Come noto a tutti a causa del clamore mediatico, il 3 aprile 2021 la Repubblica Araba d’Egitto ha promosso una sfilata di mummie, nella cornice di una cerimonia estremamente pomposa, con la partecipazione attiva della massime autorità istituzionali. L’evento, denominato Pharaohs’ Golden Parade, decisamente finalizzato a catturare l’attenzione globale, ha suscitato forti critiche in Occidente, sollevando l’accusa di un uso strumentale del passato al fine di una legittimazione dell’attuale situazione politica in Egitto e, soprattutto, del suo presidente al-Sisi.

L'evento e il clamore suscitato potrebbero rappresentare lo spunto più recente per riflettere su una questione molto più ampia: l’uso del passato ai fini del presente e, più in generale, la sua capacità di veicolare un significato che va al di là della contingenza e che garantisce la possibilità di una sua sopravvivenza e vitalità anche post mortem.

Prima di intraprendere tale riflessione, è necessaria un’osservazione metodologica. Ci rapportiamo al passato tramite i suoi resti, parte di un tutto che non possediamo e che, molto probabilmente, nonostante il progresso continuo e nuove scoperte, non possederemo mai integralmente. Servendoci di questi come indizi, ricostruiamo ciò che manca.

Tuttavia, è indiscutibile che quanto viene ricostruito rappresenta una congettura di un soggetto, il quale si rapporta con una realtà che egli non conosce nella sua totalità: nonostante l’impiego della categoria della verosimiglianza e di raffinati strumenti metodologici, il prodotto che verrà fuori da tale operazione intellettuale sarà sempre, in una percentuale ineliminabile,  soggettivo, in quanto influenzato dall’autore della ricostruzione e dunque in primo luogo dal tempo in cui egli vive, il suo presente.

Per noi il passato è come un reperto restaurato che, per quanto possa avvicinarsi allo stadio originario dell’oggetto grazie all’abilità del restauratore, non rappresenta la sua esatta restituzione, in quanto è stato aggiunto del materiale non originale, da un’altra mano e in circostanze diverse: la ricostruzione prevede un intervento esterno, il contributo di un tempo estraneo a quel passato.

Inoltre, se la storia, l'indagine sull’uomo nel tempo, secondo la definizione data da Bloch nel celebre Apologia della storia, si pone in ultima istanza un fine esplicativo, di interpretazione delle vicende, allora il ruolo dello storico non può limitarsi alla produzione di un catalogo asettico e impersonale, senza ordine e logica, di fatti e dati relativi al passato: si tratta piuttosto di una loro elaborazione, organizzazione, al fine di ottenere un prodotto intellettuale capace di esplicare i rapporti fra gli eventi, renderli intelligibili nel loro contesto. Ma il raggiungimento di questo obiettivo ha un costo: mettere in ombra i dettagli meno rilevanti, fare ipotesi quando i dati non consentono di approdare a certezze indiscutibili, affinché il modello di interpretazione degli eventi sia coerente, razionale e convincente.

Ad esempio, J. de Romilly nel saggio La costruzione della verità in Tucidide mostra come, a proposito dei moventi della guerra del Peloponneso, lo storico ateniese metta in ombra una possibile causa, che comunque cita, il conflitto etnico fra Ioni e Dori, per sottolineare quella che, nella sua interpretazione globale, è la vera ragione dello scontro, l’imperialismo di Atene: anche uno storico che perseguiva un’assoluta obiettività come Tucidide compie dunque operazioni che compromettono la completa  imparzialità delle sue conclusioni. E questo accade perché Tucidide ha come obiettivo non la mera descrizione dei fatti, ma la costruzione di un modello utilizzabile anche nel presente.

Occorre precisare il senso della parola “oggettività” all’interno di questo discorso: con essa non si intende la faziosità, la deliberata narrazione di falsità, ma la dipendenza dal punto di vista di chi compie la ricerca storica e la presenza, in ogni ricostruzione, di elementi spuri, non originari; dunque del tutto inappropriato è un approccio positivista, tendente a uniformare il sapere storico alle scienze esatte e riconoscere ad esso la capacità di pervenire a una verità inoppugnabile.

