Nel caso in cui qualcuno si sia mai chiesto: “quando incomincia la Storia?” ebbene, deve sapere che si è posto una domanda tutt’altro che semplice. Il significato della potenziale risposta va infatti al di là di una noiosa discussione tra studiosi. Partiamo da una considerazione di base. La Storia, come scrive Marc Bloch, ha come oggetto di indagine non il passato in senso lato, ma “l’uomo stesso e i suoi atti”. Essendo dunque una disciplina che si occupa di studiare le vicissitudini umane, dando una data d’inizio della Storia non si delimita solo il suo campo di ricerca: implicitamente, si stabilisce quando l’uomo comincia ad essere tale, quando acquista quelle caratteristiche che lo traghettano dalla Preistoria degli ominidi alla Storia dell’Umanità.

Se ponessimo la questione ad un qualsiasi pubblico, o andassimo a consultare testi scolastici di non molto tempo fa, la risposta alla domanda: “Quando incomincia la Storia?” potrebbe apparire semplice. La Storia incomincia fra il 5.000 e il 4.000 a.C. in Mesopotamia, con la nascita della scrittura nelle prime grandi civiltà del Medio Oriente, o della Mezzaluna Fertile. Con l’apertura della storiografia ad una concettualizzazione meno eurocentrica, qualcuno risponderebbe parlando delle grandi civiltà indiane o dei grandi fiumi della Cina.

Ovviamente la risposta a questa domanda non è sempre stata la stessa. Per secoli la Storia dell’uomo è cominciata nel giardino dell’Eden, ed ha risentito delle influenze della Storia Sacra. Questa idea, presente negli scrittori medievali come Eusebio, Gregorio di Tours e Otto von Freising affonda le proprie radici nella concezione classica dell’età dell’Oro. Uno dei più antichi scrittori greci di cui si hanno testimonianze, Esiodo, nella sua opera Le Opere e i Giorni (Έργα καί Ημέραι, Erga kai Hemerai), pone come prima epoca dell’umanità l’Età dell’Oro. Questo sarebbe stato un periodo di abbondanza, pace e prosperità nel quale gli uomini avevano vissuto liberi e in pace. Con l’avvento del cristianesimo, la cultura greco-latina viene “battezzata” e inscritta nel sistema di pensiero giudaico-cristiano. L’Età dell’Oro esiodea si trasforma nel Giardino dell’Eden.

L’idea che la Storia iniziasse con la Genesi tuttavia resisterà molto oltre la fine del Medioevo. La monumentale Storia del mondo in cinque volumi, di Sir Walter Raleghn prende avvio nel giardino dell’Eden, sebbene sia stata pubblicata all’inizio del diciassettesimo secolo. Anche la Storia Universale dello storico francese Bousset, del 1681, incominciava con il racconto mitico di Adamo ed Eva. Per questi storici pre-illuministi, ma che comunque non erano immuni al razionalismo del Seicento (si pensi ai grandi filosofi razionalisti di quel secolo come Descartes e Leibniz), l’inizio dell’umanità coincideva con quello della Terra e della creazione. Fino al diciassettesimo secolo la vita della Terra secondo la maggioranza degli studiosi variava dai 3.700 ai 6.000 anni.

Ancor prima delle scoperte dei primi geologi sull’età della Terra, tra gli anni ’30 e i ’60 dell’Ottocento, questa cronologia, detta Mosaica, venne messa in crisi dal contatto che i viaggiatori europei ebbero con altre culture. La Cosmologia cinese, infatti, nel sedicesimo secolo datava l’inizio dei tempi a circa 880.000 anni prima, e comunque teneva note “certe” di eventi che erano accaduti 660 anni prima del “Diluvio”, evento cardine nella cronologia biblica, che risaliva ad un massimo di 6000 anni. Una soluzione consistette nell’utilizzare una nuova unità di misura al posto delle generazioni bibliche. Ciò consentiva di aggiungere circa 1.440 anni e di aggirare, seppur parzialmente, il problema posto dalla mancata collimazione delle due cronologie.

