Tutela del lavoro e emergenza da COVID-19. Lo smart working ai tempi del coronavirus

Introduzione

Stiamo vivendo un inatteso esperimento di lavoro al di fuori dei tradizionali vincoli di tempo e di spazio. Si tratta di un esperimento attivato in condizioni eccezionali a causa dell’emergenza: non è stato preparato; ha coinvolto all’improvviso una parte molto ampia dei lavoratori, indipendentemente dalle caratteristiche del lavoro e delle imprese in cui operano; si svolge in condizioni di privazione quasi completa della libertà di spostamento e, specularmente, di massima vicinanza fra le persone dello stesso nucleo familiare.

Nonostante o forse proprio grazie all’eccezionalità di queste condizioni, abbiamo l’occasione di riflettere senza retorica su una modalità di lavoro di cui finora abbiamo molto parlato ma che è stata poco praticata. In Italia, in particolare, prima di questa emergenza i numeri del fenomeno sono stati molto contenuti, minori rispetto alle aspettative e rispetto a molti altri Paesi. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano si stimano 570.000 smartworker ad ottobre 2019 (e questi numeri ricomprendono anche tutti coloro che ricorrono a questa modalità con intensità minima).

È probabile che la sperimentazione forzosa di questi giorni, finalizzata alla tutela della salute attraverso il contenimento del contagio da COVID-19, favorisca una più rapida diffusione dello smart working quando torneremo alla normalità. Ma non è realistico credere che questa diffusione produca in maniera automatica risultati positivi e che questi risultati positivi riguardino tutti i lavori e tutte le imprese. Per scegliere intenzionalmente come e in quale misura investire sullo smart working quando l’emergenza sarà finita, è utile una discussione critica a partire da quanto sta accadendo in queste giornate.

 

Una riflessione sulla definizione

La l. 22.5.2017, n. 81 ha regolato in Italia il lavoro agile come la «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici» (art. 18, co. 1). Dopo una prima misura limitata alle imprese in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia,  prevista con il  DPCM 25.2.2020, il decreto 1.3.2020 ha ampliato a tutto il territorio nazionale la possibilità di attivare il lavoro agile con una procedura semplificata stabilendo che «la modalità di lavoro agile (…), può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza (…), dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti. Gli obblighi di informativa di cui all'art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica» (art. 4). Se è chiara l’esigenza di rendere immediatamente operativo lo strumento, è anche chiaro che si è fatto saltare – seppur in via temporanea ed eccezionale – uno dei principi cardine della legge del 2017: la necessità che il lavoro agile sia oggetto di programmazione e negoziazione tra le parti.

È ragionevole ritenere che nella attuale emergenza si sia attivato prevalentemente lavoro da casa, più o meno mimando le attività che venivano svolte in ufficio, e non ci sono garanzie che il lavoro trasferito a casa in condizioni di urgenza si stia svolgendo secondo modalità “smart”. Dietro la scelta dell’attributo “smart”, vi è chiaramente l’aspirazione ad una modalità di lavoro migliore, anzi “socialmente desiderabile” (Corsi, G., Quanto è smart lo Smart Working? in  Neri M., a cura di, Smart working: una prospettiva critica, Tao Digital Library, 2017, 36-42.). Ma è altrettanto chiaro che il fatto che questa, come ogni altra modalità di lavoro, produca o meno risultati positivi non può dipendere semplicemente dal luogo e dai tempi in cui si svolge la prestazione. Lo smart working necessità di scelte organizzative e sono queste scelte a creare le condizioni perché si generino risultati positivi.

