di Manuela Marcella Impoco

Con una recente sentenza il Giudice di legittimità si è trovato ad affrontare l’interessante questione della qualificazione giuridica di una missiva con la quale il produttore di un bene, nella specie elettropompe, riconosceva nei confronti dell’acquirente la sussistenza di vizi della merce prodotta impegnandosi, altresì, ad eliminarli, pur essendo terzo estraneo rispetto al contratto di compravendita.

In particolare, il predetto macchinario, esente da vizi di costruzione al momento dell’acquisto, si era successivamente rivelato inidoneo all’uso al quale era destinato, ovvero lo smaltimento di acque putride e salmastre, uso di cui la ditta produttrice non era stata preventivamente posta a conoscenza e che, inevitabilmente, ne aveva provocato l’avaria.

La Corte di Cassazione, confermando la decisione del Giudice di appello, con sentenza del 12 ottobre 2009, n. 21621, ha affermato la responsabilità per inadempimento della società produttrice a quanto si era impegnata con la suddetta missiva chiarendo che la stessa, con tale dichiarazione, aveva assunto un autonomo contratto di garanzia, suscettibile di risoluzione per inadempimento.

Al riguardo, i giudici hanno qualificato il negozio procedendo all’interpretazione della volontà manifestata con la missiva di cui si discute, documento dal quale era emerso che la società produttrice aveva riconosciuto non solo di avere fornito macchinari inadeguati ma anche posto in essere interventi correttivi al fine di consentirne l’utilizzabilità.

Invero, la sentenza ha ritenuto che “ai fini di configurare la conclusione di un negozio che le parti abbiano inteso di stipulare nell’ambito dell’autonomia privata, non è di certo ostacolo la circostanza che la ricorrente – produttrice delle elettropompe – fosse terzo rispetto al contratto di compravendita, posto che l’impegno assunto non era inerente all’obbligazione di garanzia che il venditore deve fornire in ordine all’idoneità della cosa compravenduta”.

La peculiarità nonché il carattere innovativo del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte nella sentenza 12 ottobre 2009, n. 21621, richiede tuttavia un preliminare esame degli istituti giuridici coinvolti.

Come noto, il contratto autonomo di garanzia costituisce una forma atipica di garanzia personale nata sulle fondamenta dell’istituto fideiussorio al quale, tuttavia, si contrappone in virtù del carattere dell’autonomia (Cass. Civ., Sez. III, 28 febbraio 2007, n. 4661, in Giust. Civ. Mass., 2007, 2. La differenza con la fideiussione, invero, deve essere ricercata sul piano dell’autonomia e non su quello della causa, in quanto la causa di garanzia può connotare sia contratti autonomi che accessori, come la fideiussione, sia contratti in cui autonomia e accessorietà subiscono limitazioni e graduazioni. Pertanto, per distinguere le due figure contrattuali non è decisivo l’impiego di espressioni quali “a prima richiesta” o “a semplice richiesta scritta”, ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l’obbligazione principale e quella di garanzia).

Questa figura contrattuale, le cui origini si rinvengono nelle esigenze proprie del commercio internazionale di salvaguardare l’adempimento di una prestazione tra soggetti appartenenti a sistemi giuridici differenti (G. Chinè, Contratto autonomo di garanzia, in Enc. Giur. Treccani, IX, Roma, 2007, 2. Secondo l’autore, il contratto autonomo di garanzia trae origine dall’esigenza di evitare che le differenze di disciplina applicabile ai rapporti nati nell’ambito del commercio internazionale, potessero interferire negativamente sullo sviluppo degli stessi disincentivandoli ed imponendo il rilascio di garanzie cauzionali con conseguenti antieconomiche immobilizzazioni di ricchezza), può definirsi come il contratto in base al quale il garante si obbliga ad eseguire a prima o semplice richiesta del creditore e senza possibilità di sollevare eccezioni relative al rapporto sottostante, la prestazione dovuta dal debitore o una prestazione indennitaria contrattualmente stabilita indipendentemente dall’esistenza, validità e coercibilità dell’obbligazione garantita (A. Giusti, La fideiussione ed il mandato di credito, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, XVIII, 3, Milano, 1998, 315).

La funzione cui assolve la clausola “a prima richiesta” è essenzialmente quella di dispensare il beneficiario dalla prova dei presupposti legittimanti la pretesa senza subire, altresì, il rischio connesso all’opposizione di eccezioni attinenti al rapporto garantito (M. Viale, Le garanzie bancarie, in Trattato diritto commerciale Galgano, XVIII, Padova, 1994, 182 ss. Con la clausola “a prima richiesta”, pertanto, il beneficiario ottiene la medesima sicurezza che gli deriverebbe da un deposito cauzionale in denaro, con in più il vantaggio di evitare antieconomiche immobilizzazioni di ricchezza).

Tuttavia, va rilevato che l’autonomia fra i due vincoli giuridici non è intesa in senso assoluto non potendo essa permettere, ai sensi dell’art. 1322 c.c., il perseguimento di fini non consentiti dall’ordinamento giuridico; pertanto, è sottoposta ai principi ed alle clausole generali di questo (Cass. Civ., Sez. I, 14 dicembre 2007, n, 26262, in Giust. Civ. Mass, 2007, 12. L’autonomia sul piano delle eccezioni dispiegabili dal garante non può estendersi fino al punto di vietare a quest’ultimo di proporre quelle di nullità del negozio presupposto basate sulla contrarietà di quest’ultimo a norme imperative o sull’illiceità della relativa causa).

