La formazione, da parte del Presidente della Repubblica, di un Governo successivamente battuto al “battesimo” della fiducia pone delicati problemi di ordine costituzionale.
Il dato normativo
Il principio organizzativo tipico della forma di governo parlamentare è accolto nella Costituzione italiana dall’art. 94, c. 1, il quale stabilisce che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere». Tale principio è ulteriormente chiarito dall’art. 94, c. 3 Cost., ai sensi del quale «entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia».
Benché nei primissimi studi condotti dopo l’entrata in vigore della Costituzione non siano mancate pregevoli ricostruzioni di segno diverso (cfr. T. Marchi, 1950), la prassi e l’opinione assolutamente prevalente escludono l’incorporazione della fase della investitura fiduciaria all’interno dell’iter di formazione del Governo. In questa prospettiva, la scissione fra i due procedimenti – la quale nella sostanza si pone in sostanziale continuità con la tradizione statutaria – sarebbe confortata, fra l’altro, da un argomento di natura topografica: collocando la norma sul giuramento del Governo (art. 93 Cost.) prima di quella relativa al procedimento fiduciario iniziale (art. 94, c. 3), il Costituente avrebbe affermato l’immediata operatività del Governo in attesa di investitura. Ne consegue che l’esecutivo battuto sulla fiducia iniziale rimane in carica fino alla nomina di un nuovo Governo (il che può avvenire anche a distanza di diversi mesi), pur dovendo limitare la propria attività al disbrigo degli affari correnti.
I precedenti costituzionali
L’ipotesi di reiezione del voto iniziale di fiducia si è verificata, in età repubblicana, in cinque occasioni.
Nei primi due casi, risalenti alla presidenza Einaudi, il Capo dello stato aveva proceduto alla nomina dell’esecutivo in una situazione di oggettività imprevedibilità del risultato del voto fiduciario. Al momento del completamento dell’iter di formazione del Governo, i Presidenti del Consiglio avevano maturato infatti un cauto ottimismo circa la possibilità di conseguire il sostegno delle Camere: o attraverso l’assunzione di specifici impegni in sede di dichiarazioni programmatiche (Governo De Gasperi VIII) oppure mediante l’adozione di una serie di provvedimenti in Consiglio dei ministri ancor prima della presentazione alle Camere (Governo Fanfani I).
Assai più sfavorevoli erano invece gli equilibri parlamentari in occasione della formazione dei Gabinetti Andreotti I, Andreotti V, Fanfani VI. In questi tre casi – nei quali il Governo non solo non era sicuro di ottenere la fiducia ma addirittura era certo del contrario – l’esecutivo privo ab initio della fiducia iniziale è stato chiamato a controfirmare il decreto di scioglimento. Il precedente più controverso è quello del Governo Fanfani VI, il quale – essendo nato con il solo obiettivo di gestire la transizione elettorale – in sede di presentazione alle Camere aveva esplicitamente chiesto alla propria “base parlamentare” di non accordare la fiducia. Al Governo Fanfani VI è stato inoltre addebitato uno spregiudicato allargamento del perimetro dei c.d. “affari correnti”.
Il possibile consolidamento di questi ultimi tre precedenti in una convenzione costituzionale volta ad abilitare la formazione di Governi intenzionalmente minoritari è stata scongiurata in apertura della XVII legislatura a seguito della mancata nomina del Governo Bersani, il quale era certo di non poter conseguire la fiducia presso il Senato. In occasione del suo secondo giuramento, il Presidente della Repubblica ha chiarito le motivazioni di ordine costituzionale alla base di tale decisione: al Capo dello Stato – ha spiegato Napolitano – «non tocca dare mandati, per la formazione del Governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione». Nessuna, se non a «quella voluta dall’art. 94 della Costituzione: un Governo che abbia la fiducia delle due Camere».
Peraltro, all’inizio della XVIII legislatura, dinanzi alla impossibilità di individuare una maggioranza parlamentare e alla prospettiva di un imminente scioglimento, il Presidente della Repubblica ha avviato l’iter per la nomina di un Governo intenzionalmente minoritario formato da tecnici e guidato da Carlo Cottarelli (esecutivo definito dal Presidente Mattarella quale “Governo neutrale”). Secondo il Presidente della Repubblica, un governo composto da esponenti non appartenenti ai partiti – sebbene privo di fiducia iniziale – risultava maggiormente legittimato a gestire le elezioni rispetto all’esecutivo uscente, il quale aveva conseguito la fiducia nella XVII legislatura, e dunque in un quadro di equilibri parlamentari profondamente diversi da quelli scaturiti dalle elezioni del 4 marzo 2018. L’iter di formazione del “Governo neutrale” è stato in ogni caso interrotto a seguito della definizione di un “contratto di governo” fra le formazioni politiche di una nuova maggioranza.
Problemi costituzionali e procedurali
La formazione, da parte del Presidente della Repubblica, di un Governo successivamente battuto al “battesimo” della fiducia pone delicati problemi di ordine costituzionale, i quali investono sia la posizione e legittimazione del “Governo di minoranza”, sia la stessa ricostruzione della natura della forma di governo italiana.
