di Ilja Richard Pavone
Il livello di recrudescenza raggiunto negli ultimi anni dal fenomeno della pirateria nel Corno d’Africa, al largo delle coste e nel mare territoriale della Somalia, impone una riflessione sull’adeguatezza del diritto internazionale e dell’azione degli Stati a prevenire e reprimere gli atti di pirateria.
Le autorità statali somale (Somali Transitional Government – TFG), che si trovano in una situazione di collasso a causa della guerra civile in corso, non riescono infatti a garantire una sorveglianza delle rotte marittime idonea a contrastare il fenomeno nelle proprie acque territoriali. Inoltre, i movimenti secessionisti e autonomisti della Somalia offrono “rifugio” nei porti da loro controllati ai pirati, ostacolandone la cattura e la sottoposizione a giudizio.
La Convenzione sul diritto del mare, adottata a Montego Bay nel 1982, stabilisce all’art. 100 l’obbligo di tutti gli Stati di cooperare nella misura del possibile per reprimere la pirateria in alto mare o in qualunque altra area al di fuori delle giurisdizioni statali.
In tale contesto, le Nazioni Unite hanno adottato varie iniziative al fine di controllare e impedire la pirateria. Il Consiglio di sicurezza, con la Risoluzione n. 1814 del 15 maggio 2008 ha chiesto agli Stati di agire di comune accordo con il governo somalo per proteggere le navi e gli aiuti umanitari diretti in Somalia. La Risoluzione n. 1816 del 2 giugno 2008, adottata nel quadro del Cap. VII della Carta dell’ONU, in risposta alla richiesta somala di assistenza, rappresenta un punto di svolta nella prassi del contrasto al fenomeno attuale della pirateria, poiché ha autorizzato gli Stati all’uso della forza nel mare territoriale somalo per sei mesi (prorogati dalla Risoluzione n. 1838/2008), per reprimere gli atti di pirateria e rapina armata in conformità alle misure che possono essere adottate in alto mare secondo il diritto internazionale. Il Consiglio di sicurezza ha infatti esteso al mare territoriale somalo l’ambito di applicazione della norma di diritto internazionale tradizionale sulla giurisdizione universale contenuta nell’art. 105 della Convenzione di Montego Bay relativa all’alto mare. Tale estensione si fonda sulle due lettere, indirizzate al Consiglio di sicurezza il 27 febbraio e il 14 maggio 2008, con cui il governo somalo ha consentito allo svolgimento di azioni militari nel suo mare territoriale per proteggere la navigazione e prevenire atti di pirateria, riconoscendo di non essere in grado di interdire tali azioni e pattugliare le proprie coste in maniera efficace.
La Risoluzione n. 1816 ha così legittimato l’azione degli Stati nel mare territoriale somalo, qualificando la situazione interna della Somalia una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. Il Consiglio ha puntualizzato che la decisione si applica esclusivamente al caso somalo, onde evitare di creare un precedente per l’adozione di decisioni future o per la formazione di una norma consuetudinaria in deroga al regime giuridico esistente nel diritto internazionale del mare.
In esecuzione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, forze navali di Stati e organizzazioni internazionali (come gli Stati Uniti, la NATO e l’UE) sono state inviate nel golfo di Aden. Alle decisioni delle Nazioni Unite ha risposto anche l’Unione europea che, con l’Azione comune 2008/851/PESC del Consiglio del 10 novembre 2008, ai sensi del TUE, ha istituito la missione militare EUNAVFOR (nome in codice “Atalanta”), diretta a dissuadere, prevenire e reprimere gli atti di pirateria e le rapine a mano armata al largo della Somalia. Attivata il 13 dicembre 2008, l’operazione navale protegge il traffico mercantile in transito in quelle acque, scorta le navi del Programma alimentare mondiale (WFP) e tutela i mercantili impegnati nella missione AMISON (African Union Mission in Somalia) dell’Unione Africana a sostegno della Somalia.