La comparsa di questa particolare garanzia atipica nella prassi, la cui validità è ormai indiscussa, ha in passato indotto la dottrina ad interrogarsi sull’esistenza di una causa cui subordinare la validità del contratto, interrogativo positivamente sciolto da un’autorevole dottrina la quale, per rendere causale la garanzia a prima richiesta, ha ritenuto sufficiente che le parti nel testo contrattuale facessero riferimento al rapporto fondamentale sottostante (G.B. Portale, Fideiussione e «Garantievertrag» nella prassi bancaria, in Le operazioni bancarie, a cura di Portale, II, Milano, 1978, 1044 ss. Secondo l’autore, nel contratto autonomo di garanzia non si farebbe menzione del fondamento della prestazione, ossia del rapporto obbligatorio garantito, pertanto, questa figura contrattuale non integrerebbe fattispecie di negozio astratto dovendosene ravvisare la causa all’esterno, ovvero nell’indicazione dello scopo di garanzia per cui le parti hanno stipulato l’accordo. Da ciò ne deriva che la mancanza ab origine di tale ragione o il suo venir meno in corso di rapporto non determinerebbe la nullità del contratto, legittimando esclusivamente l’azionabilità della condictio indebiti per ripetere le eventuali prestazioni già eseguite).

Tuttavia, anche alla luce della recente tendenza manifestata dalla giurisprudenza in tema di causa, sembra trovare maggiori consensi quella tesi che individua nella causa di garanzia lo scopo pratico perseguito dalle parti, ovvero, l’intento dei contraenti di garantire al beneficiario, a prima richiesta e senza eccezioni, un dato valore economico determinato per relationem con riferimento ad una prestazione dedotta nel rapporto contrattuale sottostante (G. Chinè, op. cit., 4. Tale causa, dunque, più che all’esterno del negozio deve essere ricercata all’interno dello stesso).

La causa del contratto garanzia, dunque, risulta essere quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole o meno: infatti, la prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da quella dovuta dal debitore principale, concretandosi nell’assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento (Cass. Civ., SS.UU., 18 febbraio 2010, n. 3947, in Giust. Civ. Mass., 2010, II. Il contratto autonomo di garanzia, per la sua indipendenza dall’obbligazione principale, si distingue dalla fideiussione giacché mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga direttamente ad adempiere, il garante si obbliga a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore).

Quanto alla struttura, la garanzia autonoma presuppone una pluralità di rapporti contrattuali tra essi collegati, inserendosi all’interno di un’operazione complessa che coinvolge tre distinti soggetti.

Un primo rapporto contrattuale, cd. rapporto base o di valuta, intercorre tra l’ordinante la garanzia ed il beneficiario; un secondo rapporto, cd. rapporto di provvista, intercorre tra l’ordinante ed il garante, normalmente un istituto di credito o assicurativo, al quale il primo conferisce l’incarico di rilasciare una garanzia autonoma a favore del beneficiario. Tale rapporto, è riconducibile ad un contratto di mandato che, in quanto stipulato anche nell’interesse del beneficiario, è irrevocabile ai sensi dell’art. 1723, comma 2, c.c.

A concludere l’operazione triangolare è il terzo rapporto, costituito proprio dal contratto di garanzia stipulato tra il garante ed il beneficiario, con il quale l’istituto di credito o assicurativo si impegna ad adempiere ad una determinata prestazione pecuniaria “a prima richiesta e senza eccezioni” .

In quanto costitutivo di obbligazioni in capo al solo garante, il contratto di garanzia si conclude in caso di mancato rifiuto della proposta da parte dell’oblato, dunque, secondo lo schema dell’art. 1333 c.c. (In generale, sulla conclusione del contratto autonomo di garanzia, P. Corrias, Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, 478 ss. Per il rilascio di garanzie autonome, nella prassi, l’istituto di credito o assicurativo è solito inviare una lettera, che normalmente non riceve risposta, all’indirizzo del beneficiario con la quale manifesta la propria volontà unilaterale di costituirsi garante per un’obbligazione assunta da un terzo).

Nella prassi commerciale la garanzia autonoma assume una molteplicità di forme che, in relazione al risultato che la garanzia stessa mira a soddisfare, si possono ricondurre a tre tipologie fondamentali: a) garanzia di mantenimento dell’offerta, cd. Bid Bond, in cui la banca o l’assicurazione si obbliga a pagare una determinata somma di denaro in favore del beneficiario, nel caso in cui l’offerente non sottoscriva il contratto; b) garanzia di buona esecuzione, cd. Performance Bond, in cui il garante si impegna ad effettuare una prestazione nelle mani del beneficiario, qualora il mandante non adempia esattamente gli obblighi contrattuali; c) garanzia di rimborso, cd. Repayment Bond, in cui la banca o l’assicurazione garantisce la restituzione degli acconti ricevuti dal suo mandante, nel caso non vengano eseguite le prestazioni per le quali l’anticipo era stato accordato (F. Benatti, Il contratto autonomo di garanzia, in Banca borsa e titoli di credito, Milano, 1982, I, 172 ss. Il contratto autonomo di garanzia trae origine dalla Garantievertrage tedesca secondo la prospettazione di Rudolf Stammler che alla fine dell’ottocento distingueva i contratti di garanzia accessori ad un’obbligazione principale, come la fideiussione e il mandato di credito, da quelli che per espressa volontà delle parti sono indipendenti dal rapporto garantito e quindi fonte di autonoma obbligazione del promittente, i cd. Garantievertrage).

