di Roberta Aliberti *

L’analisi del D.Lgs. 28/2010 sulla procedura di mediazione non può prescindere da un attento esame della rilevanza che la condotta delle parti può avere nel successivo ed eventuale giudizio. Nella prospettiva di trovare un adeguato ed efficiente metodo di risoluzione alternativa delle controversie, che non sia lesivo del diritto costituzionalmente garantito alla difesa, il contegno delle parti nella procedura di mediazione dovrebbe essere del tutto scevro da conseguenze negative, su qualsivoglia piano le si intenda, nel futuro ed eventuale processo. Ma, come si evidenzia nel contributo che segue, non sempre il legislatore del 2010 ha seguito una simile impostazione di fondo, preferendo sacrificare l’istituto della conciliazione ad esigenze che non gli sono proprie e finendo per determinare un male maggiore di quello che avrebbe voluto risolvere.

1. La conciliazione pura. La contraddittoria tendenza del nostro legislatore – che a distanza di pochi mesi dall’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione per la nutrita congerie di materie di cui al d. lgs. 28/10, elimina il preesistente e speculare obbligo proprio nel processo del lavoro, da sempre elevato a rango di modello del cognitorio puro – è già stata oggetto di plurime ed autorevoli riflessioni (cfr. ex plurimis, Proto Pisani A., “Appunti su mediazione e conciliazione”, in Foro Italiano 2010, V, 142; Scarselli G., “La Nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno”, ibidem, 146; Caponi R., “La ricerca di una giusta composizione della lite esalta l’impiego degli strumenti contrattuali”, in Guida al diritto, n. 46 del 21.11.2009, 21; Bove M., “Conciliazione e arbitrato nel collegato lavoro”, in Riv. Trim. Dir. e proc. civ., marzo 2011, 125; “Mediazione civile: una disciplina poco liberale che richiede una visione legata agli interessi”, in Guida al diritto, n. 13 del 27.03.2010; Zucconi Galli Fonseca E., “La nuova mediazione nella prospettiva europea: note a prima lettura”, in Riv. Trim. Dir. e proc. civ., giugno 2010, 653, Luiso F.P., “Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia?”; “La conciliazione: i possibili sviluppi tratti dall’esperienza” in www. Judicium.it), tanto da rendere pleonastico l’ulteriore indugio su questo peculiare aspetto della vicenda. Una valutazione comparata delle distinte normative in commento, tuttavia, può ancora riservare qualche utile spunto di riflessione al fine di saggiare se il legislatore italiano ha davvero colto le potenzialità insite nell’istituto conciliativo “puro” e, in caso affermativo, se tali potenzialità è stato in grado di trasporre sul piano del diritto positivo, al fine di consentirne la concreta attuazione.

Preliminarmente occorre vagliare le caratteristiche della conciliazione in sé considerata, e la sua idoneità ad offrire adeguata risposta alla sempre crescente domanda di giustizia. Solo all’esito di una tale propedeutica valutazione – che in questa sede viene ovviamente solo accennata, ma che altrove ha trovato ben più autorevoli approfondimenti – sarà possibile scandagliare l’uso che il legislatore italiano ha fatto della conciliazione e, in via del tutto deduttiva, quello che avrebbe potuto o dovuto farne. Ebbene, che la conciliazione costituisca una species del ben più ampio genus della risoluzione autonoma delle controversie, in contrapposizione alla speculare categoria della risoluzione eteronoma, è dato notorio che in questa sede non sarebbe utile, né proficuo, approfondire. Una veloce riflessione ci sia comunque consentita: il tratto caratteristico che ha sempre condotto i fautori dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie a fomentarne la diffusione, oltre che nella asserita idoneità a meglio preservare la continuità dei rapporti (Cfr. Caponi R., “La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (“Alternative Dispute Resolution”) ”in Foro Italiano 2003, parte V-8, 165), sta nella maggiore ampiezza e poliedricità di contenuti che la risoluzione autonoma assume rispetto a