorosa, dove le nozioni di simbolo e di segno vengono nettamente distinte e descritte in maniera particolareggiata, ma soprattutto ne viene evidenziato il legame genetico all’interno di un continuum processuale destinato a condurre l’intelligenza del singolo dalla dipendenza nei confronti del dato intuitivo alla libertà di ragionamento esemplificata dal medium universale del linguaggio. Al cuore di questo movimento di emancipazione verso l’autoconsapevolezza è collocata l’attività della «fantasia simboleggiante», denominata anche «poetica»: quest’ultima, seppur in maniera immediata e inconscia, porta alla luce quei significati che soltanto la «fantasia significatrice» libererà dalla soggezione all’intuizione, rendendo il nesso tra rappresentazione universale e immagine che la esibisce meramente arbitrario. Posto entro questa cornice di riferimento, l’andamento antifrastico di cui si è detto sopra risulta molto più comprensibile, poiché, se da un lato l’approdo alla sfera superiore del linguaggio avviene soltanto una volta che si sia sviluppato l’universo di rimandi convenzionali stabilito dai segni, dall’altro non è nemmeno possibile concepire una differenza tra significato universale e intuizione senza la previa opera di faticosa mediazione operata dal simbolo, che rimane ancorato alla presentazione intuitiva nel tentativo di mostrare una perfetta compenetrazione tra rappresentazione interna e immagine esterna.

Forti di questo indispensabile excursus, possiamo finalmente addentrarci nelle ulteriori ed essenziali caratterizzazioni assegnate da Hegel alla comunicazione simbolica in sede di filosofia dell’arte. Più avanti, sempre nel corso del 1823, leggiamo:

La seconda caratteristica del simbolo è però che il simbolo non è ancora interamente adeguato al proprio significato. L’immagine contiene in sé ancora di più di ciò di cui dovrebbe rappresentare il significato. Il toro per esempio è un antico simbolo della forza, della fecondità e di molte qualità. Il simbolo dunque è essenzialmente ambiguo.

La prima difficoltà sperimentata da chi si accinge a interpretare una rappresentazione simbolica è, dunque, racchiusa nella molteplicità di significati che una stessa forma sensibile può presentare, così come, viceversa, il medesimo concetto può trovare le più svariate raffigurazioni esteriori. Il fulcro dell’ambiguità, tuttavia, è altrove e risiede nella struttura generale del rimando simbolico:

Quando vediamo dinanzi a noi configurazioni di tal genere, sorge subito il dubbio se la configurazione sia simbolo oppure se sia espressamente posta come simbolo. Infatti qualcosa può essere simbolo, ma non essere posto come tale. [...] Quando la riflessione non è ancora proceduta tanto innanzi da contenere in sé, autonomamente, rappresentazioni generali, non è ancora in grado di tener fermi pensieri per sé, il pensiero interiore non è ancora messo in risalto per sé, e dunque la figura sensibile non è ancora intesa separatamente dal suo significato, anzi entrambi sono una cosa soltanto.

L’esistenza di un legame immediato e non arbitrario tra contenuto e immagine rende di per sé problematico capire se una determinata presentazione sia da intendersi come simbolica oppure no, perché, al contrario di quel che avviene nel caso del linguaggio, non abbiamo una legenda o un vocabolario esplicito sul quale possiamo fondare la nostra interpretazione. Le conseguenze di questa affermazione sono di capitale importanza per due ordini di ragioni. In primo luogo, l’analisi concettuale della significazione simbolica porta inevitabilmente con sé considerazioni di natura storico-filosofica, dal momento che le uniche produzioni simboliche in senso forte cadono soltanto in un preciso stadio di sviluppo della coscienza umana, ovvero il primordiale tentativo di distacco dalla natura che precede l’elaborazione del pensiero astratto o la «prosa della separatezza». D’altro canto, e siamo al risvolto complementare, tutte le creazioni che anche in seguito faranno uso di una modalità estetica di approccio ai contenuti spirituali saranno necessariamente accompagnate da una certa dose di inadeguatezza, al punto che Hegel arriva ad affermare che «anche l’arte classica possiede un lato di questa ambiguità, giacché è dubbio se dobbiamo fermarci all’immagine oppure se il contenuto è un contenuto ulteriore».

Il paradigma simbolico, quindi, è talmente connaturato al tipo di esibizione contenutistica esemplificato dalla sfera artistica che, anche quando, come nel caso della «fantasia poetica» e dell’arte classica, la corrispondenza tra interno ed esterno trova un equilibrio perfetto, tale compenetrazione si rivela solamente il temporaneo annuncio di una nuova dissoluzione e il punto di partenza, seppur irrinunciabile, per un medium comunicativo più completo ed efficace, ovvero il linguaggio di cui si serve la filosofia. È chiaro che tale messa in discussione del primato atemporale del modello classicistico e la sua relativizzazione storica in nome della natura intrinsecamente simbolica e instabile della comunicazione estetica producono un vero e proprio effetto di riorientamento gestaltico all’interno del dibattito sull’estetica hegeliana: essa, in questo modo, viene liberata dai tradizionali pregiudizi sulla parzialità del filosofo nonché sull’attenzione ossessiva riservata al contenuto spirituale a discapito dell’espressività artistica. Come si è visto, infatti, la relazione intrattenuta dalla forma con il significato costituisce semmai il proprium del linguaggio estetico e consente di dedicargli una sfera autonoma, seppur bisognosa con l’avvento del pensiero astratto dell’intervento chiarificatore della riflessione filosofica. Si può solo accennare, in conclusione, alle ripercussioni che una simile interpretazione provoca in riferimento alla celebre e discussa tesi sulla «morte dell’arte». Di certo nessuno potrà sostenere che si tratti di una tesi obsoleta e passatista, ma semmai che porti al centro della discussione un tema accompagnante la storia dell’arte moderna (se non altro) dalla nascita dell’estetica filosofica fino ai nostri giorni, vale a dire il rapporto tra opera d’arte e sua concettualizzazione.

Per saperne di più:

G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica. Corso del 1823. Nella trascrizione di H.G. Hotho (2000), trad. it. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari, 2004.

D’Angelo, Simbolo e arte in Hegel, Laterza, Roma-Bari, 1989.

Farina, Critica, simbolo e storia. La determinazione hegeliana dell’estetica, Edizioni ETS, Pisa, 2015.

J. Kwon, Hegels Bestimmung der Kunst. Die Bedeutung der „symbolischen Kunstform“ in Hegels Ästhetik - Fink, München, 2001

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