Grazie allo sviluppo delle tecnologie un numero crescente di lavori può “distribuirsi” e non essere vincolato all’interno dei confini fisici dell’impresa e dei tempi di lavoro rigidamente prestabiliti (lo diceva già McLuhan M., Understanding Media: The Extensions of Man, 1964, Berkeley). Ma oggi ci appare evidente che la disponibilità di tecnologia debba essere considerata una condizione necessaria ma non sufficiente. Quand’anche il digital divide che affligge il Paese fosse annullato (non solo fra Nord e Sud, ma fra città e province, fra imprese grandi e imprese piccole, fra persone in condizioni socio-economiche diverse), l’efficace distribuzione del lavoro nel tempo e nello spazio non avverrebbe in modo automatico. Perciò occorre accelerare il processo di crescita della cultura manageriale necessaria per gestire efficacemente i cambiamenti organizzativi delle imprese resi possibili dalla trasformazione tecnologica.

 

L’apparente paradosso dello smart working: fa bene o fa male?

Nel dibattito di questi giorni si cerca il supporto di studi empirici che evidenzino i benefici effetti dello smart working. Ma ai più attenti non sarà sfuggita una situazione apparentemente paradossale: i dati disponibili evidenziano effetti molto diversi, alcuni nettamente contrastanti.  

Questo paradosso può essere risolto valutando due elementi.

In primo luogo, è necessario considerare la varietà dei fenomeni su cui lo smart working incide (o su cui vorremmo che incidesse). Non tutti i risultati auspicati per questa modalità di lavoro sono mutualmente compatibili. Si configura una situazione in cui, ad esempio, gli effetti positivi di maggiore soddisfazione del lavoratore o di maggiore flessibilità percepita avvengono a scapito dell’efficacia della sua prestazione lavorativa o a scapito della sua relazione con i capi e con i colleghi. È necessario essere consapevoli dell’esistenza di possibili trade-off fra le finalità che ci si prefigge con l’introduzione di questa modalità di lavoro.

In secondo luogo, si deve considerare che i risultati dello smart working non si manifestano ugualmente in tutte le condizioni. Per cui accade, ad esempio, che lo smart working produca risultati positivi per alcuni tipi di lavori e non per altri, per persone con un certo tipo di esperienze e competenze e non per altre. È necessario analizzare le caratteristiche dei lavori e le condizioni in cui si svolgono prima di procedere al cambiamento. 

 

Il superamento della retorica win-win

La retorica win-win è originariamente insita nella ”smartness” che abbiamo attribuito a questa modalità di lavoro e si è tradotta nella convinzione che lo smart working dovesse “fare bene” a tutti, producendo simultaneamente risultati positivi per persone, imprese e pure comunità.

Ci sono studi empirici che si concentrano sulle implicazioni dello smart working per i lavoratori e che hanno trovato supporto positivo alle ipotesi di percezione di maggiore discrezionalità e di flessibilità nello svolgimento del job, di maggiore soddisfazione, di trasferimento di energie e risorse positive dal lavoro alla famiglia, di maggiore conciliazione fra vita lavorativa e vita privata (fra cui,  McNall, L.A.-Masuda, A.D.-Nicklin, J.M., Flexible work arrangements, job satisfaction, and turnover intentions: The mediating role of work-to-family enrichment, in The Journal of psychology, 2010, 144(1), 61-81; Shockley, K.M.-Allen, T.D., When flexibility helps: Another look at the availability of flexible work arrangements and work–family conflict, in Journal of Vocational Behavior, 2007, 71(3), 479-493.).

Un numero minore di studi empirici si concentra sulle implicazioni dello smart working per le imprese. Alcuni fra questi hanno trovato supporto positivo alle ipotesi di aumento della produttività del lavoro e (in un numero minore di casi) dell’efficacia della prestazione lavorativa e di riduzione del tasso di turnover dei lavoratori (fra cui, Greenberg, J., Roberge, M.E., Ho, V.T., & Rousseau, D.M. (2004). Fairness as an “i-deal”: Justice in under-the-table employment arrangements. Research in personnel and human resources management, 2004, 22, 1-34).