Alla luce della ricostruzione svolta in tema di contratto autonomo di garanzia, soprattutto in riferimento alla struttura ed al contesto in cui questo viene stipulato, appare lecito manifestare alcune perplessità in ordine al dictum della Cassazione, dal quale trae spunto questo lavoro.

La Suprema Corte, con la pronuncia che qui si sottopone a vaglio critico, giunge infatti a considerare la missiva con la quale il produttore di un bene riconosce all’acquirente il vizio della cosa dallo stesso creata e si impegna ad eliminarlo, come un autonomo contratto di garanzia, suscettibile di risoluzione per inadempimento, nonostante il produttore fosse terzo estraneo al contratto di compravendita (stipulato tra venditore ed acquirente).

L’iter logico e motivazionale che ha condotto i giudici di legittimità ad elaborare tale principio di diritto, è fondato sulla interpretazione della volontà consacrata con la predetta missiva.

Tale interpretazione, come noto, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, dunque, incensurabile in sede di legittimità se non per violazione dei criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss., c.c.

Orbene, posto che il riconoscimento del vizio assume rilievo se e in quanto provenga dalla parte venditrice che assume l’obbligazione di garanzia per i vizi della cosa venduta, mentre diverso è il valore del riconoscimento operato dal terzo produttore (P. Greco e G. Cottino, Della Vendita, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna, 1981, 233 ss. Il produttore in quanto tale non risponde verso il consumatore a norma dell’art. 1490 e ss. c.c. La limitata prospettiva in cui si pone la garanzia in questione, infatti, non solo esclude che l’acquirente possa rivolgersi direttamente al produttore ma, per lo stretto gioco dei termini e decadenze previsto dalla legge, rischia altresì di collocare lo stesso produttore in una zona di “tendenziale invulnerabilità”) che, al contrario, non assume l’obbligo dell’esatto adempimento (C. M. Bianca, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, VII, 1, Torino, 1972, 840. Soggetto passivo della garanzia è il venditore il quale è portatore dell’impegno traslativo e, in tal senso, garante dell’esattezza dell’attribuzione), appare inverosimile sostenere la tesi dell’”assunzione”, da parte del produttore, di un contratto autonomo di garanzia mediante la mera dichiarazione contenuta in una semplice missiva.

Ponendo attenzione al contesto nel quale il contratto autonomo di garanzia viene stipulato, appare evidente come nel caso di specie sembrerebbero mancare proprio gli elementi essenziali di tale figura contrattuale.

Invero, il contratto di garanzia si inserisce in un ampio contesto che vede coinvolti tre soggetti, generalmente in un contratto di base che, come nel caso in esame, può essere un contratto di vendita, ma ciò che più interessa notare è che, parallelamente, viene conferito un mandato attraverso il quale il debitore principale richiede al garante di stipulare un contratto di garanzia a favore del suo creditore.

Il garante, pertanto, si obbliga a pagare l’importo stabilito a favore del creditore, a sua richiesta e senza eccezioni, proprio in esecuzione del menzionato mandato, un mandato, questo, di cui non vi è alcuna traccia nel caso sottoposto ad esame.

Ben lontano dallo scopo per il quale tale tipo di contratto è generalmente stipulato sembra essere anche il fine reale delle parti coinvolte nella vicenda contrattuale de qua, in quanto, se con la garanzia in questione si intende assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento del debitore principale (M. Sesta, op. cit., 939-940. Lo scopo del contratto è dunque quello di assicurare al creditore-beneficiario l’immediata possibilità di soddisfacimento della pretesa vantata contro il debitore), in assenza di un contratto di mandato intervenuto tra l’ordinante la garanzia ed il garante, non si comprende la ragione per la quale il produttore delle elettropompe avrebbe dovuto assicurare al compratore il soddisfacimento della pretesa da quest’ultimo vantata contro il venditore.

Nell’indagine volta all’accertamento della reale intenzione della parte volontariamente impegnatasi a rimuovere il vizio della cosa dalla stessa prodotta, non possiamo prescindere dalla constatazione di trovarci dinanzi ad una prestazione essenzialmente gratuita caratterizzata, altresì, dalla totale assenza di corrispettività, circostanza, questa, che potrebbe far propendere per l’inquadramento del rapporto nato dalla missiva in questione sul piano sociale della cortesia (F. Gigliotti, Relazioni sociali, vincolo giuridico e motivo di cortesia, Napoli, 2003, 104. La nozione di cortesia, ancorché ampiamente trattata sul piano concettuale, evoca una tipologia di atti ancor oggi caratterizzata da confini incerti, sebbene non possa comunque negarsi che l’espressione “spirito di cortesia” sembrerebbe allacciarsi ad un referente confinato nella sfera individuale dei motivi degli atti di autonomia).

