Per ben intendere quale fosse il concetto e il significato di giustizia nell’antica Grecia e nell’antica Roma risulta per prima cosa necessario analizzare etimologicamente il significato originario di molti termini che noi tendiamo a inglobare e tradurre senza evidenziare le necessarie differenze che intercorrono tra essi. Con il termine Themis si intende una legge di origine sovrannaturale e trascendente, precedente alla comunità stessa; Themis è la legge umana e naturale che viene posta all’uomo dall’alto in quanto dettata dagli dei (dal verbo greco tithemi, ‘porre’). Sulle origini etimologiche di Dike, invece, si è a lungo dibattuto: oggi si tende ad attribuire al termine il duplice significato di ‘giudizio, decisione’ e di ‘comportamento giusto e corretto’. Si associa, dunque, a questo termine un significato prettamente giuridico, ma tale interpretazione potrebbe causare ulteriori problemi e fraintendimenti: infatti, risulta necessario riconoscere un legame, legittimato dal mito, tra Themis e Dike, sottraendo quest’ultima al campo meramente giuridico e pragmatico. Dike, da interpretare come giustizia umana, diventa il legame tra l’ordine cosmico e religioso espresso da Themis e gli interessi del singolo e della comunità. Themis, quindi, sotto certi aspetti diventa comprensibile e vicina agli uomini grazie a Dike e di quest’ultima rappresenta la fonte, l’archè: nel mito, questo rapporto è espresso dal fatto che Dike sia considerata figlia di Zeus e Themis. Nomos è, invece, è la legge dell’uomo, che si contrappone o si identifica, secondo le diverse visioni e prospettive, con la legge naturale fin qui analizzata; è la ratificazione di norme, l’ordine espresso dalla legge, «il testo visibile della giustizia» (Cacciari-Irti 2019).

Ora il problema risiede nell’individuare il rapporto tra Nomos e Dike, tra potere e giustizia, tra legge dello Stato e legge interiore, nel cogliere questo rapporto nella sua evoluzione storica e nel ricostruire le riflessioni che su di esso sono state elaborate nel corso del tempo.

La nascita del nomos è successiva alla nascita stessa della polis ed è strettamente legata a essa in quanto il suo fine è evitare controversie tra gli uomini della comunità. Nell’antica polis vi era una perfetta coincidenza tra nomos, ovvero il diritto codificato, e dike, ovvero la giustizia come valore assoluto, trascendente e antecedente il nomos stesso. Rispettare il nomos, quindi, significava rispettare la dike e allo stesso modo trasgredirlo voleva dire andare contro l’ordine prestabilito dagli dei e commettere atto empio. Il potere della città e la forza delle leggi, dunque, trovavano una giustificazione e legittimazione in nome di un ordine superiore, dettato dagli dei e per questo sacro e inviolabile: in questo oggi possiamo accusare un uso strumentalizzato, secondo il modello machiavelliano, della religione, chiamata a giustificare l’applicazione di un sistema politico, ma in realtà è opportuno tenere a mente che questa dimensione rappresentava per gli antichi greci e gli antichi romani la dimensione reale ed effettiva delle cose e, dunque, era per loro naturale considerare la legge e il potere costituito come l’espressione della volontà divina.

Ripercorrere la storia per comprendere quando e dove sia avvenuta l’innegabile spaccatura tra  nomos e dike non è certo compito facile e immediato. Luogo in cui si manifestano, anche secondo l’opinione di Hegel, i laceranti conflitti dialettici che la cultura e la polis greca custodiscono segretamente al loro interno è il teatro, e in particolare la tragedia. Così, Sofocle, mettendo in scena la sua avvincente e temeraria Antigone, mostra a tutti i suoi spettatori l’esistenza di un conflitto insanabile, quello tra legge interiore e legge di Stato. Antigone è considerata da Hegel la spaccatura, l’antitesi, la negazione dell’eticità greca in cui l’individuo viveva in perfetta armonia con la polis, con la natura e con la divinità: l’eroina non sente più sue le leggi della polis, leggi stilate da uomini, rappresentati in questo caso dalla figura dello zio Creonte. Non vuole obbedirvi perché le avverte ormai immensamente distanti e diverse dalle leggi che gli dei, il suo cuore, il suo sangue e la sua moralità le dettano. Di fronte a questa spaccatura tra nomos e dike, di fronte a una legge sbagliata, Antigone sceglie, d’impulso ma comunque con grande consapevolezza, di seguire le leggi divine, molto più antiche, certamente più forti e importanti di quelle fissate dagli uomini e totalmente coincidenti con i valori che sente crescere dentro di sé.