Infine, ci sono studi sulle implicazioni al livello di comunità, che evidenziano gli effetti positivi dello smart working in termini di riduzione del traffico (e del correlato inquinamento) e di riduzione di alcuni costi sociali per effetto dello svolgimento di una maggiore parte delle attività di cura verso i figli e verso gli anziani all’interno delle famiglie (fra cui, Allen, T.D.- Johnson, R.C.-Kiburz, K.M.-Shockley, K.M., Work–family conflict and flexible work arrangements: Deconstructing flexibility, in Personnel psychology, 2013, 66(2), 345-376;).

Al tempo stesso, però, altri studi empirici riportano effetti negativi, soprattutto al livello di persone e di impresa.

Dagli studi al livello di impresa emergono possibili effetti negativi in termini di riduzione di produttività e, soprattutto, di efficacia della prestazione lavorativa; di riduzione dei comportamenti di cittadinanza organizzativa; di maggiori costi di formalizzazione e pianificazione del lavoro; di maggior sovraccarico per le persone che lavorano in modalità standard e di riduzione dell’equità percepita fra chi lavora in modalità standard e chi no (fra cui, Golden, T., Co-workers who telework and the impact on those in the office: Understanding the implications of virtual work for co-worker satisfaction and turnover intentions, in  Human relations, 2007, 60 (11), 1641-1667).

Dagli studi al livello di analisi individuale emergono casi in cui si sono registrati effetti negativi in termini di maggiore frustrazione nello svolgimento della prestazione; di riduzione della qualità e della frequenza di interazione con i colleghi e, in misura minore, con i capi; di aumento dell’isolamento sociale; di aumento del monitoraggio percepito e di riduzione della discrezionalità; di maggiore difficoltà di disconnessione e aumento dello stress; di riduzione della visibilità e di blocco alla carriera; di aumento del conflitto fra vita lavorativa e privata per la permeabilità dei confini fra famiglia e lavoro e di connessa amplificazione del gender gap per le lavoratrici, più esposte alla permeabilità (fra cui, Leslie, L.M.-Manchester, C.F.-Park, T.Y.-Mehng, S.A., Flexible work practices: A source of career premiums or penalties?, in Academy of Management Journal, 2012, 55 (6), 1407-1428; Thatcher, S.M.-Bagger, J., Working in pajamas: Telecommuting, unfairness sources, and unfairness perceptions, in Negotiation and Conflict Management Research, 2011, 4 (3), 248-276).

La compresenza negli studi di effetti sia negativi che positivi non configura un vero paradosso, ma evidenzia piuttosto che lo smart working produce effetti che non sono necessariamente connessi fra loro da un circolo positivo (Gajendran, R.S.-Harrison, D.A, The good, the bad, and the unknown about telecommuting: Meta-analysis of psychological mediators and individual consequences, in Journal of applied psychology, 2007, 92(6), 1524.). Il “working hard” può avvenire a scapito del ”working smart”: si lavora per più tempo, ma si lavora peggio non avendo accesso a risorse e competenze necessarie. Il miglioramento della “task” performance può avvenire a scapito della “contextual” performance: si svolge meglio la prestazione lavorativa perché si hanno meno distrazioni ed interruzioni, ma si contribuisce meno al clima sociale dell’impresa. Il miglioramento della performance lavorativa può avvenire a scapito della qualità delle relazioni con i colleghi o con i capi e a scapito della possibilità di carriera. E, similmente, la maggiore flessibilità nella gestione della vita privata può avvenire a scapito della qualità della vita privata stessa, oltre che a scapito della performance lavorativa e delle possibilità di carriera.