L’intento del produttore potrebbe dunque essere quello di offrire una prestazione senza corrispettivo, fine a stessa, cioè non sorretta da alcun interesse che non sia l’interesse puramente soggettivo di rivolgere al beneficiario un segno di cortesia, ed il rapporto che ne deriva si caratterizzerebbe non già per la mancanza di impegnatività in sé presa, bensì per il modo particolare in cui questa è qualificata; non si tratterebbe infatti di impegnatività giuridica, ma di mera vincolatività empirica o sociale.

Da un punto di vista pratico, cortese o amichevole può essere considerata ogni relazione sociale che appaia informata a ragioni di decoro o compiacenza sociale, secondo le vedute correnti della comunità organizzata (V. Panuccio, Prestazioni di cortesia, in Digesto delle Discipline Privatistiche,  XIV, Torino, 1996, 271. Il significato più generale del termine “atti di cortesia” può ricavarsi da quelle configurazioni che sottolineano come la vita sociale impone particolari doveri nelle relazioni intersoggettive che costituiscono comportamenti liberali e spontanei di esercizio di diritti che il soggetto assume di fronte alla comunità e i cui limiti sono rappresentati dalla solidarietà sociale. Tali particolari doveri, sono caratterizzati da specifici intenti soggettivi quali amicizia, benevolenza, convivenza, di nessun peso ai fini della loro rilevanza generale).

Simili prestazioni, tuttavia, possono divenire rilevanti per il diritto sotto molteplici aspetti, come per l’impegno di natura giuridica che in alcuni casi può nascere dalla promessa o per gli obblighi che possono sorgere quando la prestazione abbia avuto un principio d’esecuzione, ma anche per la responsabilità in ordine ai danni cagionati nell’esecuzione della prestazione cortese e per l’accettazione di rischi da parte di colui che effettua la prestazione (R. Rovelli, Prestazioni di cortesia, in Nuovissimo Digesto Italiano, XIII, Torino, 1966, 733. La promessa di effettuare una prestazione a mero titolo di cortesia, di regola non produce effetti giuridici non impegnando il promittente a compiere l’attività promessa. Tuttavia, in taluni casi può dar vita ad un vero e proprio impegno giuridico, dovendosi escludere nel promittente la facoltà di esimersi dall’impegno assunto a proprio arbitrio; se in ipotesi Caio invita Tizio a recarsi con lui ad una cerimonia in un paese vicino e, alla risposta di Tizio di non volersi addossare l’ingente spesa dell’albergo, replica con un formale invito nella sua casa situata proprio in quel paese, non potrebbe consentirsi a Caio, giunto a destinazione, di liberarsi dell’amico dicendogli che ha cambiato idea).

Dunque, secondo quanto affermato da autorevole dottrina, non potrebbe aprioristicamente escludersi che, in alcuni casi, gli elementi di cui si colorisce la prestazione, seppure animata da un intento meramente cortese o affettivo, possano assumere natura contrattuale.

Invero, l’interesse sotteso ai nostri comportamenti può in alcuni casi presentare una sua funzione economico-sociale corrispondente ad uno dei tipi negoziali predeterminati dalla legge; in tale ipotesi, il rapporto rimane sì espressione di solidarietà sociale, ma il diritto non potrà disinteressarsi alla funzione sociale che viene oggettivamente svolta dal rapporto stesso.

Da un lato, infatti, la prestazione attuata, a prescindere dal movente soggettivo che ci spinge a porla in essere, può apparire suscettibile di valutazione economica e corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, della controparte del rapporto di cortesia (art. 1174 c.c.); dall’altro, il contegno da noi assunto rispetto a certi interessi altrui può rivestirsi di un significato oggettivo, che è quello assegnatogli dalla sua concludenza e, come tale, acquistare rilevanza giuridica giustificando in tal modo un ragionevole affidamento della parte sulla coerenza dello stesso (In dottrina si fa l’esempio di quando alla stazione uno sconosciuto ci chiede di dare un’occhiata ai suoi bagagli per qualche istante e noi accettiamo, salvo poi pentircene se l’attimo diviene mezz’ora e il proprietario dei bagagli non si decide a farsi vivo. Sul punto T. Pacifici, In tema di prestazioni di cortesia, in Foro it., Roma, 1952, I, 1508).

La ricomprensione della prestazione cortese nel quadro della fenomenologia contrattuale non potrà poi prescindere dall’accertamento della sussistenza del requisito della idoneità della causa (art. 1322, comma 2, c.c.), in quanto deve volersi realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (G. Ghezzi, Cortesia (prestazioni di), in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 1049. La maggior parte degli atti di cortesia di cui è composta la vita quotidiana, non sembra adeguarsi a tal requisito, infatti, l’invito a pranzo o al teatro rispondono per lo più a interessi meramente individuali e contingenti, mentre il disposto del comma 2 dell’art. 1322 c.c. richiede che si tratti di esigenze normali e costanti, classificabili per tipi generali, come ad esempio scambio di beni o servizi, liberalità, cooperazione ecc.).