Tuttavia, davanti a questa spaccatura, quella di Antigone non è l’unica via percorribile: la sorella Ismene, ad esempio, sceglie di non seguirla e di rispettare la legge. Un ulteriore esempio ci è fornito dal comportamento di Socrate alla sua morte, narrataci da Platone nel Critone: Socrate decide di rispettare fino alla fine quelle leggi umane che ingiustamente l’hanno condannato a morte, decide di non tradirle in nome di un principio più grande, ovvero la necessità di preservare, custodire e obbedire alla polis in qualunque caso. Socrate avverte costantemente la presenza delle leggi e immagina che queste gravino e veglino su di lui, controllando il suo operato e quello di tutti gli altri cittadini, e proprio per questo motivo Platone concede loro la parola con l’espediente della prosopopea. La scissione, nel caso di Socrate, può considerarsi già avvenuta, in quanto le leggi della città discordano con ciò che è realmente giusto e morale, ma in relazione a tale incoerenza l’atteggiamento di Socrate è totalmente diverso da quello adottato da Antigone e simile, invece, seppur vissuto con maggior cognizione di causa, consapevolezza e coraggio, a quello adottato dalla rispettosa Ismene. Antigone e Socrate, pertanto, rappresentano due modi antitetici di porsi di fronte all’ingiustizia del nomos, che, scisso dalla dike, diventa contestabile e opinabile.

Un’altra spaccatura nel mondo antico avviene con i sofisti, che, forse per primi da un punto di vista filosofico, affermano e determinano la scissione tra nomos e dike, separando dunque il primo da qualsiasi richiamo alle leggi di natura o ai legami religiosi ed etici, che rimangono invece prerogative della seconda. Teorizzando un relativismo gnoseologico per cui non esistono una verità assoluta e un bene assoluto, ma solamente verità individuali e fini egoistici, si giunge alla conclusione che non possono esistere leggi oggettive, valide e giuste per tutti. La polis, dunque, diventa, lo scenario di una continua lotta tra interessi egoistici e discordanti. Compito dei sofisti, spesso e a lungo criticati per la loro attività, era insegnare ai propri alunni l’arte del persuadere per far trionfare le proprie ragioni su quelle altrui. Appurata la scissione tra leggi dello stato e leggi di natura e ormai lontani da quel senso di armonia della bella eticità greca, resta da capire secondo quali meccanismi e con quali fini vengano emanate tali leggi, ormai considerate, almeno dai sofisti, slegate dalla dike.

Nella Repubblica Platone mette in scena un dialogo tra Socrate e Trasimaco e attribuisce al secondo l’idea secondo la quale le leggi, considerate erroneamente il “giusto”, sono solo l’espressione dell’utile dei potenti: non sono giuste in senso assoluto o per tutti gli uomini, ma vengono spacciate per tali da chi dimostra di essere superiore agli altri. Le leggi civili esprimono gli interessi individuali di pochi, dei potenti, dei governatori, ma allo stesso tempo vengono considerate espressione di giustizia, lasciando che quest’ultima assuma un carattere ipocrita e strumentale. Secondo questa prospettiva, la legge non rimane sempre invariata, cosa che accadrebbe se fosse espressione dell’immutabile legge di natura, ma cambia continuamente per meglio esprimere e soddisfare gli interessi di chi conquista il potere ed esercita la sua influenza. Ciò emerge chiaramente anche da una riflessione di Nietzsche, che così si esprime nell’aforisma 472 di Umano, troppo umano: «Nessuno sentirà verso una legge altro obbligo che quello di inchinarsi per il momento al potere che avrà introdotto la legge, per poi subito rivolgersi a minarla con un nuovo potere, con una maggioranza di nuova formazione».