Del resto, a proposito dello statuto della storia come scienza (umana e non esatta), proprio Tucidide rappresenta un momento costitutivo di fondamentale importanza, in contemporanea con la medicina ippocratica: sia Ippocrate sia Tucidide operano sulla base di alcune premesse teoriche comuni, entrambi cercano di formulare previsioni attraverso deduzioni generali tratte dall’esperienza del particolare, che però ammettono un margine di errore. Il dettaglio viene interpretato al di là del suo contesto contingente, esprime altro rispetto al suo significato originario: diventa un “possesso per sempre”, che può essere utilizzato in altri contesti, in quanto è stato trasferito dal piano del particolare a quello dell’universale, diviene un simbolo, nel caso di Tucidide per l’agire politico.

Tuttavia, è importante sottolineare che l’approccio dell’uomo al passato non ha (avuto) come fine solo la conoscenza o la curiosità, ma anche un uso sociale, permesso dalla possibilità di costruire, grazie alla vaghezza delle testimonianze disponibili, una versione di comodo a seconda dell’occasione. Eric Hobsbawm utilizza l’espressione di «usable past»  per definire questo passato mai avvenuto, costituito dal patrimonio di immagini che una certa età ha, a livello sociale, di esso e utile ai fini del presente o, come vorrebbe Nietzsche, per la vita. Esso non vale come conoscenza in sé, ma per la sua capacità di indurre all’azione o di legittimare una situazione, e le inevitabili distorsioni di ogni sguardo al passato favoriscono la creazione di immagini di questo tipo, in un processo molto più naturale di quanto si possa ritenere. Tutto questo è permesso dalla capacità del fatto storico di assurgere a simbolo, come illustrato in precedenza, assumendo cioè un significato al di là del suo particolare contesto.

Un caso esemplare dell’uso (o abuso) del passato ai fini del presente è il riferimento alla Costituzione dei Padri, di cui dobbiamo a Finley un’analisi estremamente fine. Con l’obiettivo di rendere evidente che il ricorso a tale mito non sia specifico di una civiltà o di una data epoca, Finley sceglie di presentare tre situazioni da contesti molto diversi, l’Atene classica, l’Inghilterra del XVII secolo e gli Stati Uniti di Roosevelt, accomunati, nonostante l’abisso temporale, dal comune riferimento all’autorevolezza politica di una figura di spicco del passato per dirimere controversie presenti. Tuttavia, tale pratica mostra evidenti ambiguità: l’uso di un personaggio non è univoco (Solone, ad esempio, con la sua “costituzione”, fu scelto a emblema sia del partito democratico sia di quello oligarchico) e neanche perfettamente giustificato e coerente (come mostra il richiamo di Roosevelt a una figura come Jefferson, certamente dotata di prestigio, ma le cui idee politiche non avevano molti punti in comune con le posizioni che Roosevelt intendeva appoggiare). Queste contraddizioni sono motivate dalla vaghezza della memoria condivisa del passato, dalle sue imprecisioni: si tratta di una storia per convincere, materia argomentativa, per cui non conta l’esattezza, ma la persuasività emotiva di tali simboli. E una ricostruzione più fedele e veritiera del passato, continua Finley, è persino deleteria al mantenimento di tale patrimonio sociale e perciò osteggiata o ignorata. A tal proposito, egli presenta il caso di Armodio e Aristogitone e del loro mito di tirannicidi, che, sebbene confutato da Tucidide  (il quale aveva dimostrato che i due avevano agito per un banale motivo passionale), era sopravvissuto, in quanto la comunità preferiva vedere in loro due eroi della democrazia, nonostante ciò non fosse vero.

Il significato simbolico del fatto storico non è univoco e immutabile, ma frutto dell’interpretazione del presente e, quindi, lo stesso fatto storico può essere letto diversamente anche nel corso del tempo o persino nello stesso momento da gruppo diversi, come rivela l’esempio citato di Solone.

Non è assolutamente indifferente con quale sguardo un’età scelga di rivolgersi al suo passato, ma tale aspetto ha una capacità di influenzare il corso della storia, di caratterizzarla, aspetto forse sottovalutato dalla storiografia che, probabilmente per il suo carattere prettamente evenemenziale, fino a tempi recenti non ha adeguatamente valutato il ruolo storico delle idee.