In conclusione, come sostenuto da autorevole dottrina, le prestazioni di cortesia possono rivestire natura contrattuale quando siano rivolte a soddisfare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, abbiano un contenuto economicamente valutabile e siano tali da ingenerare un affidamento nella controparte.

Applicando le considerazioni svolte al caso in esame, potremmo allora avanzare l’ipotesi che la missiva con la quale il produttore riconosce il vizio impegnandosi altresì ad eliminarlo, seppure animata da un intento puramente cortese, rientri in quel particolare novero di prestazioni di cortesia che possono tuttavia presentare una dimensione contrattuale.

La prestazione dedotta in missiva, infatti, è in grado di essere fonte di obbligazioni rilevanti non solo da un punto di vista sociale ma anche e soprattutto giuridico, e ciò in quanto il produttore, nel momento in cui ha assunto l’impegno nei confronti del venditore attraverso la missiva a lui destinata, non poteva non essere consapevole del vantaggio che in tal modo arrecava al destinatario.

Il produttore, infatti, impegnandosi a rendere la cosa funzionale gratuitamente e in assenza di corrispettività, da una parte ha procurato un incremento patrimoniale al destinatario della prestazione e, dall’altra, ha ingenerato nello stesso un ragionevole affidamento sul buon esito della prestazione promessa, ovvero la legittima fiducia su di un aspetto che appare diverso dal reale.

Tuttavia, ciò che di una simile ricostruzione non persuade è proprio l’intenzione del produttore di rivolgere al beneficiario della prestazione un mero segno di cortesia, intenzione che, ad avviso della scrivente, non giustificherebbe l’assunzione di un simile impegno in quanto appare inverosimile che il produttore abbia assunto, per puro spirito di cortesia, un impegno di tal specie senza, altresì, ripromettersi di ottenere qualche vantaggio od utilità dall’esecuzione della prestazione promessa.

Dalla dichiarazione di cui alla predetta missiva, allora, più che l’intenzione da parte del produttore di rivolgere al beneficiario un segno di cortesia, sembrerebbe al contrario emergere l’assunzione di un impegno di attivarsi al fine di eliminare il vizio della cosa prodotta che ha la sua fonte in una promessa unilaterale atipica (C.A. Graziani, Promessa unilaterale, in Enc. Giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 5 ss. Si tratta di figure la cui creazione è rimessa all’autonomia privata. L’autore critica la ricostruzione proposta da autorevole dottrina secondo la quale vige un principio di tipicità relativo alle promesse unilaterali desumibile dal disposto dell’art. 1987 c.c., interpretando tale norma come rinvio a categorie di genere ammissive di figure atipiche: l’art. 1987 c.c. affermerebbe non che le promesse sono tipiche ma che non producono effetti fuori dai casi ammessi dalla legge, pertanto, è solo dai singoli casi che si può dedurre l’esistenza di un negozio tipico o di una categoria generale. Altri autori hanno messo in dubbio l’utilità della stessa categoria delle promesse, considerata il frutto di “un errore di classificazione”, sul presupposto che nel nostro ordinamento è già prevista una categoria unilaterale amplissima che comprende anche la promessa; si tratta del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ex art. 1333 c.c. Dunque, equiparando la promessa al contratto, troverà applicazione l’art. 1322, 2° co., c.c., con l’importante conseguenza che saranno ammissibili le promesse unilaterali atipiche. In tal senso Sacco, Il contratto, a cura di Sacco e De Nova, Torino, 1993, I, 68 ss.), da cui deriva un vero e proprio obbligo di fare.

Si tratta, infatti, di un atto di volontà unilaterale gratuito, con il quale il promittente si impegna ad eseguire una determinata prestazione, vantaggiosa e lecita, nei confronti di un soggetto determinato e senza ricevere nulla in cambio.

In generale, l’atto con il quale un soggetto realizza un’attribuzione obbligatoria del tipo “promessa di fare” ha a proprio presupposto una decisione volitiva del soggetto; tuttavia, l’efficacia della promessa dipende anche da circostanze oggettive che vanno oltre la volontà del promittente.

Si intende con ciò dire che ove un soggetto prometta di fare alcunché, esso provoca per ciò stesso un affidamento in colui al quale la promessa è indirizzata, affidamento che, per essere rilevante, deve essere giustificato da elementi oggettivi (A. di Majo, Le promesse unilaterali, Milano, 1989, 43 ss. Il soggetto non può non volere la promessa che compie; in tal senso la promessa unilaterale si iscrive, quale specie di un più ampio genere, alla categoria del negozio giuridico e cioè alle dichiarazioni volontà. Tuttavia, è l’affidamento in colui al quale la promessa è indirizzata a costituire il fondamento del vincolo nascente dalla promessa e non già la “nuda” volontà del promittente).

Nel caso sottoposto alla nostra attenzione, l’interesse che giustifica il carattere vincolante della promessa appare ancorato ad un “motivo di immagine”, consistente nell’evitare il discredito che al produttore sarebbe potuto derivare dalla cattiva riuscita di un’opera dallo stesso realizzata.

