di Silvia Lucantoni

La disciplina dei contratti a termine è nuovamente oggetto di interesse da parte del Legislatore che ha introdotto significative novità con l’art. 32 del Collegato Lavoro alla Legge Finanziaria 2010.

In particolare, tale norma ha previsto un termine di decadenza all’esercizio dell’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e limiti alla risarcibilità in caso di conversione in contratto a tempo indeterminato.

La citata disposizione evita al datore di lavoro il rischio di essere esposto sine die all’iniziativa giudiziale dei lavoratori con i quali abbia stipulato contratti a termine anche molti anni prima dell’instaurazione del giudizio e, conseguentemente, di essere condannato al risarcimento del danno per i periodi non lavorati.

Nel contempo, la medesima norma, responsabilizzando il lavoratore a ricorrere tempestivamente all’autorità giudiziaria, garantisce una più rapida soddisfazione del diritto del lavoratore medesimo e, conseguentemente, una tempestiva conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, evitando la cronicizzazione di situazioni di disoccupazione.

L’introduzione di tempi stringenti per l’esercizio dell’azione è, nel lungo termine, altresì destinata a produrre effetti positivi in termini di economia processuale.

Difatti, non solo la previsione di un termine di decadenza all’esercizio dell’azione scoraggia iniziative “palesemente infondate”, ma il conseguente ridimensionamento del ricorso alla giustizia comporta anche una più celere definizione dei giudizi.

In mancanza di una disciplina legislativa in materia, la giurisprudenza si è, sino ad oggi, orientata essenzialmente in due direzioni.

Da un lato - al di là di un’ isolata pronuncia che ha ritenuto l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro come assoggettata al termine di prescrizione decennale (in tal senso, Cass. n. 7386/1983) - la giurisprudenza della Suprema Corte ha sostenuto con fermezza l’imprescrittibilità della suddetta azione a norma dell’art. 1422 c.c. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, “la domanda del lavoratore subordinato diretta all’accertamento dell’unicità del rapporto di lavoro come a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione (ndr, a termine) (…) ha ad oggetto l’accertamento dell’invalidità dei termini apposti ai singoli contratti e, quindi, si caratterizza come una tipica azione di nullità imprescrittibile, restando soggetti a prescrizione solo gli eventuali diritti consequenziali che si radicano sul presupposto del rapporto a tempo indeterminato risultante (ex tunc) dalla conversione legale” (v. ex multiplis, Cass. n. 4636/1989; Cass. 3019/1989; Cass. 6046/1988;; Cass. 1567/1988).

Dall’altro lato, la giurisprudenza ha superato il problema dell’imprescrittibilità dell’azione, interpretando l’inerzia del lavoratore - che, per un certo lasso di tempo non abbia esercitato l’azione di nullità della clausola appositiva del termine - come espressione della volontà dello stesso lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro.

In particolare, la Corte di Cassazione ha statuito che il rapporto a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, possa risolversi per mutuo consenso anche per fatti concludenti (tra le più recenti, v. Cass. 15264/2007, ma anche Cass. n. 13891/2004, Cass. n. 23554/2004, n. 15403/2000, Cass. n. 11671/1995, Cass. n. 3753/1955, Cass. n. 2261/1990) e che il giudizio sulla configurabilità di un accordo, al fine di porre fine al rapporto lavorativo, viene devoluto al giudice del merito la cui valutazione – se congruamente motivata sul piano logico-giuridico - si sottrae a censura in sede di legittimità (Cass. n. 17604/2002) . Tuttavia, ha specificato ancora la Suprema Corte, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 2279/2010; Cass. 26935/2008, Cass. 20390/2007, Cass. 23554/2004, Cass. 15621/2001).

Il lasso di tempo considerato utile ai fini della dichiarazione di risoluzione del contratto a termine per mutuo consenso è stato variamente valutato dalla Corte di Cassazione.

Con l’ultima sentenza n. 25480/2009 il Giudice ha ritenuto l’inerzia protratta per un periodo di 5 anni significativa della volontà del lavoratore di “rinunciare” all’azione giudiziaria.

In precedenza, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la risoluzione consensuale di un rapporto di lavoro a tempo determinato in un caso in cui l’azione per il riconoscimento della nullità dell’apposizione del termine era stata proposta dopo otto mesi dalla cessazione del predetto rapporto a termine (v. Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).

Da ultimo, con la sentenza n. 2279/2010, la Suprema Corte ha ritenuto che l’inerzia protratta per poco più di un anno non possa essere interpretata come fatto estintivo del rapporto, dovendosi tener conto delle circostanze “rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione (..) nonché dalla circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore precario fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine”.

Con le citate sentenze, la Suprema Corte ha, dunque, confermato il proprio orientamento teso a considerare congrua la previsione di un limite all’esercitabilità dell’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro.

Con l’introduzione dell’art. 32 del Collegato lavoro, il Legislatore sembra aver recepito l’esigenza, già sentita dalla giurisprudenza, di prevedere un termine di decadenza dall’esercizio dell’azione di nullità del termine.

Il citato art. 32 - estendendo anche all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, i nuovi termini di decadenza previsti dal primo comma del medesimo art. 32  in caso di licenziamento - stabilisce che la suddetta azione di nullità deve essere esercitata entro 60 giorni dalla scadenza del contratto di lavoro. Tale impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo, il ricorso al giudice deve essere depositato entro i successivi 60 giorni dal rigiuto o dal mancato accordo.

Ai sensi del successivo comma 4 del medesimo art. 32, i suddetti termini di decadenza si applicano anche ai contratti pendenti in corso di esecuzione con decorrenza dalla scadenza del termine nonché ai contratti già conclusi alla data di entrata in vigore della legge con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore.

La norma pone altresì un limite al danno risarcibile statuendo che in caso di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è condannato dal giudice ad una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5, ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Tuttavia, in presenza di contratti ovvero accordi collettivi, nazionali , territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità di risarcimento è ridotta alla metà.

E’, infine, da segnalare che il 31 marzo 2010 il Presidente della Repubblica ha esercitato il potere di  rinviare alle Camere il testo del c.d. collegato lavoro, approvato in via definitiva dal Parlamento il 3 marzo. Nel messaggio motivato con cui è stata chiesta alle Camere una nuova deliberazione, il Presidente della Repubblica ha posto l’attenzione sull'articolo 31, commi da 1 a 9, che disciplina il nuovo arbitrato nelle controversie di lavoro, e sull'articolo 20, che limita la responsabilità per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la sua opera sul naviglio di Stato. I rilievi del Presidente della Repubblica non hanno riguardato, dunque, la nuova disciplina del contratto a termine che, pertanto, non dovrebbe subire alcuna revisione, ferma restando la possibilità che eventuali modifiche da parte delle Camere siano apportate all'intero testo legislativo.

Pubblicato il  10/05/2010

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