Uno degli aspetti più problematici delle azioni contro la pirateria concerne il trattamento dei pirati catturati. L’art. 105 della Convenzione di Montego Bay stabilisce il principio della giurisdizione penale universale: qualsiasi Stato che cattura la nave pirata e il suo equipaggio ha facoltà di giudicare presso i propri tribunali nazionali i pirati fermati nelle acque internazionali. L’ordinamento internazionale intende così assicurare la punizione di individui che minacciano l’interesse degli Stati al commercio, alla navigazione e all’assistenza umanitaria.
Tuttavia, gli Stati che hanno inviato le proprie navi per contrastare la pirateria hanno mostrato scarsa propensione a processare i pirati, preferendo piuttosto allontanarli o rilasciare prontamente quelli catturati.
L’esercizio della giurisdizione penale secondo l’art. 105 della Convenzione di Montego Bay è infatti complicato dalla distanza tra il luogo della cattura e la sede fisica del tribunale competente. Emblematico è stato il caso del panfilo francese Le Ponant preso in ostaggio dai pirati nel 2008: le forze speciali francesi che hanno liberato la nave hanno dovuto trasferire i pirati a Gibuti e da lì condurli in Francia dove sono stati processati.
A dissuadere lo Stato cattore dall’esercitare la propria giurisdizione contribuiscono inoltre il timore che i pirati possano chiedere asilo come rifugiati politici secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, nonché le difficoltà connesse alla detenzione nelle proprie carceri di individui catturati all’estero dallo status giuridico incerto, alla luce dell’esperienza di Guantanamo.
La soluzione di estradare i pirati verso lo Stato di origine potrebbe risolvere sia i problemi logistici che quelli giuridici. Tuttavia, la mancanza di un governo centrale effettivo in Somalia rende questa opzione poco praticabile con riguardo agli atti di pirateria nel golfo di Aden. Inoltre, l’estradizione in Somalia potrebbe confliggere con l’obbligo di non-refoulement previsto dai trattati sui diritti umani, che impone agli Stati parti di non inviare gli individui in Paesi dove potrebbero essere sottoposte a torture, abusi o altre pratiche inumane e degradanti.
La prassi degli Stati in materia risulta pertanto alquanto varia. Ad eccezione del caso Le Ponant, la Francia ha regolarmente rimpatriato i pirati catturati, con la garanzia dello Stato di origine che, una volta giunti in territorio nazionale, sarebbero stati trattati conformemente agli standard sui diritti umani.
Altri Stati, tra i quali i Paesi UE - in attuazione dell’art. 12 della decisione 2008/851/PESC, che prevede il trasferimento delle persone che hanno commesso o sono sospettate di aver commesso atti di pirateria alle autorità competenti dello Stato cattore o di uno Stato terzo - hanno invece preferito seguire un’altra via, ovvero quella di negoziare intese bilaterali con uno Stato terzo che si assume l’onere di giudicare i pirati. Questo è il caso dei Memoranda of Understanding conclusi da Stati Uniti, Regno Unito e Danimarca con il Kenya, rispettivamente nel dicembre 2008, gennaio e aprile 2009, e dello Scambio di lettere tra UE e Kenya del 2008 (approvato con Decisione 2009/293/PESC del Consiglio del 26 febbraio 2009). Tale Stato è stato infatti ritenuto il più idoneo a processare i pirati, sia per la prossimità geografica alla Somalia che per il suo sistema giudiziario, considerato tra i più avanzati nella regione.
L’accordo siglato dall’UE prevede che il Kenya giudicherà i pirati catturati dalle forze navali straniere, garantendo ad essi un equo processo e il rispetto dei diritti umani, compreso il divieto della pena di morte, l’habeas corpus, la presunzione di innocenza, l’assistenza consolare a spese dello Stato e le altre garanzie processuali.
Sotto il profilo giuridico, tali accordi non sono in contrasto con l’art. 105 della Convenzione di Montego Bay sulla giurisdizione penale universale, in quanto l’utilizzo nella norma del verbo “may” (nella versione inglese) o “peut” (nella versione francese) denota la facoltà e non l’obbligo degli Stati di giudicare i pirati presso i propri tribunali.
