I big data, tra valore e paure

Da quando sempre più persone spendono il proprio tempo, libero e non, utilizzando computer, navigando online, o servendosi di oggetti intelligenti, come i telefoni cellulari o gli aspirapolveri automatizzati, l’espressione anglosassone “big data” ha acquisito una certa notorietà, finendo con il comparire anche nei documenti con i quali la Commissione Europea traccia le linee di sviluppo della propria politica industriale.

Ma cosa sono questi big data? Perché essi dovrebbero aiutare l’economia del vecchio continente a colmare lo iato che la separa da quella statunitense? E perché, in ultimo, i big data dovrebbero mai suscitare qualche interesse in chi studia il diritto?

I big data come fonti di conoscenza e valore

Grazie alla significativa e progressiva riduzione dei costi necessari all’ottenimento e all’immagazzinamento dei dati digitali, è oggi divenuto possibile raccogliere enormi quantità di dati – quantità che si misurano grazie a quelle potenze del 10 che, in passato, erano appannaggio quasi esclusivo degli astrofisici. Quindi, ed in primo luogo, i big data sono semplicemente tantissimi. Ed, infatti, non deve stupire se tra i depositari dei big data si annoverano non solo coloro che operano online con un proprio sito (siano essi motori di ricerca, social network o piattaforme di e-commerce), non solo coloro che producono gli oggetti intelligenti che si collegano alla rete, ma anche gli ospedali, le compagnie aeree, le banche, le assicurazioni, o financo le pubbliche amministrazioni, dai ministeri, agli istituti nazionali di statistica, alle università.

In secondo luogo, chi descrive questi enormi insiemi di dati è solito evidenziare come essi vengano raccolti e processati assai velocemente, financo in tempo reale. Ad esempio, tutti i dati digitali in cui si traducono i comportamenti online di coloro che navigano in rete, nonché le condotte offline di coloro che si accompagnano con oggetti intelligenti, vengono istantaneamente raccolti dalle relative piattaforme. Analogamente, quando un utente interroga un’applicazione del suo telefono cellulare per conoscere la strada più breve, o meno trafficata, per raggiungere una specifica destinazione, l’applicazione restituisce la risposta quasi immediatamente, nel tempo di pochi secondi.

In ultimo, questi insiemi di dati si distinguono perché capaci di accogliere dati di diversi formati e provenienti da diverse fonti – dalle videocamere dei circuiti di sicurezza, alle scatole nere montate sulle automobili, ai sensori che rilevano i tassi di smog nelle città – a dimostrazione di come la così compiuta registrazione della realtà può prodursi anche liberamente e acriticamente, ossia attraverso il mero immagazzinamento di tutti i dati generati dalle fonti prescelte.

Tuttavia, chi pensa ai big data nei termini appena proposti ne trascura la capacità di produrre valore grazie alla estrazione di nuova conoscenza. In altri termini, dalla analisi dei big data si inferiscono informazioni, le quali possono a loro volta – e come siamo usi pensare – condurre alla produzione di benessere e ricchezza, perché possono non solo essere vendute, ma anche essere utilizzate per prendere decisioni più accurate, per ideare nuovi prodotti e servizi, se del caso ritagliati sulle esigenze del singolo consumatore, e/o per condizionare i gusti e le opinioni degli individui. Così, ad esempio, un’amministrazione comunale potrebbe meglio comprendere quali strade riparare, analizzando i dati sul traffico e i commenti dei suoi cittadini raccolti con una apposita applicazione. Oppure, un’impresa potrebbe meglio individuare le caratteristiche della sua offerta, una volta compreso quali dei suoi consumatori che sono soliti acquistare un determinato prodotto, potrebbero desiderarne uno simile.

Pertanto, come riconosciuto dalla Commissione Europea, la funzione strategica dei big data risiede nei risultati innovativi ai quali la loro analisi può condurre. Al contempo, però, essi non mancano di suscitare timori.