Secondo l’opinione di Callicle (espressa ancora una volta in un’opera di Platone, il Gorgia) le leggi civili sono, anche in questo caso, lontane dalle leggi di natura ed espressione della volontà di chi comanda, ma chi comanda nella sua prospettiva non è il più forte, bensì il più debole. I deboli, attraverso le leggi, fanno in modo di tenere sotto controllo le personalità forti, che, in caso contrario, non avrebbero difficoltà a prevalere; in questo modo, propugnano un ideale di uguaglianza che, nell’ottica di Callicle, è contro natura: in natura, per gli uomini così come per gli animali, vige la regola del più forte, ma tale norma viene oscurata e nascosta dalle leggi civili, che i deboli adottano per evitare che affiori in superficie.

Nel De officiis, Cicerone ci fornisce un’ulteriore prospettiva per analizzare l’utile: infatti, se questo è considerato dal soggettivismo sofistico variabile da uomo a uomo, egli invece vi riscontra la presenza di leggi universali, dunque valide per tutti i cittadini: l’utile segue le leggi di natura e non può coesistere con il turpe, ma è al contrario in tutto ciò che è buono e onesto, finendo in tal modo per coincidere con il sommo bene, il bene di tutta la comunità. Dato che è secondo natura seguire l’utile e in questo consiste la virtù, le leggi tendono naturalmente a questo fine e mirano alla conservazione della comunità tutta e al conseguimento dell’utile comune, che è sempre preferibile a quello personale. Quindi, vi è un ritorno a una dimensione che assomiglia a quella originaria della polis greca, un ritorno del nomos all’interno dei confini della dike o comunque all’interno di un interesse comunitario e condiviso. Tuttavia, è bene considerare che Cicerone vive nel pieno dell’età repubblicana e, figlio del suo tempo, ha inevitabilmente una visione di giustizia differente rispetto a quella che andrà ad affermarsi nel periodo imperiale: l’adempimento della legge era strettamente connesso all’applicazione del mos maiorum e dunque era massima aspirazione per tutti i cittadini e gli uomini di Roma. Quando la Repubblica cade, con l’inaugurarsi dell’età imperiale, la prospettiva muta significativamente: il Senato perde importanza e influenza, le decisioni e le emissioni di leggi spettano al principe o a un consiglio ristretto, che svolge comunque un ruolo consultivo e non decisionale, e qualsiasi infrazione della legge è punita con una repressione più dura rispetto a quella dell’epoca repubblicana. Lo Stato cade inesorabilmente nelle mani di un singolo uomo e la sua stessa esistenza dipende dalla sola volontà di questi. Nel periodo imperiale si attestano prìncipi buoni, moderati, rispettosi della tradizione e dei buoni valori che in essa si incarnano, ma anche governatori crudeli e dispotici, le cui decisioni possono risultare poco condivisibili, ingiuste e immorali. Ancora una volta, ricorre il problema del comportamento di uomini e cittadini di fronte a un potere dispotico e della conservazione di una virtus anche in relazione a esso. Un esempio ci viene fornito da Tacito, che nel suo De vita Iulii Agricolae traccia un elogio della figura del suocero, sottolineandone i successi, il carattere e le grandi virtù. Agricola è, secondo il parere di Tacito, un illustre esempio del comportamento che ogni buon cittadino deve tenere nei confronti di un potere dispotico e spesso ingiusto, in questo specifico caso quello di Domiziano: in nome del benessere e del vantaggio dello Stato, bisogna disporsi su una via intermedia, evitando l’avventato e vile servilismo, ma anche l’ostentata opposizione e resistenza al potere, che, seppur coraggiosa, nell’ottica di Tacito non giova allo Stato; bisogna mantenere una certa libertà di riflessione e di azione, senza però porsi in aperto contrasto. Ai giorni nostri, un esempio  del primo atteggiamento, servile e ossequioso, sono senza dubbio i gerarchi nazisti che, durante il processo di Norimberga intentato contro le loro disumane azioni, giustificarono queste ultime in nome dell’adempimento di un ordine proveniente da un potere superiore e, dunque, per loro inviolabile e indiscutibile, seppur contrario a tutti i valori morali ed umani: senza dubbio, la scissione tra ciò che è giusto per legge e ciò che è giusto per natura ha toccato l’apice della sua espressione proprio durante il secolo XX. Manifestazione del secondo comportamento, quello di aperta ribellione al potere, appare invece l’atteggiamento della Resistenza, che strenuamente lottò contro il potere fascista in chiara e dichiarata opposizione a esso. Pur considerandolo certamente degno di encomio e di riconoscenza e pur apprezzandolo di più dell’ingenuo servilismo, Tacito non riconosce neanche in questo atteggiamento un’ottima risposta a un potere ingiusto e afferma l’importanza di una sintesi, equilibrata e ragionata, tra questi due modi d’agire.