Saremmo dunque in presenza di una promessa  “interessata” (A. di Majo, op. cit., 13. Si tratta di promesse atipiche che si distinguono sia dalle attribuzioni a carattere gratuito, realizzanti una causa donandi, sia dalle promesse onerose, realizzanti una causa di scambio. Tali promesse sono sitituate in un’area intermedia tra quella del gratuito e quella dell’oneroso, e sono motivate da un particolare interesse del promittente nel senso che dalla loro esecuzione anche il promittente si prefigge di ottenere qualche vantaggio o utilità), ovvero qualificata da un particolare interesse economico del promittente produttore; tuttavia, non è escluso che la vincolatività della stessa sia giustificata da un differente interesse che è quello del destinatario della promessa a non

subire danno o pregiudizio dalla sua mancata esecuzione, o ancora il particolare affidamento che l’esecuzione della promessa provoca nel promissario, affidamento giustificato dalla presenza di un valido elemento oggettivo rappresentato dalla dichiarazione contenuta nella missiva a lui destinata (F. De Maria, Le promesse unilaterali, in Le obbligazioni, III, Fatti e atti fonti di obbligazioni, a cura di M Franzoni, Torino, 2005, 12 ss. L’interesse di chi promette può essere sia patrimoniale che non patrimoniale. Sarà patrimoniale se l’impegno unilaterale apparirà finalizzato, ad esempio, al conseguimento di un futuro vantaggio economicamente valutabile. In questo caso l’interesse del promittente sta nell’ingenerare nel promissario un ragionevole affidamento nella sua persona, che servirà ad indurre il promissario a concludere con lui un futuro contratto. Quando, al contrario, l’interesse è non patrimoniale, si tratterà di stabilire se l’intento che il promittente mira a soddisfare sia liberale o meno. L’autore precisa che la liberalità si evince se un soggetto si impegna senza esservi costretto da alcun obbligo ed al solo fine di soddisfare un proprio interesse non patrimoniale).

Orbene, la qualificazione di una simile promessa come interessata e/o destinata a suscitare affidamento in colui al quale è rivolta, vale senz’altro a far superare alla promessa la soglia del giuridicamente insignificante contribuendo, altresì, a distinguerla da un mero atto di cortesia.

Secondo un’autorevole dottrina, il terreno migliore per approfondire il concetto di promesse unilaterali e superare il principio di rigida tipicità delle stesse enunciata dall’art. 1987 c.c., è rappresentato dall’art. 1333 c.c. che prevede “la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivano obbligazioni per il solo proponente”, ed in particolare dal suo secondo comma, il quale rappresenterebbe la fonte per la quale l’autonomia privata potrebbe dar luogo a promesse unilaterali atipiche (C.A. Graziani, La promessa unilaterale, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 9, Obbligazioni e contratti, I, Torino, 1984, 655 ss. Di tale articolo sono state proposte diverse visioni: vi è chi da un alto lo ha ritenuto pienamente compatibile con la figura del contratto sulla base della constatazione che il requisito della formazione bilaterale non è proprio di tutti i contratti, tanto che nell’ipotesi prevista dall’art. 1333, in cui il legislatore non richiede l’accettazione espressa dell’oblato, il contratto si perfeziona con la dichiarazione del solo proponente, sempreché i suoi effetti non siano impediti dal rifiuto, e dall’altro chi ha preferito riconoscere nella norma in questione un negozio unilaterale esposto al rifiuto del destinatario).

A questa previsione vengono ricondotte diverse fattispecie atipiche come le promesse condizionate ad una prestazione favorevole al promittente, su cui il promissario può influire, le promesse effettuate per causa di garanzia, quelle effettuate al fine di adempiere una precedente obbligazione e le promesse reclamistiche per le quali la dottrina ha coniato l’espressione “promesse interessate”, essendo effettuate dal promittente al fine di ricevere una qualche utilità, sia pure indiretta, escludendo in tal modo la causa donandi.

In base a una simile ricostruzione, dunque, la regola generale che discende dall’art. 1987 c.c., secondo cui le promesse non accettate non sono vincolanti se non nei casi espressamente previsti, sembra capovolgersi: nel nostro ordinamento le promesse unilaterali, oltre che nei singoli tipi previsti dalla legge, sarebbero vincolanti anche nella forma della promessa “individualizzata”, ovvero rivolta ad un destinatario certo, in base all’art. 1333, 2° co., la cui fattispecie rappresenta non un tipo singolo di promessa unilaterale ma una categoria generale idonea a ricomprendere promesse unilaterali atipiche.

Tuttavia, affinché la promessa “individualizzata” ex art. 1333, 2° co. sia vincolante è necessario che il destinatario non rifiuti la proposta oltre che sussista una causa lecita, trattandosi di fattispecie contrattuale (C.A. Graziani, op. cit., 3 ss. Mentre la promessa astrattamente considerata prescinde dalla posizione assunta dal destinatario in quanto costituisce pura manifestazione di sovranità individuale, la proposta ex art.1333 è una promessa che può essere paralizzata dal rifiuto del destinatario. Inoltre, mentre la prima è neutra rispetto alla causa, la seconda, proprio perché contratto, esige una causa lecita la quale deve essere espressa ed interessata, con l’eccezione della donazione obnuziale obbligatoria).