Perché i big data (e le piattaforme digitali) fanno paura

Giacché si tende – peccando di parzialità – a far coincidere il fenomeno big data con quello delle piattaforme digitali come Google, Amazon, Facebook, Apple, o Microsoft, si ritiene che i dati accumulati da questi giganti favoriscano l’insorgere di tre macro-problemi.

La concentrazione del potere di mercato. Sebbene i big data non conferiscano di per sé potere di mercato, vero è che essi possono operare come barriere all’ingresso, ossia possono rendere le posizioni di mercato delle imprese che li controllano – anche quando imprese ben più tradizionali – meno contendibili. Si pensi, ad esempio, al caso di un motore di ricerca – ma il medesimo discorso potrebbe farsi per una compagnia assicurativa – che restituisce risultati sempre più accurati, rendendosi così sempre più appetibile e meno contestabile, al crescere della conoscenza che estrae dai dati dei suoi utenti. Così, se si considera che il potere di mercato delle piattaforme digitali è già schermato da altre barriere all’ingresso, allora si teme che le suddette imprese – peraltro tutte statunitensi – siano destinate a sopravvivere a generazioni e generazioni di esseri umani.

La crisi delle democrazie occidentali. E proprio in relazione a quanto testé osservato, si paventa che soggetti come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, i cui fatturati superano i prodotti interni lordi di non pochi paesi, abbiano da un canto la forza per manovrare l’operato dei governi delle democrazie occidentali e, d’altro canto, gli incentivi per diventare strumenti delle loro azioni, se del caso, repressive delle libertà individuali. Inoltre, se in generale si ritiene che la diseguaglianza economica polarizzi i differenti gruppi di interesse con l’effetto di inasprire gli scontri all’interno dei regimi democratici e di rendere più difficile il raggiungimento di soluzioni di sintesi, nello specifico non si manca di constatare come l’operato delle suddette piattaforme stia aumentando tale disuguaglianza, impoverendo i consumatori tramite termini contrattuali iniqui, producendo la precarizzazione del lavoro, e escludendo dal mercato le imprese obsolete. Infine, si sostiene che, offrendo informazioni direttamente al mercato, le menzionate piattaforme potrebbero subdolamente condizionare e manipolare l’opinione pubblica, influenzando le preferenze e i pensieri degli individui, non solo (e non tanto) riguardo a ciò che essi potrebbero voler consumare, ma anche con riguardo a ciò che essi potrebbero votare. In questo solco si inscriverebbero, dunque, i fenomeni delle fake news e della “bolla del filtro” i quali – si argomenta – produrrebbero due effetti: se, per un verso, creerebbero negli individui la sensazione di vivere in un mondo che rispecchia le loro convinzioni e i loro gusti, per altro verso farebbero perdere loro la consapevolezza delle altrui esigenze e dei diversi punti di vista. Questa seconda conseguenza, a sua volta, favorirebbe non solo (e di nuovo) la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni degli individui, ma anche l’aumento di una sorta di incomunicabilità tra le opposte visioni del mondo, innescata proprio dal venir meno della consuetudine a confrontarsi; e ciò – si conclude – finirebbe per minare alla base il rispetto che gli individui dovrebbero avere per la democrazia come forma di governo che sopporta la dialettica per produrre una sintesi tra interessi legittimamente confliggenti.

L’asimmetria nei rapporti tra gli individui e i collettori di big data. Da un canto, ed eminentemente, gli “individui-fonti di dati” possono trovarsi a condividere i propri dati personali di là da qualsiasi logica di mercato, ossia senza essere compiutamente coscienti del valore che gli stessi dati possono assumere per le imprese e per le pubbliche amministrazioni, nonché dei termini delle politiche di privacy. Inoltre, anche a causa di questa loro ridotta consapevolezza, oltre che in ragione del loro minore potere contrattuale nelle relazioni che li vedono opposti a imprese e istituzioni, questi “individui-fonti di dati” possono diventare oggetto di pratiche scorrette, ossia possono accettare di concludere dei contratti relativi al trasferimento dei loro dati che contengono clausole ingannevoli o vessatorie. D’altro canto, gli “individui-destinatari delle informazioni e dei beni” non solo possono non sapere di essere oggetto di profilazione, ma soprattutto possono risultare vittime di profilazioni “sbagliate”, perché guidate da criteri di poco conto, erronei, discriminatori, o volutamente pensati per individuare i soggetti più vulnerabili, con l’effetto ultimo di essere etero-diretti e financo ingiustamente discriminati.