Sul contrasto tra legge di Stato e potere da un lato e legge interiore, morale ed etica dall’altro, indubbiamente, è difficile, se non impossibile, effettuare una valutazione rigida, oggettiva e applicabile in qualunque occasione e circostanza, dato che non solo le leggi, ma anche l’etica e la morale variano muovendosi nel tempo e nello spazio, e spesso anche da un individuo a un altro. Ed è anche difficile affermare se sia preferibile adempiere le leggi di Stato, in quanto uguali per tutti, o seguire le leggi interiori, che, se considerate soggettive e personali, sovvertono il principio stesso di uguaglianza e rischiano di sfociare in un’anarchia generata da volontà e intenzioni sempre diverse e sempre nuove. Invece, nel considerare la moralità uguale per tutti gli individui e per tutti i cittadini, bisogna definire il rapporto di dipendenza tra essa e la legge positiva, e dunque valutare se la morale preceda il diritto, che si basa su di essa (Kant), o se dal diritto derivi la morale collettiva in quanto interiorizzazione, applicazione ed evoluzione del primo (Hegel nell’espressione del concetto dello Spirito oggettivo). In tutto ciò bisogna inserire il “fattore istinto” e considerare nell’individuo non solo un elemento razionale, ma anche un’entità irrazionale e inconscia che spesso porta ad agire con inconsapevolezza e di certo tralasciando alcune tappe del necessario ragionamento equilibrato che tenga eventualmente conto tanto della legge positiva quando di quella interiore: in questa prospettiva, risulta necessaria l’esistenza e l’adempimento delle leggi per evitare uno stato confusionario, contrastante e di conseguenza nocivo.

Per saperne di più

Massimo Cacciari-Natalino Irti (2019), Elogio del diritto, La nave di Teseo.

Cicerone (ed. 2019) , _De officiis,_a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese, Einaudi.

Friedrich Nietzsche (1979 [1878]), Umano, troppo umano, ed. italiana a cura di Sossio Giametta, Adelphi.

Platone, Apologia di Socrate-Critone (ed. 2013), a cura di Maria Michela Sassi, Rizzoli, BUR classici greci e latini.

Platone, Gorgia (ed. 2001), a cura di Giovanni Reale, Bompiani.

Platone, La Repubblica (ed. 2007), a cura di Mario Vegetti, Rizzoli, BUR classici greci e latini.

Sofocle, Antigone (ed. 2017), a cura di Massimo Cacciari, traduzione di Federica Montevecchi, Einaudi.

Tacito, Agricola (ed. 2017), a cura di Sergio Audano, Rusconi Libri.

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