La cronologia biblica inoltre forniva agli storici dell’Età Moderna la possibilità di comprimere ulteriormente l’area di indagine utilizzando il “Diluvio Universale”. Secondo molti pensatori dei secoli sedicesimo e diciassettesimo infatti, il Diluvio aveva riportato a zero le lancette della civiltà umana, distruggendo qualsiasi forma di documento che potesse rendere conoscibile quel passato.

«Senza documenti, non c’è storia», solevano dire Charles Langlois e Charles Seignobos, autori de Introduzione allo studio della Storia, che nella traduzione inglese per tre decenni (a partire dal 1898) rappresentò l’introduzione più importante per gli studenti di lingua inglese. Per il grande storico napoletano Giambattista Vico, che in seguito assieme a Leopold Von Ranke verrà ritenuto uno dei padri della storiografia moderna, il Diluvio segnava una vera e propria rottura epistemologica tra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è. Robert Jacques Turgot, economista francese e Controleur général delle finanze reali sotto lo sfortunato Luigi XVI, nel suo libro Indagine filosofica sull’avanzamento dell’Intelletto umano ci spiega che:

«L’urgente bisogno di procurarsi mezzi di sussistenza in deserti inospitali, che non erano popolati da altro se non da bestie selvagge, obbligò gli uomini a disperdersi in tutte le direzioni e a diffondersi per tutta la Terra. Presto le tradizioni originali furono dimenticate, e le nazioni, separate da vaste distanze e ancor di più dalla diversità delle lingue, furono spinti nello stesso stato di barbarie in cui ora vediamo i selvaggi americani».

Anche l’erudito parigino Antoine-Yves Gouget nel suo libro più famoso, De l’origine des lois, des artes et des sciences, spiegava come il Diluvio avesse portato gli uomini a dimenticare conoscenze che in precedenza gli consentivano la lavorazione del ferro.

Paradossalmente questa visione della Storia era fortemente influenzata dal razionalismo seicentesco e settecentesco. L’età dei Lumi scartò l’idea di una Storia vista come una caduta da una mitica età dell’oro e tese a vederla come un progresso della ragione umana e della tecnica che avevano sollevato l’uomo da una prima fase di barbarie. Questa idea sembrava trovare conferma nell’osservazione che gli antropologi dell’epoca avevano condotto sulle popolazioni “selvagge” del Nuovo Mondo d’Asia e Oceania. Il tempo “al di là” del Diluvio dunque, volendo utilizzare dei termini kantiani, altro non era che una sorta di noumeno della Storia: inconoscibile sotto ogni aspetto.

Tuttavia, il nostro paziente lettore potrebbe obiettare dicendo che queste concezioni del passato dell’Umanità sono precedenti al Positivismo degli ultimi due secoli. Da tempo la Scienza Storica possiede un metodo scientifico più rigoroso, inoltre le nostre teorie odierne sull’inizio della Storia e sulla conoscibilità del passato si sono immensamente evolute. Siamo sicuri che sia davvero così?

Secondo lo storico medievale Daniel Smail, non ci siamo affatto liberati dalla Storia Sacra. Tutto ciò che abbiamo fatto è stato laicizzarla: la nascita dell’uomo è divenuta semplicemente la nascita della civiltà, conservando il tempo della Storia “compresso”. In molti manuali, scolastici e non, si trova ancora, quale data d’inizio della Storia una data compresa tra il 4.000 e il 5.000 a.C., con spartiacque la comparsa della scrittura in Mesopotamia. Un numero di anni non troppo diverso dai seimila che la cronologia mosaica indicava come età della Terra. Non solo, anche le catastrofi bibliche sono sopravvissute nella teorizzazione degli storici, sebbene sotto altre vesti.

Prendiamo ad esempio due testi scritti fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1899 lo storico Arthur Richmond Marsh pubblica l’introduzione al volume di Henry Hallam History of Europe during the Middle Ages. Influenzati profondamente dalle scoperte fatte in campo geologico e dalle idee di evoluzione biologica dei popoli, gli storici statunitensi di quel periodo videro i barbari che distrussero l’Impero Romano, e che diedero avvio al medioevo, alla stregua dei “primitivi” delle Americhe tanto che un altro storico dell’epoca, Ferguson, paragonò esplicitamente Galli, Britanni e Germani ai nativi nord-americani. Questi invasori, nella teorizzazione degli storici statunitensi, avevano talmente influenzato e corrotto il mondo latino, da renderlo difficilmente conoscibile. Oltre a ciò, il mondo da cui erano discesi gli Stati nazione ed i popoli era un mondo palesemente medioevale, ed era quindi l’unico nostro possibile progenitore e l’unico di cui fosse lecito interessarci.

