Premessa

Governo e parti sociali sono di recente intervenuti con il DPCM 22.3.2020, il d.l. 25.3.2020, n. 9 ed il Protocollo del 14.3.2020 per dettare misure a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori a fronte dell’emergenza epidemiologica da Coronavirus.

Il Protocollo del 14.3.2020: principi e contenuti

Il protocollo del 14.3.2020 è stato sottoscritto nell’ambito del perimetro confederale da Confindustria, Confapi, Rete imprese per l’Italia, CGIL, CSIL e UIL, e si inscrive in un percorso di relazioni industriali partecipative, per come espressamente incoraggiate dal governo che, all’art. 1, co. 1, nn. 7 e 9 del DPCM dell’11.3.2020 invita le parti sociali – in relazione alle attività non sospese – a incentivare il ricorso al lavoro agile, a ferie e congedi retribuiti, a sospendere le attività non essenziali al processo produttivo e, soprattutto, ad adottare protocolli di sicurezza anti-contagio, favorendone le relative intese.

Al più alto livello delle relazioni sindacali, le parti sociali hanno pertanto dettato delle “norme” che fungano da cornice per tutte le aziende la cui attività non risulti sospesa per decisione dei pubblici poteri, riprendendo non solo i principi del DPCM dell’11.3.2020 ma soprattutto quelli del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 9.4.2008, n. 81). L’accordo, frutto di una serrata trattativa, si ispira alla filosofia della prevenzione intesa come insieme di policy indirizzate non soltanto alla comunità dei lavoratori in azienda, ma anche all’intera popolazione e all’ambiente esterno all’impresa. In tal senso riecheggia l’art. 2, lett. n. del Testo Unico, secondo cui la prevenzione consiste in quell’insieme di «disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza o la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno».

Le misure contenute nel protocollo hanno quindi una duplice ratio costituzionale: tutelare la salute come interesse della collettività e diritto fondamentale dell’individuo, ed anche arginare forme di esercizio dell’attività economica in contrasto con la libertà, la sicurezza e la dignità umana, alla luce del combinato disposto degli artt. 32, co. 1. e 41, co. 2, Cost.

A livello contenutistico il principio di prevenzione viene declinato attraverso obblighi informativi gravanti sul datore di lavoro, modalità di ingresso e di spostamento in azienda di dipendenti e fornitori, misure di sanificazione e protezione, e con una forte apertura al lavoro agile. Meritano soprattutto attenzione, per ragioni di economia espositiva, le previsioni sugli accertamenti sanitari e sulla fornitura dei dispositivi di protezione individuale.

In relazione al primo profilo, viene previsto che il personale possa essere sottoposto al controllo della temperatura corporea prima dell’ingresso in azienda, e, se quest’ultima risulti superiore ai 37.50, non potrà accedere ai luoghi di lavoro per essere subito isolato e fornito di mascherine: è pacifico che la rilevazione della temperatura costituisca un dato personale di carattere sanitario, il cui trattamento va circoscritto in conformità ai principi di proporzionalità e non eccedenza e accompagnato da una previa informativa ai sensi del regolamento UE per la protezione dei dati personali (reg. UE n. 679/2016, d’ora in poi GDPR). Al riguardo, il protocollo prevede opportunamente come le informazioni raccolte vadano trattate solo in relazione al contagio da COVID-19, e che non vadano comunicate a soggetti terzi se non alla pubblica autorità ed esclusivamente per finalità connesse alla pandemia in atto. Parimenti, il datore è invitato a fornire una previa informativa, anche orale, su finalità e modalità del trattamento del dato sanitario.