quella eteronoma. Certo, a tale generalissima considerazione dovrebbero seguirne ulteriori, di maggior momento e dettaglio, in grado di sceverare i pregi, e gli eventuali difetti, delle singole fattispecie rientranti nei due grandi genera sopra evidenziati; ma una simile operazione – che altri hanno già condotto col rigore scientifico che merita – ci allontanerebbe dal percorso più sopra tracciato, e dall’obiettivo che questo scritto vorrebbe perseguire. Ciò che, per il momento, mette conto sottolineare è che intanto una conciliazione può dirsi tale, in quanto rechi in sé i benefici che ne costituiscono nota saliente, tali da renderla un’alternativa reale e voluta, e non solo professata ed imposta, alla risoluzione eteronoma della controversia. Ed intanto le riforme legislative in commento potranno dirsi preordinate a fornire un adeguato ed efficiente metodo di risoluzione alternativa delle liti, nel rispetto del diritto costituzionale alla difesa, in quanto le stesse colgano realmente l’obiettivo di rendere appetibile e conveniente l’esperimento di una previa fase di composizione degli interessi che non transiti banco judicis, e non si limitino a costituire un mero passaggio “burocratico” obbligato. Ora, chiunque si sia occupato della materia è concorde nel ritenere che un buon governo dei metodi autonomi di risoluzione delle controversie postuli un efficiente e garantista sistema di tutela giurisdizionale, più che costituirne rimedio di ultima istanza, di talché la conciliazione possa assurgere davvero ad “alternativa” al processo, e non via di fuga o sfiduciato ripiego (Cfr. Caponi R. “La conciliazione stragiudiziale…” cit., 172, e Biavati P., “Conciliazione strutturata e politiche della giustizia ”, in Riv. Trim. di dir. e proc. civ, 2005, 797). Il punto principale di partenza, dunque, rimane pur sempre quello della centralità della giurisdizione, pur residuando qualche diversità di veduta con riferimento alla priorità della stessa (Cfr. Luiso F.P., in “La conciliazione…” cit. 1204 ss. e Biavati P., “Conciliazione strutturata…” cit., 790). Ancora allo scopo di rispondere ai quesiti sopra adombrati, deve pur compiersi un fugace richiamo alla distinzione tra la cosiddetta conciliazione aggiudicativa e quella facilitativa (o, usando le parole di Luiso F.P., “La conciliazione…” cit., pag. 1216, conciliazione/aggiudicazione, valutativa, o ancora rights-based mediation in anititesi a Conciliazione/mediazione o interest-based mediation), non certo per completezza espositiva, atteso il taglio dichiaratamente rievocativo delle presenti note, quanto per gli importanti risvolti pratici che, dall’adesione all’uno o all’altro modello, derivano in termini di bontà del ricorso alla conciliazione come metodo alternativo al contenzioso tout court. Nel modello di conciliazione che abbiamo definito facilitativa (o conciliazione/mediazione), in particolare, il conciliatore, “nella sua attitudine maieutica a sollecitare le parti a ritrovare in sé le ragioni di un accordo” (sono parole di Caponi R., “La conciliazione stragiudiziale…” cit., 174), pur svolgendo una funzione di orientamento e guida super partes, non è chiamato a valutare la fondatezza delle contrapposte pretese ma, piuttosto, ad avvicinare le rispettive posizioni avendo come unico obiettivo la reale soddisfazione degli interessi in gioco, anche attraverso la formulazione di una proposta di cui, però, non resti traccia alcuna, proprio al fine di evitare qualsivoglia deleteria interferenza con il futuro ed eventuale processo. La conciliazione facilitativa, dunque, è quella che meglio si presta a potenziare e concretizzare le caratteristiche insite nell’istituto, atteso che, libera dal cappio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, più in generale, dalla stretta conformità ad un modello normativo precostituito e cristallizzato una volta per tutte, è astrattamente idonea a condurre a quella proposta atipica e poliedrica che nessuna soluzione eteronoma delle controversie potrebbe garantire, e che sola è