I principi nodi problematici sono i seguenti: l’ampiezza dei margini di discrezionalità del Presidente della Repubblica in sede di individuazione dell’incaricato e di successiva nomina del Governo; l’estensione dei poteri del Governo battuto sulla fiducia iniziale, anche in comparazione con altre figure più o meno affini (il Governo dimissionario ma mai sfiduciato, il Governo in attesa di fiducia, il Governo al quale è stata revocata la fiducia pur avendo ottenuto una iniziale investitura parlamentare); la natura del potere di scioglimento e la possibilità di affidare la gestione delle elezioni ad un Governo intenzionalmente minoritario.
La soluzione di tali questioni interpretative è in buona misura legata alla ricostruzione del tasso di monismo/dualismo della forma di governo parlamentare italiana nonché del ruolo spettante al Presidente della Repubblica (organi di indirizzo/organo di garanzia). In ogni caso, secondo l’interpretazione da considerarsi preferibile, nelle forme di governo parlamentari razionalizzate monistiche (fra le quali rientra anche quella italiana), il fenomeno dei Governi intenzionalmente minoritari integrerebbe un escamotage procedurale in elusione del principio democratico-rappresentativo.
La reiezione della fiducia iniziale ha posto l’ulteriore problema della eventuale necessità di un passaggio presso l’altro ramo del Parlamento successivamente al primo voto negativo. In base alla prassi, peraltro, il rigetto della fiducia determina l’immediata interruzione del procedimento di investitura e l’obbligo di dimissioni del Presidente del Consiglio. Tale soluzione è apparsa infatti maggiormente rispondente all’esigenza di celerità nel perfezionamento del rapporto fiduciario che è implicita nel termine di 10 giorni posto dall’art. 94, c. 3 Cost.
Infine – in occasione del Governo Fanfani I – il Presidente del Consiglio ha preso in considerazione la possibilità di rassegnare le dimissioni prima della presentazione delle Camere. Tale soluzione è stata tuttavia scartata anche al fine di non incoraggiare interpretazioni svalutative del termine di 10 giorni previsto dall’art. 94 Cost., le quali avrebbero indirettamente condotto a considerare tale termine come meramente ordinatorio.
Riferimenti comparativi
La soluzione dell’immediata operatività del Governo in attesa di investitura parlamentare rappresenta una soluzione tipica delle forme di governo basate su un rapporto di doppia fiducia e/o su meccanismi di fiducia presunta (Gran Bretagna, Regno d’Italia, Costituzione di Weimar, V Repubblica francese, etc.).
Nell’ambito delle razionalizzazioni del monismo – quali ad esempio la Costituzione austriaca del 1920, la IV Repubblica francese, la Legge fondamentale di Bonn e l’attuale ordinamento spagnolo – prevale invece il modello della incorporazione della fase dell’investitura parlamentare all’interno del più generale procedimento di formazione del Governo. Le principali eccezioni a questo modello sono rappresentate dall’Italia, dal Belgio e dalla Grecia. L’immediata operatività in Grecia del Governo in attesa di fiducia si ricollega peraltro alla esistenza di rigidissimi vincoli costituzionali i quali delimitano l’ambito di scelta del Primo Ministro. Vincoli che – almeno in prima battuta – assicurano la coincidenza fra premiership e leadership del partito di maggioranza assoluta.
Bibliografia minima
Sul rapporto fiduciario nell’ordinamento costituzionale italiano, d’obbligo è il riferimento a M. Galizia, Studi sui rapporti fra Parlamento e Governo, Milano, 1972.
Per la richiamata tesi minoritaria che individua nella fiducia un elemento di perfezionamento della nomina, cfr. T. Marchi, Il Governo, in P. Calamandrei – A. Levi (cur.), Commentario sistematico della Costituzione italiana, II, Firenze, 1950, 130. Per indicazioni sui problemi costituzionali posti dalla reiezione del voto di fiducia iniziale, cfr. M. Carducci, Art. 94, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (cur.) Commentario alla Costituzione, II, Torino, 2006, 1810 ss. e spec. 1821.
Si perdoni inoltre il rinvio a R. Ibrido, I Governi privi della fiducia iniziale: precedenti costituzionali, riferimenti comparativi e ipotesi interpretative, in Dir. pubbl., 3, 2015, 749 ss. nel quale ho sviluppato i profili appena accennati all’interno di questa voce. La tesi di fondo di questo contributo, secondo la quale il Presidente della Repubblica deve astenersi dal nominare Governi certi di non conseguire la fiducia era già stata avanzata da F. Bassanini, Lo scioglimento delle Camere e la formazione del Governo Andreotti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 930 ss. e spec. 979-980 e più di recente è stata riproposta da V. Lippolis – G. Salerno, La presidenza più lunga. I poteri del capo dello Stato e la Costituzione, Bologna, 2016, 72-74.
Pubblicato il 24/10/2018
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