In tale ipotesi non risulta necessario il consenso del lavoratore come presupposto di liceità del trattamento: la deroga alla disciplina generale, lungi dal configurare uno stato d’eccezione permanente, è conforme ai principi di cui all’art. 9, par. 1, lett. g) del GDPR, secondo cui il generale divieto di trattare dati sanitari viene meno se dettato da motivi di interesse pubblico rilevanti sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri; quest’ultimo infatti deve essere proporzionato alla finalità perseguita, nel rispetto dell'essenza del diritto alla protezione dei dati, oltre che prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali dell'interessato. Tale opzione interpretativa è del resto confermata dal recente orientamento del Comitato europeo sulla protezione dei dati personali. Con la dichiarazione resa proprio sull’emergenza epidemiologica in atto, che ha pur sempre natura programmatica, il Board ha affermato come si possano trattare i dati sanitari per tutelare non solo salute e sicurezza sul lavoro ma anche interessi generali da riconnettere alla sanità pubblica, sempre che all’interessato sia fornita una previa informativa, e nel rispetto del principio di proporzionalità (Comitato europeo per la protezione dei dati personali, Dichiarazione sul trattamento dei dati personali nel contesto dell’epidemia di COVID-19, 19.3.2020, in www.garanteprivacy.it).

Per massimizzare la tutela della salute, il controllo preventivo della temperatura corporea – trattasi di facoltà e non di obbligo secondo il Protocollo – potrebbe essere disposto dal medico competente su richiesta del datore, e sempre che il medico lo ritenga correlato ai rischi lavorativi. Ne deriva che il lavoratore non potrebbe quindi rifiutare di sottoporsi all’accertamento sanitario ex art. 20, co. 2 lett. i) del d.lgs. n. 81/2008, e sarebbe anche passibile di procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 7 dello Statuto (Bacchini, F., Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in Giustiziacivile.com, 18.3.2020, 9).

Tra le altre misure contemplate dal Protocollo vengono ripresi  i principi di attivazione e responsabilizzazione di cui all’art. 20 del Testo Unico, secondo cui il lavoratore deve osservare le istruzioni impartite dal datore per la protezione collettiva e individuale: così il dipendente è obbligato a rimanere presso il proprio domicilio in presenza di febbre oltre i 37.50, a dichiarare immediatamente uno stato influenzale occorso in azienda, oltre che a pulire frequentemente le mani con acqua e sapone, e ad osservare le distanze minime impartite dal datore.

Sul versante dei dispositivi di protezione individuale, il protocollo prevede che l’utilizzo della mascherina sia obbligatorio soltanto quando le modalità della prestazione impongano di lavorare a una distanza inferiore ad un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative. Sarebbe stato auspicabile che le parti sociali avessero generalizzato la misura, prevedendo la sospensione dell’attività in difetto di mascherine reperibili in commercio, o comunque non conformi alle indicazioni dell’autorità sanitaria.

In ogni caso il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di eseguire la prestazione in caso di pregiudizio irreparabile alla propria salute, senza incorrere in sanzioni disciplinari o nella sospensione dalla retribuzione, in virtù di quanto previsto dall’art. 44 del Testo Unico (cd. “diritto di resistenza”: D’Aponte, M., La tutela della salute del lavoratore dopo il Jobs Act, Torino, 2018, 219; Lai, M., Il diritto della sicurezza sul lavoro tra conferme e sviluppi, Torino, 2017, 27): la legge dispone infatti che a fronte di pericolo grave e immediato che non possa essere evitato, il prestatore che si allontana dal posto di lavoro non può subire nessun pregiudizio e va protetto da eventuali conseguenze dannose. Si ipotizzi il caso di uno o più lavoratori che interrompono la prestazione ed abbandonano il luogo di lavoro, perché non sono disponibili mascherine, le distanze minime non vengono rispettate, e si sono da poco registrati dei sospetti casi di COVID-19 in azienda.