Al di là degli auspici, emerge che gli effetti dello smart working possono risultare non tutti mutualmente compatibili. Esserne consapevoli è fondamentale, perché – ritornati a tempi normali – si possa essere nelle condizioni di scegliere in modo intenzionale su quali leve investire, anche con una esplicita finalità di compensazione. Come si evidenzia dalle prassi di alcune imprese virtuose, se – ad esempio – la finalità prioritaria è migliorare la conciliazione fra vita lavorativa e vita familiare, allora serve che l’impresa simultaneamente investa in azioni per salvaguardare le persone da un eccesso di permeabilità fra lavoro e famiglia (come il sostegno economico per le spese relative all’asilo nido, alle attività pre e post scuola, alle attività di babysitting). Ovvero – per citare un altro esempio – se la finalità prioritaria è aumentare la produttività di alcune categorie di lavoratori, allora è necessario che l’impresa investa nei sistemi di valutazione e monitoraggio dei risultati e simultaneamente in occasioni e spazi di relazione per non escludere gli smartworker dalla vita sociale dell’impresa.

 

Il superamento della retorica della soluzione ottima

Un secondo aspetto che genera l’apparente paradosso dei dati sullo smart working è connesso ai contesti di utilizzo. Gli effetti dello smart working non si manifestano ugualmente in ogni condizione, ma dipendono da specifiche contingenze. Non c’è conferma empirica dell’efficacia di questa modalità per tutte le organizzazioni, per tutti i lavori e per tutte le persone. Lo smart working non è la soluzione ottima da utilizzare a pioggia e si determina la necessità di una scelta per identificare le situazioni contingenti che ne favoriscano un’implementazione efficace.

Vi è innanzitutto una contingenza strutturale connessa all’intensità di uso della modalità “smart”. Gli studi evidenziano che si comincia a riorganizzare il lavoro dopo una certa soglia di “distanza” (prima si effettua solo una riorganizzazione dell’agenda spostando nei giorni a distanza le attività che non necessitano di interazioni). All’aumentare del tempo passato a distanza aumenta la capacità di utilizzare la nuova modalità di lavoro: migliora la capacità di pianificazione, di gestione dei confini fra lavoro e famiglia, etc. Similmente, però, con l’aumento di intensità di uso si amplificano gli effetti dell’isolamento (Fay, M.J.-Kline, S.L., Coworker relationships and informal communication in high-intensity telecommuting, in  Journal of Applied Communication Research, 2011, 39(2), 144-163.).

Vi è, poi, una contingenza del lavoro, connessa alle caratteristiche del lavoro. Gli studi evidenziano effetti positivi amplificati per lavori caratterizzati da alto grado di autonomia, basso grado di interdipendenza da altri lavori e elevata misurabilità dei risultati del lavoro (Mazmanian, M., Orlikowski, W. J., & Yates, J. The autonomy paradox: The implications of mobile email devices for knowledge professionals. in Organization science, 2013, 24(5), 1337-1357; Golden, T.D.-Veiga, J.F.-Simsek, Z., Telecommuting's differential impact on work-family conflict: Is there no place like home?, in Journal of applied psychology, 2006, 91(6), 1340.).

Vi è anche una contingenza della tecnologia, connessa alle modalità individuali di appropriazione della tecnologia: gli effetti positivi dello smart working sono amplificati quando i lavoratori percepiscono la tecnologia come funzionale ai propri obiettivi e facile da utilizzare (fra cui, Venkatesh, V.-Morris, M.G.-Davis, G.B.-Davis, F.D., User acceptance of information technology: Toward a unified view. In MIS quarterly, 2003, 425-478).

Infine, vi sono numerose contingenze psicologiche e sociali, connesse alle caratteristiche delle persona fra cui l’esperienza nel ruolo (e nella modalità “smart” di svolgimento del lavoro), l’anzianità aziendale, i tratti di personalità, i bisogni di affiliazione e di socialità, la qualità della relazione con i colleghi e con il capo, gli stili di leadership e le competenze manageriali presenti nell’organizzazione (Gajendran, R.S.-Harrison, D.A.-Delaney‐Klinger, K., Are telecommuters remotely good citizens? Unpacking telecommuting's effects on performance via i‐deals and job resources, in Personnel Psychology, 2015, 68(2), 353-393).