Dal punto di vista politico, tali intese avevano sollevato perplessità relative alla loro efficacia e alla volontà e capacità del Kenya di giudicare i numerosi pirati catturati dalle pattuglie della coalizione. Tuttavia, l’UE, per voce del consigliere giuridico all’operazione Atalanta, ha espresso soddisfazione per l’esecuzione efficace dell’accordo da parte del Kenya. Allo stato attuale il Kenya, in cooperazione con l’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) e in attuazione dell’accordo con l’UE, sta procedendo al giudizio dei pirati detenuti nelle carceri (dei 107 detenuti, 75 sono in corso di giudizio) e alcuni di questi sono già stati condannati a pene detentive.
L’Italia è uno degli Stati maggiormente impegnati nell’azione comune dell’UE nel Corno d’Africa, di cui guiderà l’operazione marittima fino all’aprile 2010. In seguito alla partecipazione italiana alla missione UE è stato approvato il Decreto legge n. 209 del 30 dicembre 2008, convertito dalla Legge n. 12 del 24 febbraio 2009, contenente disposizioni ad hoc sulla partecipazione italiana alla missione Atalanta e nuove disposizioni sulla dissuasione e repressione della pirateria.
L’art. 5, comma 4, della Legge n. 12/2009 attribuisce al Tribunale ordinario di Roma la competenza territoriale sui reati di pirateria previsti dagli artt. 1135 (pirateria) e 1136 (sospetta pirateria) del Codice della navigazione commessi in alto mare o nel mare territoriale altrui. La norma estende ai pirati catturati durante la missione Atalanta la speciale garanzia sulle misure di tutela della libertà personale prevista per i militari che hanno partecipato alla missione Enduring Freedom in Afghanistan.
La norma in esame è stata tuttavia modificata dal Decreto legge n. 61 del 15 giugno 2009, Disposizioni urgenti in materia di contrasto alla pirateria, il cui art. 1, comma 1, lett. a), ha limitato la giurisdizione italiana ai reati di pirateria commessi, in alto mare o in acque territoriali altrui, a danno dello Stato o di cittadini e beni italiani, precisando peraltro che tali reati devono essere accertati nelle aree di svolgimento della missione Atalanta.
Circoscrivendo la sua responsabilità giudiziaria, l’Italia si è allineata alla prassi degli altri Stati che non intendono occuparsi della sorte dei pirati catturati.
Le vicende del golfo di Aden hanno ridestato l’attenzione su una norma “dormiente” della Convenzione di Montego Bay, che alle condizioni attuali sta rilevando i suoi limiti: da un lato, gli Stati cattori hanno preferito delegare a Stati terzi l’esercizio della giurisdizione e, dall’altro lato, le autorità del Kenya hanno precisato che non accoglieranno un numero eccessivo di istanze di processo (per tale motivo, l’UE ha siglato un altro accordo con la Repubblica delle Seychelles il 30 ottobre 2009).
Non si può, tuttavia, fare a meno di segnalare l’emergere di alcuni elementi positivi forieri di ulteriori sviluppi.
Con l’invio della forza navale in Somalia e con l’accordo con il Kenya, l’UE ha dato importanti segnali di vitalità, dimostrando di essere una protagonista della scena internazionale e un valido partner dell’ONU nella repressione del fenomeno della pirateria.
Ancora più rilevante è che le delibere adottate dal Consiglio di sicurezza che estendono la portata delle norme del diritto internazionale sul contrasto alla pirateria, potrebbero contribuire allo sviluppo di un diritto internazionale adeguato al fenomeno moderno della pirateria.
Alla luce di tali innovazioni, si può pertanto concludere che la cooperazione internazionale, da un lato, e l’evoluzione del diritto internazionale dall’altro lato, possono contribuire ad identificare gli strumenti idonei a tutelare l’interesse collettivo degli Stati alla libera e sicura navigazione in acque internazionali
*Ricercatore dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del CNR.
Pubblicato il 16/03/2010