In tal senso depongono anche i principi generali in materia di contratti sinallagmatici, di cui l’art. 44 del Testo Unico costituisce puntuale specificazione sul fronte della sicurezza sul lavoro: il riferimento è all’autotutela di cui all’art. 1460 c.c., che permette al contraente di non adempiere la propria prestazione, se l’altro non offre contestualmente la propria, conformemente ai principi di buona fede e correttezza ex artt. 1375 e 1175 c.c. (cfr. – ex plurimis – Cass., 28.4.2017, n. 10563; Cass., 19.1.2016, n. 836, in Dir. rel. ind., 2016, 838, con nota di Ferrante, Ancora in tema di eccezione di inadempimento nel contratto di lavoro subordinato (ovvero quando la mora credendi è invocata a sproposito); Cass., 7.5.2013, n. 10553, in Diritto e Giustizia online, 2013, 510, con nota di Scofferi, Sorpreso sul ponteggio senza essere agganciato al cavo predisposto per la cintura di sicurezza: licenziamento legittimo; Cass., 18.5.2006, n. 11664, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 882, con nota di Saitza; Cass., 7.11.2005, n. 21479, in Dir. lav., 2006, II, 165, con nota di Carnovale). In dottrina Ingrao, A., C’è il COVID, ma non adeguati dispositivi di protezione: sciopero o mi astengo?, in Giustiziacivile.com, 18.3.2020, 6; Pelusi, L.M., Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Dir. sic. lav., 2019, 134). Nell’esecuzione della prestazione si rilevano anche gli obblighi di legge in ragione di quanto previsto dall’art. 2087 c.c., che prescrive al datore di adottare tutte le misure che secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Il Protocollo tra efficacia ed attuazione

Una volta riassunte le principali misure del protocollo, si pone il problema della relativa efficacia: si tratta di un accordo interconfederale che, per quanto rappresenti la più alta espressione dell’autonomia collettiva, riveste pur sempre natura privatistica, e si applica pertanto alle sole imprese o lavoratori iscritti alle associazioni stipulanti, e a quanti vi abbiano volontariamente aderito. Con questo non si vuole certamente sminuire l’indubbia valenza dell’accordo raggiunto, con cui le parti sociali hanno dato prova di alto senso di responsabilità, ma ricordare gli insormontabili ostacoli tecnico-giuridici ad una sua generale efficacia, vista la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost.

Se dal versante confederale ci si sposta a quello delle organizzazioni minori, non risultano ad oggi protocolli a tutela della salute per contrastare il COVID-19: sarebbe auspicabile il recepimento dell’accordo del 14.3.2020 in atto avente natura pubblicistica (ad es., tramite DPCM o decreto legge) in ragione del contesto di straordinaria necessità o urgenza (Pascucci, P., Sistema di prevenzione aziendale, emergenza Coronavirus ed effettività, in Giustiziacivile.com, 18.3.2020, 10; Id., Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Dir. sic. lav., 2019, 109). Oppure si possono ipotizzare altre soluzioni per attribuirvi un’efficacia generale, che tuttavia hanno un orizzonte temporale meno immediato: ad esempio, il Protocollo potrebbe essere validato come buona prassi dalla Commissione consultiva permanente per la sicurezza sul lavoro, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 81/2008, una volta che tutte le relative modalità attuative siano state elaborate e raccolte dai soggetti competenti, ovvero regioni, INAIL ed organismi paritetici.

In ogni caso, all’accordo del 14.3.2020 sono immediatamente seguiti ulteriori protocolli settoriali che ne hanno dettagliato i principi in funzione della specificità del contesto produttivo: così il 19.3.2020 è stato sottoscritto un protocollo per i Servizi ambientali in cui le parti sociali hanno concordato la costituzione di un comitato paritetico per il monitoraggio della pandemia, che svolge funzioni di mediazione su eventuali criticità in ordine all’attuazione del testo “madre” del 14.3.2020. La logica partecipativa e della cogestione dell’emergenza è favorita anche a livello aziendale, con la creazione di un organismo ad hoc di monitoraggio cui partecipano i soggetti sindacali. Con forte dinamismo le parti si impegnano poi ad un tempestivo aggiornamento del documento di valutazione dei rischi, in merito al pericolo associato all’infezione da SARS-CoV-2, ed ancora a verificare la rispondenza del documento ai protocolli di sicurezza adottati.