Le risposte in corso di definizione del giurista

L’insieme composito di problemi appena accennati richiede una risposta altrettanto articolata, che il giurista può offrire disponendosi ad applicare congiuntamente diverse discipline.

Ad esempio, le preoccupazioni competitive connesse alla circostanza che vuole che i big data operino quali barriere all’ingresso sono state affrontate, per lo meno parzialmente, in via regolatoria, ossia con l’introduzione dell’art. 20 del Regolamento 2016/679 per la protezione dei dati personali. Esso, infatti, prevede che ogni individuo non solo abbia il diritto di vedersi restituiti i propri dati personali, ma altresì che abbia il diritto di trasmettere quei dati a un soggetto diverso da chi li ha per primo raccolti. Pertanto, grazie alla portabilità dei dati, i consumatori possono dirigere il traffico dei dati, consentendone la migrazione da una piattaforma all’altra e, dunque, anche scegliendo di sottrarre dati alle piattaforme maggiori.

E allo stato si valuta che sempre di matrice regolamentare potrebbero essere le soluzioni che, in futuro, i legislatori nazionali e sovranazionali potrebbero ideare per rispondere ai problemi connessi ad una più equa distribuzione della ricchezza, alla diffusione delle fake news, al meccanismo della camera dell’eco, o al rischio della dittatura dei dati.

Diversamente, al momento si ritiene che le discipline positive poste a tutela dei consumatori e dei dati personali siano di per sé già idonee – o, per lo meno, siano al momento tra le più adatte – a proteggere i singoli. Così la mancanza di trasparenza circa le clausole dei terms of use per cui le piattaforme estraggono “troppi dati” dai loro consumatori o fanno di questi dati un uso improprio possono essere perseguite, come l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha recentemente scelto di fare nei casi WhatsApp, e da Facebook (Cfr. AGCM, PS10601, 11 maggio 2017 e AGCM, PS11112, 7 dicembre 2018).

Analogamente, senza alcuno sforzo di ordine teorico o pratico, il diritto antitrust potrebbe perseguire le imprese che, per mezzo di intese, concentrazioni o condotte unilaterali, producano forme di preclusione anticompetitiva impedendo ai propri rivali di avere accesso a dei dati digitali, oppure potrebbe reprime le imprese che impiegano l’analisi dei big data per ideare e dare esecuzione a strategie collusive, o ancora per calcolare e applicare prezzi personalizzati escludenti e anticompetitivi.

O, per lo meno, questo è quanto allo stato si afferma nei circuiti nazionali e internazionali, ben compreso che il tasso di cambiamento della tecnologia e dei comportamenti economici è tale da richiedere uno sforzo nella rapidità dell’ideazione e dell’attuazione delle soluzioni ai problemi menzionati.

Bibliografia essenziale

Colangelo, G., Big data, digital platforms e antitrust, in Merc. conc. reg., 2016, 425 ss.
Maggiolino, M., I big data e il diritto antitrust, Milano, 2018
Mayer-Schonberger, V. - Cukier, K, Big data, Milano, 2013
Orefice, M_., I big data e gli effetti su privacy, trasparenza e iniziativa economica_, Roma, 2018
Ottolia, D., Big data e innovazione computazionale, Torino, 2017
Pasquale, F., The black box society, Boston, 2015.

Pubblicato il 16/01/2019

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