Altri autori hanno però manifestato perplessità in ordine ad un simile criterio metodico che vuole forse attribuire un valore eccessivo ad una disposizione, quale quella dell’art. 1333, la cui funzione consisterebbe esclusivamente nel generalizzare, per i contratti cosiddetti unilaterali, una forma più semplificata di conclusione che non richiede un’esplicita accettazione bensì il mancato rifiuto nei termini.

Le promesse interessate descritte, allora, più che iscriversi nel novero delle obbligazioni contrattualmente fondate, troverebbero giustificazione in quegli “atti o fatti idonei a produrre obbligazioni secondo l’ordinamento giuridico” di cui è parola nell’art. 1173 c.c. ( A. di Majo, op. cit., 58. Questo criterio si ritiene maggiormente in armonia con un’indicazione sistematica che mostra di credere che contratti e atti unilaterali tra vivi si riconducano pur sempre ad un comune archetipo rappresentato dal negozio giuridico. Tale scelta è inoltre confortata dal fatto che si eviterebbe in tal modo di dover fingere l’esistenza di un rapporto contrattuale la cui bilateralità dovrebbe essere indiscussa, là dove invece di detto rapporto si avrebbe difficoltà a rintracciare gli elementi).

Ad ogni modo, a prescindere dal richiamo o meno dell’art. 1333 c.c., promesse interessate del tipo descritto, potranno essere giuridicamente vincolanti sul terreno del rispetto del principio causale, dato il vantaggio che ne consegue il promittente, e ciò in termini di “meritevolezza dell’interesse” ai sensi dell’art. 1322, 2° co., c.c, interesse che, nel caso sottoposto alla nostra attenzione, abbiamo identificato con un “motivo di immagine” consistente nell’evitare il discredito che deriverebbe al produttore dalla cattiva riuscita di un’opera dallo stesso realizzata.

Un simile interesse, a parere della scrivente, sembra sufficiente a giustificare l’assunzione dell’impegno assunto dal produttore con la missiva di cui si discute, una missiva, è importante notare, che se da un lato contiene una promessa di fare alcunché, dall’altro comprende una libera dichiarazione di verità.

Infatti, il riconoscimento da parte del produttore della sussistenza del vizio della cosa creata, presenta natura confessoria configurandosi come dichiarazione unilaterale che il produttore fa della verità di fatti ad esso sfavorevoli e favorevoli al destinatario della stessa (V. Panuccio, Confessione, in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, 1. L’istituto della confessione, la cui definizione è contenuta nell’art. 2730 c.c., si inquadra nell’ambito delle dichiarazioni di verità o di scienza, ovvero di quei fatti di linguaggio contenenti un’assunzione di verità in relazione all’esistenza di un fatto giuridicamente rilevante).

Ora, in base alle norme generali in tema di compravendita, il riconoscimento del vizio assume rilievo se e in quanto provenga dalla parte venditrice che assume l’obbligazione di garanzia per i vizi della cosa venduta, mentre diverso è il valore del riconoscimento operato dal terzo produttore che, al contrario, non assume l’obbligo dell’esatto adempimento; il produttore, in quanto tale, non risponde verso il compratore finale a norma dell’art. 1490 e ss. c.c., godendo così di un trattamento nettamente privilegiato rispetto ai subacquirenti.

Tuttavia, con l’avvento della produzione di massa l’incremento dei rischi derivanti dalla difficoltà per il rivenditore di effettuare controlli di qualità e di idoneità dei prodotti, ha reso necessaria la ricerca di una regolamentazione della responsabilità del produttore, anche al fine di imputare al fabbricante le conseguenze dei danni arrecati agli utenti dai prodotti difettosi.

Sebbene il fenomeno della produzione in serie e del mutamento del sistema distributivo dei prodotti non abbia trovato riscontro nella normativa che il nostro codice civile detta in tema di compravendita (U. Carnevali, La responsabilità del produttore, Milano, 1979, 6 ss. Nella normativa sulla compravendita non si tiene conto della posizione che va realisticamente riconosciuta al rivenditore nel moderno assetto del sistema distributivo dei prodotti industriali, in quanto ancorata all’ipotesi artigianale in cui i beni raggiungevano il consumatore attraverso una sola transazione. Tuttavia, solo formalmente il rivenditore è controparte contrattuale dell’acquirente finale del prodotto, in quanto, da un punto di vista sostanziale, la vera controparte è il produttore mentre il rivenditore è un semplice intermediario), in base alle considerazioni sopra svolte è comunque possibile affermare che dalla promessa unilaterale assunta dal produttore delle elettropompe deriva un’obbligazione di fare vera e propria, tale da suscitare l’affidamento nella persona del compratore insoddisfatto, dalla quale derivano importanti conseguenze in tema di responsabilità.

La limitata prospettiva in cui si pone la garanzia prevista dall’art. 1490 c.c. ha fatto si che la responsabilità del produttore venisse disciplinata da una apposita normativa, il d.p.r. 24.5.1988, n. 224, emanata a seguito di una Direttiva comunitaria che ha armonizzato le legislazioni degli stati membri in materia, il cui art. 1, secondo cui il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto, introduce una responsabilità di natura oggettiva, collegata al fatto che il produttore ha messo in circolazione un prodotto difettoso, che prescinde dalla prova della sua colpa (R. D’Arrigo, La responsabilità del produttore, Milano, 2006, 38-39. Il d.p.r. 224/1988 rappresenta la risposta del legislatore nazionale alle istanze di disciplina in materia di responsabilità del produttore. Ciò ha fatto sì che il consumatore abbia a disposizione due tutele, quella generale prevista dal codice civile, e quella speciale contenuta nel decreto attuativo della direttiva 85/374/CE).