Va segnalato inoltre il protocollo nel settore dell’edilizia siglato sempre il 19.3.2020 da Anas S.p.A., RFI, ANCE, Feneal Uil, Filca – CISL e Fillea CGIL: a parte la specificazione dei principi generali (sanificazione, accesso al luogo di lavoro), sono degne di nota le previsioni sull’organizzazione nel cantiere, che prevedono la rimodulazione del cronoprogramma di esecuzione dei lavori, anche tramite meccanismi di turnazione che limitino i contatti; e soprattutto quella che – nel tipizzare per via pattizia quanto previsto dall’art. 91 del d.l. 17.3.2020, n. 18 – esclude la responsabilità del debitore ex artt. 1218 e 1223 c.c. nei confronti del committente per inadempimenti o ritardi ascrivibili alla pandemia in atto. Ciò avviene nel caso in cui la lavorazione in cantiere debba avvenire a distanza inferiore al metro, non siano possibili ulteriori soluzioni organizzative e non siano reperibili a sufficienza dispositivi di protezione individuale (guanti, mascherine…). Inoltre, si segnala che le causali contemplate dal protocollo che esonerano dalla responsabilità sono meramente esemplificative.

Infine, il 24.3.2020 è stato firmato il Protocollo per i servizi sanitari, in cui l’insorgenza del COVID-19 rientra nel novero dei rischi specifici di tipo biologico ed è pertanto soggetto alle prescrizioni del Titolo X del Testo Unico. Nel Protocollo viene prescritto obbligatoriamente l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale per l’esecuzione della prestazione, che, in omaggio al principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, possono anche essere di qualità superiore a quelli ritenuti adeguati dagli organismi tecnico-scientifici; inoltre le parti si impegnano a definire procedure omogenee di sorveglianza sanitaria degli operatori entrati in contatto con pazienti affettivi da Coronavirus. A parte le linee guida securitarie in senso stretto, nel Protocollo vi è la consapevolezza di come in prospettiva salute e sicurezza della popolazione si garantiscano efficacemente attraverso il potenziamento di organico e risorse (nuove assunzioni, anche tramite piani straordinari e revisione dei piani di fabbisogno regionali), dopo anni di tagli costanti al Servizio Sanitario Nazionale che ne hanno fortemente ridimensionato l’originaria vocazione universalistica di cui alla l. n. 833/1978.

Salute e sicurezza e sospensione delle attività produttive: l’intervento governativo

Sul fronte dell’ordinamento statale, con DPCM. del 22 marzo 2020, il governo, dopo che con precedente provvedimento dell’11 marzo aveva disposto la sospensione di tutte o quasi le attività commerciali al dettaglio, è nuovamente intervenuto in materia, in un’ottica di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica.

Di primo acchito il DPCM parrebbe introdurre una sospensione generalizzata delle attività produttive e commerciali, salvo alcune eccezioni, per la salvaguardia della salute dei lavoratori e della collettività: infatti «sono sospese tutte le attività produttive industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 1 e salvo quanto di seguito disposto». Il DPCM non fissa una soluzione predefinita, posto che l’elenco di cui all’allegato 1 può essere modificato in fieri con decreto del Ministro dello sviluppo economico sentito il Ministro dell’economia.

Dalla versione originaria dell’allegato emergeva chiaramente come l’autorità governativa si fosse decisamente sbilanciata a favore delle ragioni dell’impresa, perdendo di vista la salute come diritto fondamentale: vi erano infatti ottantuno attività, tra produttive e commerciali, distinte per codici ATECO, che potevano essere liberamente esercitate. La versione aggiornata dell’allegato del 26 marzo, forte del recente sciopero dei metalmeccanici in Lazio e in Lombardia ed anche delle sollecitazioni del mondo sindacale, ha ridimensionato tali attività: è stata così sospesa la fabbricazione di macchine agricole e di articoli in gomma, i call center restano aperti soltanto per assistenza tecnica e non per offerte; le agenzie interinali possono operare solo per le attività consentite; e l’attività di sostegno alle imprese è circoscritta alla sola consegna a domicilio di prodotti. Di fondamentale importanza sono anche le sospensioni nei settori della chimica (fiammiferi ed esplosivi), dell’ingegneria civile (opere idrauliche) e della manutenzione e riparazione delle macchine (armi e sistemi di munizione).