Emerge, in sintesi, che gli effetti dello smart working si manifestano in modi differenziati in situazioni diverse. E, anche in questo caso, è fondamentale esserne consapevoli per la scelta di quali lavori e quali popolazioni di lavoratori coinvolgere.  Come si evidenzia dalle prassi di alcune imprese virtuose, l’identificazione delle popolazioni su cui introdurre lo smart working è svolta attraverso l’incrocio di criteri differenziati. Si considerano, ad esempio, le caratteristiche del lavoro – identificando la popolazione dei “venditori” –- insieme alle capacità delle persone – restringendo ai venditori che hanno in passato ottenuto buone valutazioni sulle capacità di pianificazione e organizzazione del proprio lavoro – e al loro grado di esperienza – arrivando a identificare una popolazione di venditori dotati di buone capacità di pianificazione e organizzazione e di una elevata esperienza nel ruolo.  

 

Le condizioni organizzative per uno smart working diffuso ed efficace

Uno smart working efficace necessita di una scelta consapevole sia degli effetti prioritari che si vogliono ottenere con la sua introduzione, sia delle popolazioni che si intendono coinvolgere. In aggiunta a questi due elementi, è necessario considerare un terzo fattore relativo all’organizzazione di impresa.

Con l’eccezione delle imprese che per posizionamento strategico sono disperse sui territori (e magari su territori che non condividono uno stesso fuso orario), molte delle altre sono state tradizionalmente organizzate dando per scontata la comunanza di spazio e di tempo fra le persone. Ne consegue che, ad oggi, la gran parte delle attività sia stata allocata ai ruoli e alle unità organizzative, assumendo che le persone lavorino in condizioni di prossimità e che questa prossimità permetta loro un aggiustamento continuo. Similmente, la gran parte dei sistemi di coordinamento e di pianificazione del lavoro sono stati disegnati sul presupposto che una parte dell’integrazione necessaria si genera in modo emergente e tacito proprio grazie alla condivisione di luoghi e di tempi. E così pure la gran parte dei sistemi di monitoraggio, di valutazione e di valorizzazione del lavoro è stata progettata assumendo l’osservabilità dei comportamenti delle persone.

In questi casi l’introduzione diffusa dello smart working richiede interventi di riprogettazione tanto delle strutture di responsabilità quanto dei meccanismi organizzativi. È necessario prendere atto che la perdita diffusa dei vincoli di spazio comporta il ripensamento dei confini delle unità organizzative e dei ruoli e delle loro modalità di coordinamento. Sempre per citare le prassi delle imprese virtuose, l’introduzione dello smart working può essere accompagnata dalla definizione di ruoli e unità organizzative più specializzati, al fine di identificare obiettivi di risultato più specifici e misurabili; oppure da una riprogettazione finalizzata a rendere più autonomi e meno interconnessi altri ruoli e unità organizzative. In molti casi per garantire l’efficacia della nuova modalità di lavoro queste imprese hanno scelto di ridefinire i meccanismi di coordinamento e di pianificarne in modo dettagliato tempi e modalità di utilizzo; e sono intervenute sui sistemi di gestione delle risorse umane, per permettere una valutazione ma soprattutto una valorizzazione dei risultati del lavoro in assenza di prossimità.

Non da ultimo, è fondamentale ricordare che i luoghi di lavoro non sono solo spazi dove si espleta una prestazione lavorativa. Sono anche luoghi di comunità che rispondono a bisogni di socialità, sono luoghi dell’apprendimento sociale e della crescita, sono luoghi di costruzione dell’identità professionale e personale. E l’investimento di tempo nei luoghi del lavoro è anche un investimento emotivo. Ne deriva la scelta delle imprese virtuose di accompagnare l’introduzione dello smart working attraverso quelle leve organizzative, dalla comunicazione alla formazione, che agiscono a sostegno della dimensione sociale del lavoro.