Ancora nel 1903, Robinson pubblica An Introduction to the History of Western Europe, nel quale scrive:

«Una delle domande più difficili alle quali uno storico deve rispondere concerne quella che gli domanda in quale momento incomincia la sua narrazione. Quanto dobbiamo risalire indietro nel tempo? Scoperte recenti dimostrano che l’essere umano ha cacciato e vagato per il mondo negli ultimi centinaia di migliaia di anni prima che si stanziasse».

Anche Robinson affermava che, dato che la nostra civiltà discende direttamente dalla fusione dei due mondi romano e barbarico, non c’è bisogno di risalire oltre nel tempo. Riproporrà poi questa idea nel suo volume del 1926 The Ordeal of Civilization.

Tutto ciò che abbiamo fatto dal Seicento razionalista in poi dunque, altro non è stato che dare vesti nuove a preconcetti della Storia Sacra, trasformando il Diluvio biblico in un Diluvio di barbari che aveva reso impossibile, o anche semplicemente inutile, conoscere ciò che era stato prima della fusione tra il mondo latino e quello germanico.

Questa tendenza a comprimere il tempo nel quale l’umanità è stata effettivamente tale come abbiamo detto si scontrò duramente con “l’estensione” del tempo geologico che avvenne negli anni ’60 dell’Ottocento. Il biologo americano Stephen Jay Gould la definì una rivoluzione di proporzioni galileiane.

Come si è già detto, la principale ragione per la quale gli storici per secoli hanno “compresso” lo spazio dedicato alla Storia nel corso dell’epopea umana, separandola dalla preistoria, è dovuto alla supposta mancanza di documenti lasciatici da quella età, soprattutto scritti. Tuttavia questo semplice assioma «no documenti, no Storia» può essere messo in crisi. Anche branche “classiche” della disciplina storica negli ultimi centocinquanta anni sono impensabili da costruire senza l’utilizzo di fonti “non scritte”. Si pensi all’archeologia, che spesso ha confermato le testimonianze lasciateci dalle fonti antiche, ma che altrettanto spesso le ha smentite. Come ci ricorda giustamente Marc Bloch

«è nella seconda categoria di testimonianze (quelle non scritte e non intenzionali), è nei testimoni loro malgrado che la ricerca storica, è stata indotta a riporre sempre maggiore fiducia. Confrontate la storia romana come la scrivevano Rollin o lo stesso Niebuhr, con quella che qualunque compendio mette oggi sotto i nostri occhi: la prima, che attingeva il meglio della sua sostanza da Tito Livio, Svetonio o Floro, la seconda, che è costruita, con iscrizioni, papiri, monete. Interi brani del passato non hanno potuto essere ricostituiti altro che in questo modo: tutta la preistoria, quasi tutta la storia economica, quasi tutta la storia delle strutture sociali. Persino nel presente, chi di noi non preferirebbe aver in mano, più che tutti i giornali del 1938 o del 1939, qualche documento segreto di cancelleria, qualche confidenziale rapporto di comandanti in capo?»

Ad ogni modo, ci ha aiutato a ricostruire con più esattezza e precisione epoche distanti. Lo stesso dicasi per l’Età medievale, per la quale i documenti scritti di certo non abbondano, soprattutto per quanto riguarda l’Alto medioevo. Tuttavia anche epoche più recenti ad oggi sarebbero più difficili da ricostruire con le sole fonti scritte. Nel 1948 a New York, nella Columbia University, nasce il primo archivio di Storia Orale. Il fondatore, lo storico e giornalista americano Allan Nevins, lo fonda con la precisa intenzione di dare voce ad individui che nel loro transitare attraverso la Storia non sono soliti lasciare testimonianze scritte, così da lasciare alle future generazioni testimonianze che da altre epoche non ci sono pervenute. Le criticità connesse alle testimonianze scritte saranno tuttavia oggetto della seconda parte dell’articolo.

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