in grado di soddisfare anche quegli interessi che, pur facendo la differenza per chi ne invoca tutela, in aula non superano nemmeno la soglia del giuridicamente rilevante. Va detto, tuttavia, che un simile metodo, pur restando quello che più riesce ad esaltare la conciliazione intesa quale “luogo in cui la ragione e il torto si dissolvono, per sciogliersi nella ponderazione dell’interesse” (sono parole di Biavati P., “Conciliazione strutturata…” cit., pag. 798), è tanto più utilmente esperibile quanto più eterogenei siano gli interessi sottesi all’istanza, trovando, per contro, grosse difficoltà applicative al cospetto di posizioni del tutto omogenee (sul punto Luiso F., “La conciliazione…” cit., 1218). Il modello di conciliazione aggiudicativa, dal canto suo, impone al conciliatore di valutare la fondatezza delle rispettive pretese al fine di formulare una proposta che, sebbene non vincolante, influisce di regola sulla decisione relativa alle spese nel futuro ed eventuale processo giurisdizionale, “fermo rimanendo che ciò che accade nel procedimento di conciliazione non deve poter essere impiegato successivamente come elemento di prova” (sono parole di Caponi R., “La conciliazione stragiudiziale…” cit., 174). Così sommariamente individuate le più macroscopiche differenze tra i due modelli principali di conciliazione, e prima ancora di verificare a quale prototipo abbia fatto riferimento il nostro fantasioso legislatore del 2010, va opportunamente valorizzato il diverso contegno che tutte le parti coinvolte assumono, e non potrebbero non assumere, se chiamate ad una conciliazione aggiudicativa piuttosto che ad una conciliazione facilitativa. Ebbene, è di intuitiva evidenza che nel primo caso le parti, consapevoli del ruolo “giudicante” del conciliatore, e delle inevitabili interferenze con l’eventuale processo, addurranno gli argomenti maggiormente idonei a convincerlo che esse hanno ragione, guardandosi bene dal manifestare i reali interessi di cui sono titolari, con ciò vanificando già in partenza la possibilità che l’accordo finale possa avere quegli indubbi pregi che lo differenziano dalla risoluzione eteronoma, più sopra individuati. Anche il procedimento strettamente inteso risentirà dell’adesione all’uno o all’altro modello: nella conciliazione facilitativa il conciliatore, secondo la tecnica denominata caucus (un esempio della quale è rappresentato dal tentativo ex art. 708 c.p.c., o ex art. 4 L. 898/70), tiene una serie di colloqui separati con le parti, senza rivelare alla controparte le informazione apprese in separata sede, mentre nella conciliazione aggiudicativa il sapere del conciliatore sui termini della controversia deve formarsi nel pieno contraddittorio; ancora in quest’ultimo caso, inoltre, le parti saranno portate a conciliare non sulla base di una valutazione comparatistica dei rispettivi interessi ma, piuttosto, alla stregua di una prognosi anticipata sul possibile esito di un eventuale contenzioso, anche al fine di evitarne i pregiudizi in termini di ripartizione delle spese, con ogni conseguente vulnus ad un genuino processo di formazione della volontà (Luiso, “La conciliazione…” cit., 1218). Un’ultima notazione ancora avuto riguardo al procedimento; in linea di prima approssimazione è lecito asserire che, ferma restando la necessità di garantire l’equo ed ordinato svolgimento della conciliazione, un eccesso di disciplina non giova alla causa del metodo autonomo di risoluzione delle liti (Biavati, “Conciliazione strutturata…” cit., 796). Se la conciliazione mira a costituire reale alternativa al processo, infatti, di questo non è chiamata a riprodurre la “sacralità”, né tantomeno il rigore che deriva dal meccanismo delle preclusioni e decadenze; e ciò tanto più ove a tale strumento la parte faccia ricorso in difetto di assistenza tecnica, come la ratio più genuina dell’istituto sembrerebbe consentire. Anche di tale circostanza si dovrà tener conto nel discettare sull’uso che il legislatore del 2010 ha fatto dello strumento in parola.