È opinione di chi scrive che l’autorità governativa avrebbe dovuto valorizzare maggiormente il diritto alla salute rispetto alla libera iniziativa economica privata e al diritto-dovere al lavoro: il DPCM avrebbe dovuto introdurre una sospensione della produzione su tutto il territorio nazionale, o nelle aree maggiormente colpite dall’epidemia (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) della durata di quindici giorni, tranne che per le attività espressione di servizi essenziali (acqua, luce, gas, elettricità, trasporti), per la produzione e la distribuzione di generi alimentari, di materiale farmaceutico e dispositivi medici. Parimenti in molti settori si sarebbe dovuta mantenere la produzione per la sola fornitura dei pezzi di ricambio, limitando al minimo gli ingressi in fabbrica ed i rischi di contagio.

Ad oggi possono inoltre continuare ad operare nel mercato tutte quelle imprese le cui lavorazioni, pur non sussumibili nei codici ATECO di cui all’allegato 1, si inscrivono nella filiera produttiva delle lavorazioni non sospese: è sufficiente una semplice comunicazione al Prefetto della provincia dove si svolga la singola attività, la quale in ogni caso è pienamente esercitabile sino all’emanazione di un eventuale provvedimento prefettizio.

Infine il governo ha adottato ulteriori misure con il d.l. 25.3.2020, n. 19: per contenere il rischio da COVID-19, su tutto o su parti del territorio nazionale si possono emanare misure della durata massima di trenta giorni, reiterabili e modificabili più volte fino al 31.7.2020, tra cui rientrano la possibilità di sospendere attività commerciali di vendita al dettaglio (tranne che per generi agricoli, alimentari e di prima necessità); di altre attività di impresa o professionali, anche se correlate all’esercizio di funzioni pubbliche, con possibilità di esclusione dei servizi di pubblica necessità previa assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio. Nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, le misure adottabili dispiegano un’efficacia territoriale elastica: possono riguardare l’intero territorio nazionale, oppure una o più regioni, attraverso un decreto del Presidente del Consiglio.

Lo scenario fluido è completato dalla previsione dell’art. 1, co. 3 del decreto che, per la durata dell’emergenza prevede il potere del Prefetto di imporre lo svolgimento delle attività che non sono oggetto di provvedimenti di sospensione, di cui sia assolutamente necessario assicurare l'effettività e la pubblica utilità: vista la delicatezza della questione, la norma ha opportunamente previsto la consultazione obbligatoria delle parti sociali interessate omessa ogni formalità.

Salute e sicurezza e prospettive future: verso il tracciamento digitale?

Mondo politico e parti sociali hanno da poco cominciato a discutere della possibilità di tracciare digitalmente le persone per minimizzare i rischi di contagio, sulla falsariga di quanto accaduto recentemente in Corea del Sud. La tutela della salute come interesse della collettività si intreccia con quella dei lavoratori nelle singole aziende, e va ragionevolmente contemperata con il diritto alla riservatezza. Se si seguisse il modello del digital contact tracing – in ogni caso temporaneo, pena la creazione di una società orwelliana –  in chiave sistemica, ad un imprescindibile intervento legislativo (Soro, A., Sì al tracciamento dei contatti ma con un decreto temporaneo, 26 marzo 2020, in www.garanteprivacy.it) potrebbe accompagnarsi un nuovo Protocollo o una versione aggiornata di quella del 14 marzo. I principi di minimizzazione e proporzionalità del trattamento dei dati dei cittadini-lavoratori verrebbero declinati con una certa uniformità nei contesti aziendali grazie alla condivisione delle regole tra le parti sociali.

Bibliografia essenziale

Bacchini, F., Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in Giustiziacivile.com, 18.3.2020; D’Aponte, M., La tutela della salute del lavoratore dopo il Jobs Act, Torino, 2018; Ingrao, A., C’è il COVID, ma non adeguati dispositivi di protezione: sciopero o mi astengo?, in Giustiziacivile.com, 18.3.2020; Lai, M., Il diritto della sicurezza sul lavoro tra conferme e sviluppi, Torino, 2017; Pascucci, P., Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Dir. sic. lav., 2019, 2, 98 ss.; Pascucci, P., Sistema di prevenzione aziendale, emergenza Coronavirus e effettività, in Giustiziacivile.com, 17.3.2020; Pelusi, L. M., Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Dir. sic. lav., 2019, 2, 122 ss.

Pubblicato il 31/03/2020