 

Conclusioni

Lo smart working non deve essere inteso come una soluzione semplice a problemi complessi e la disponibilità di nuove e sempre più evolute tecnologie non rappresenta, di per sé, una garanzia di efficacia. Così come dalla perdita dei vincoli di luogo e orario non deriva un automatico aumento dei gradi di libertà. Le difficoltà che in molti vivono in questi giorni evidenziano che i problemi complessi necessitano di soluzioni complesse e che le soluzioni non arrivano mai né gratis né in automatico. La perdita dei vincoli connessi al luogo e all’orario di lavoro si traduce in una perdita della dimensione sociale del lavoro e di una parte della sua dimensione tacita. Il che significa che un’introduzione diffusa ed efficace di questa modalità di lavoro necessita di un investimento rilevante in un ampio insieme di leve organizzative a sostegno e, in taluni casi, a compensazione della perdita di condivisione.

L’auspicio è che l’esperimento che stiamo vivendo in questi giorni ci porti ad un approccio più maturo e consapevole allo smart working, che ne favorisca un’introduzione e un’implementazione tanto diffusa quanto efficace. 

 

Bibliografia essenziale

Allen, T.D.- Johnson, R.C.-Kiburz, K.M.-Shockley, K.M., Work–family conflict and flexible work arrangements: Deconstructing flexibility, in Personnel psychology, 2013, 66(2), 345-376; Corsi, G., Quanto è smart lo Smart Working? in  Neri M., a cura di, Smart working: una prospettiva critica, Tao Digital Library, 2017; Fay, M.J.-Kline, S.L., Coworker relationships and informal communication in high-intensity telecommuting, in  Journal of Applied Communication Research, 2011, 39(2), 144-163; Gajendran, R.S.-Harrison, D.A, The good, the bad, and the unknown about telecommuting: Meta-analysis of psychological mediators and individual consequences, in Journal of applied psychology, 2007, 92(6), 1524; Gajendran, R.S.-Harrison, D.A.-Delaney‐Klinger, K., Are telecommuters remotely good citizens? Unpacking telecommuting's effects on performance via i‐deals and job resources, in Personnel Psychology, 2015, 68(2), 353-393; Golden, T., Co-workers who telework and the impact on those in the office: Understanding the implications of virtual work for co-worker satisfaction and turnover intentions, in  Human relations, 2007, 60(11), 1641-1667; Golden, T.D.-Veiga, J.F.-Simsek, Z., Telecommuting's differential impact on work-family conflict: Is there no place like home?, in Journal of applied psychology, 2006, 91(6), 1340; Greenberg, J., Roberge, M.E., Ho, V.T., & Rousseau, D M. (2004). Fairness as an “i-deal”: Justice in under-the-table employment arrangements, in Research in personnel and human resources management, 2004, 22, 1-34; Leslie, L.M.-Manchester, C.F.-Park, T.Y.-Mehng, S.A., Flexible work practices: A source of career premiums or penalties?, in Academy of Management Journal, 2012, 55(6), 1407-1428; Mazmanian, M., Orlikowski, W. J., & Yates, J. The autonomy paradox: The implications of mobile email devices for knowledge professionals, in Organization science, 2013, 24(5), 1337-1357; McLuhan M., Understanding Media: The Extensions of Man, 1964, Berkeley; McNall, L.A.-Masuda, A.D.-Nicklin, J.M., Flexible work arrangements, job satisfaction, and turnover intentions: The mediating role of work-to-family enrichment, in The Journal of psychology, 2010, 144(1), 61-81; Shockley, K.M.-Allen, T.D., When flexibility helps: Another look at the availability of flexible work arrangements and work–family conflict, in Journal of Vocational Behavior, 2007, 71(3), 479-493; Thatcher, S.M.-Bagger, J., Working in pajamas: Telecommuting, unfairness sources, and unfairness perceptions, in Negotiation and Conflict Management Research, 2011, 4 (3), 248-276; Venkatesh, V.-Morris, M.G.-Davis, G.B.-Davis, F.D., User acceptance of information technology: Toward a unified view, in MIS quarterly, 2003, 425-478.

 

 

 
Pubblicato il 31/03/2020

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