I difetti che acquistano rilevanza in questa sede, tuttavia, non coincidono con quelli che il legislatore ha individuato in tema di garanzia per i vizi nella compravendita fondata sull’incidenza del vizio stesso sulla cosa, nel senso che questo deve essere tale da rendere il bene inidoneo all’uso o diminuirne in modo apprezzabile il valore (C. Castronovo, Problema e sistemi nel danno da prodotto, Milano, 1979, 492-493).

La classificazione dei vizi accolta dal d.p.r. 224/1988 è invece fondata sulla causa del danno subito dal consumatore.

Il legislatore comunitario ha voluto determinare la difettosità di un prodotto in riferimento alla pericolosità e alla mancanza di sicurezza di un prodotto destinato al largo consumo, avendo riguardo al modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le caratteristiche, istruzioni ed avvertenze, all’uso al quale il prodotto può essere destinato e ai comportamenti che in relazione ad esso si possono ragionevolmente prevedere, e al tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione (G. Facci, La responsabilità del produttore, in Le obbligazioni, II, Le obbligazioni da fatto illecito, a cura di M. Franzoni, Torino, 2004, 378-379. La nozione di difetto prevista dal d.p.r. si distingue dalla nozione di “vizio” della cosa venduta ex art. 1490 c.c., tuttavia il concetto di prodotto insicuro, come tale difettoso o mancante di qualità ai sensi dell’art. 1490 ss. c.c. può essere desunto anche dalle norme contenute nel d.p.r. 224/1988. Il d.p.r., tra l’altro, distingue tra difetti di fabbricazione che riguardano solo un singolo esemplare di una serie prodotta, e difetti di progettazione che consistono in un’errata progettazione dell’intera serie).

Orbene, tale normativa non sembra applicabile al caso in commento per due ordini di ragioni.

Il primo attiene al concetto di difetto del prodotto, in quanto abbiamo visto come ai fini della sussistenza della responsabilità occorre che il danno sia riconducibile, in un rapporto di causalità, ad un difetto del prodotto, difetto determinato in riferimento ad una mancanza di sicurezza.

Tuttavia, nel caso di specie non ci troviamo di fronte ad un prodotto “pericoloso” nel senso suddetto, in quanto le elettropompe acquistate, lungi dal presentare vizi di costruzione che ne avrebbero cagionato l’avaria, si sono semplicemente rivelate inidonee all’uso al quale erano state destinate, nella specie smaltimento di acque putride e salmastre, uso del quale il produttore non era stato preventivamente posto a conoscenza.

Secondo l’art. 5 del d.p.r., nella valutazione della pericolosità del prodotto destinato al consumo di massa bisogna avere riguardo alle normali forme di utilizzazione del prodotto medesimo, non rilevando la circostanza che lo stesso manifesti difetti e/o vizi nel caso di un suo uso difforme rispetto alle modalità di utilizzazione cui risulta generalmente destinato.

L’utente, pertanto, non potrà invocare la responsabilità del produttore nel caso in cui il danno sia derivato da un uso anormale del prodotto acquistato.

L’altra ragione attiene alla destinazione del prodotto, in quanto l’art. 11 del d.p.r. richiede che la cosa danneggiata appartenga ad un genere merceologico non destinato a produrre beni o ad assicurare al proprietario un guadagno; si richiede, in sostanza, che la cosa sia destinata all’uso o al consumo privato, mentre nel nostro caso, ci troviamo dinanzi ad un’azienda che si occupa dello smaltimento di acque putride e salmastre, ragione per la quale provvedeva all’acquisto delle elettropompe di cui si discute (G. Facci, op. cit., 389-390. In ordine a quei beni diversi dal prodotto difettoso e normalmente destinati all’uso o consumo privato è ammesso il risarcimento del danno emergente, comprendendo in questo tutte le spese affrontate per sopperire alla mancanza del bene, nei limiti posti dall’art. 1223. Restano invece a carico del consumatore il danno consistente nella perdita del prodotto difettoso e quello causato dalla distruzione o perdita di cose normalmente non destinate all’uso o al consumo privato).

Pertanto, ritenuto pacifico che da una semplice missiva con la quale il produttore di un bene riconosce all’acquirente il vizio della cosa dallo stesso creata impegnandosi altresì ad eliminarlo non possa nascere un contratto autonomo di garanzia, e scalzata la tesi che tentava di inquadrare la fattispecie sottoposta ad esame tra le prestazioni di cortesia aventi natura contrattuale, in base alla ricostruzione svolta possiamo fondatamente sostenere l’ipotesi che l’inadempimento di cui si è reso responsabile il produttore, una volta esclusa l’applicabilità della disciplina prevista dal d.p.r. 224/1988, abbia dato origine ad una situazione di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. in quanto è stato infranto un impegno di cooperazione, precedentemente assunto con la predetta missiva, per la soddisfazione di un’altrui aspettativa.

Pubblicato il  28/10/2010