Tutte le interpretazioni del passato, non solo le più apertamente faziose,  hanno la loro agency, la loro vitalità e capacità di influenzare gli eventi: J. de Romilly confessa che la propria visione della guerra del Peloponneso fosse pesantemente influenzata da Tucidide e che senza la sua interpretazione forse avrebbe letto gli eventi diversamente. Oppure, più radicalmente, si pensi alla memoria di una dittatura passata per la tenuta della democrazia.

Per questo, come insisteva un grande intellettuale quale Arnaldo Momigliano, accanto agli eventi è altrettanto importante ricostruire una storia della storiografia, delle diverse letture date agli eventi del passato, nel panorama della storia delle idee, non trascurando ciò come se fosse una conoscenza di nicchia, anzi tenendo sempre a mente la loro capacità di plasmare gli eventi presenti e futuri.

Sorge spontanea, a questo punto, una domanda: da dove deriva questa proprietà del passato, o meglio, delle narrative all’interno delle quali ogni età legge gli eventi trascorsi? Se lo chiede anche Finley, che, rammaricandosi del fatto che un interrogativo di tale importanza non sia stato adeguatamente preso in considerazione dagli storici, avanza un tentativo di risposta: l’uomo ha il bisogno psicologico di percepire dietro di sé un passato solido su cui fondare le certezze del proprio presente. E cita a proposito un’affascinante proposta di lettura di H. Meyerhoff per l’Edipo Re, secondo cui il dramma metterebbe in scena la tragedia di un uomo a cui sono completamente crollate tutte le certezze proveniente del passato, garanzie per la propria identità.

Queste riflessioni dovrebbero spingere alla considerazione che la storia non è soltanto una conoscenza, affine ad altri saperi più o meno esatti, ma una componente, da tempo imprescindibile, delle dinamiche sociali: il passato, grazie alla sua sostanziale malleabilità, consentita dal naufragio delle fonti, è stato il terreno su cui il potere ha cercato la sua legittimazione, come dimostra, ad esempio, il ricorso alle genealogie o il caso citato della Costituzione dei Padri.

Anche se la ricerca storica e la riflessione a partire dalle fonti possono rappresentare una garanzia contro forzature eccessive, distruggendo miti infondati, il raggiungimento di una ricostruzione “incontaminata” resta, tuttavia, impossibile e questo, dunque, dovrebbe far riflettere più in profondità sulla parzialità di ogni versione, anche quella che si ritiene più “scientifica”. Non è solo una parata di mummie egizie in mondovisione ad abusare della storia, ma anche, sebbene a livelli di consapevolezza diversa e di gran lunga meno forzatamente, un qualsiasi allestimento museale o un qualsiasi saggio di storia, perché implicano delle scelte e influenzano il loro pubblico, con meccanismi non dissimili da quelli della Pharaohs' Golden Parade.

Il rapporto con il passato rientra a pieno diritto nelle “azioni” di un’età: non si dovrebbe mai dimenticare l’esistenza, oltre a quanto realmente accaduto, di passati sociali, varie versioni dei fatti, quello che il presente riesce e vuole vedere delle sue radici. Chi mira ad avvicinarsi a una reale conoscenza storica dovrebbe approcciarsi criticamente ad ogni versione, compresa la propria, che non può costituire un’eccezione.

La consapevolezza dei limiti di ogni ricostruzione, tuttavia, non dovrebbe indurre a uno scetticismo estremo e far dimenticare che una realtà storica vi fu. Il compito di preservarla e proteggerla, estremamente complesso ma necessario, comporta infatti difficili scelte di responsabilità, dal momento che scegliere una certa versione ha le sue profonde conseguenze culturali per il proprio presente.

Per saperne di più

Gli spunti su Tucidide sono tratti da La costruzione della verità in Tucidide di Jacqueline de Romilly. Per l’uso ideologico del passato e la differenza fra storia, come realtà dei fatti, e memoria, consiglio in particolare Uso e abuso della storia, di I. M. Finley (in particolare i capitoli I, II e III) e The death of the past di J. H. Plumb. Storia e memoria di Jacques le Goff è un testo decisamente esaustivo sull’argomento nel suo complesso, mentre Rapporti di forza di Carlo Ginzburg offre una chiave di lettura interessante al problema che ogni storia è una versione di parte, ma non tutte possono essere scartate allo stesso modo, così come non può essere negato il valore e l’importanza della ricerca storica.

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