2. Il d.lgs. 28/10, la L. 183/10 e l’art. 116 c.p.c. Chi avesse confidato nella relazione illustrativa allo “Schema di decreto legislativo recante:Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” per meglio comprendere il modello di conciliazione adottato e, per molti aspetti, imposto dal legislatore del 2010, ha dovuto fare i conti con una realtà per certi versi lontana da quella che era lecito attendersi. Il confronto tra i principi enunciati nella suddetta relazione, per un verso, e la concreta disciplina contenuta nel D.lgs 28/10, per altro verso, dà infatti la misura della confusione che regna sovrana sull’argomento, e della eccessiva disinvoltura con cui le riforme del 2010 hanno fatto un uso promiscuo di concetti che, per contro, andrebbero opportunamente tenuti distinti. E tale conclusione risulta ulteriormente corroborata ove, in quello sguardo d’insieme che questo breve scritto vorrebbe favorire, si ponga mente alle sfumature, ancora differenti, di cui il medesimo istituto si colora nel cosiddetto Collegato Lavoro. Ebbene, il commento all’art. 1 contenuto nella citata relazione, premessa la necessità di evitare formule e/o definizioni rigide che comprimano le funzioni e le potenzialità della mediazione, palesa espressamente la scelta del legislatore nei confronti di una procedura che sappia abbracciare, contemporaneamente, tanto forme aggiudicative, quanto facilitative, sia pure con una netta preferenza per queste ultime, “…in virtù della loro maggiore duttilità rispetto ai reali interessi delle parti e della conseguente loro maggiore accettabilità sociale” (Art. 1, a), Relazione Illustrativa allo “Schema di decreto legislativo recante:Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”). Ora, alla luce di quanto sopra accennato con riferimento alle differenze – strutturali, contenutistiche e teleologiche – del procedimento di conciliazione nei due diversi modelli in esame, potremmo velocemente concludere per la inopportunità di una simile opzione, inficiata da una contraddizione di fondo assai difficilmente sanabile. Ma, come chiarito in premessa, ad un giudizio complessivo sull’uso che il legislatore del 2010 ha fatto della conciliazione, questo scritto vorrebbe pervenire alla luce di un unico metro di valutazione, prescindendo per un attimo da valutazioni teoriche, o di carattere sistematico: il contegno delle parti nei due diversi modelli di conciliazione disciplinati dal d.lgs 28/10 e dalla L. 183/10, alla luce delle eventuali ripercussioni sul futuro processo. Procedendo per ordine cronologico, deve quindi aversi riguardo dapprima alle conseguenze derivanti dalla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 8 V comma, 11 e 13 del d.lgs 28/10, e, poi, e quella di cui agli artt. 411 e 420 c.p.c., così come modificati dalla L. 183/10. La prima e più rilevante differenza che balza all’attenzione tra le diverse norme appena richiamate (Limitando in questa sede la valutazione al solo contegno extraprocessuale delle parti, e quindi prescindendo momentaneamente dalla schizofrenica introduzione dell’obbligatorietà del tentativo in un caso, e nell’abolizione del preesistente obbligo nell’altro caso) è l’espresso rinvio, contenuto nel solo art.8, V comma, d. lgs. 28/10, all’art. 116 c.p.c., da cui un preliminare quesito: il mancato riferimento a tale ultima norma, negli artt. 411 e 420 c.p.c., implica l’impossibilità, per il Giudice del lavoro, di valutare a titolo di argomento di prova il contegno delle parti nel previo, oggi facoltativo, tentativo di conciliazione extragiudiziale (rispondo negativamente Basilico G., “Profili processuali del “collegato lavoro” (l. n. 183/10)”, in www.treccani.it; no per Tiscini R., “Nuovi ma non troppo...”cit.; Nascosi, “Un ritorno al passato…” cit., 222, 223; affermativamente Bove, “Conciliazione e Arbitrato nel collegato lavoro…” cit.,137.La diversa questione se lo stesso Giudice del lavoro possa valutare a titolo di argomento di prova il contegno delle parti durante il tentativo di conciliazione, questa volta obbligatorio, giudiziale, non desta invece particolari perplessità, stante appunto “l’ambiente processuale” proprio di tale fase del giudizio)? La vera questione, tuttavia, non è questa; il problema è esattamente quello opposto, che cioè il giudice possa, ex art. 8, V comma, d.lgs 28/10, desumere argomenti di prova ai fini del processo dal contegno delle parti in una fase che proprio col processo nulla dovrebbe avere a che spartire! È lo stesso tenore letterale della norma di rito impropriamente richiamata, d’altra parte, a limitare il proprio ambito operativo al contesto giudiziale, elevando a titolo di argomento di prova il solo contegno delle parti “nel processo” (Scarselli G., “La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno”, in Foro Italiano, 2010, V., p.147), appunto, e non in quella fase che, stando ai roboanti proclami che hanno accompagnato l’introduzione della mediazione obbligatoria finalizzata alla conciliazione, dovrebbe evitare, o quanto meno ridurre, l’accesso al contenzioso. Ora, al fine di meglio argomentare in ordine al rilievo che il legislatore del 2010 ha inteso conferire al contegno tenuto dalle parti in sede di conciliazione, non ci si può esimere da una, sia pure brevissima, digressione sull’efficacia comunemente riconosciuta al contegno “processuale” vero e proprio, e sulla misura in cui il giudice è legittimato a tenerne conto ai fini del giudizio. Porre mente ai limiti entro i quali l’organo decidente può utilizzare, nell’ambito del suo prudente apprezzamento, il comportamento tenuto dalle parti nel giudizio – e, precisamente, in quello stesso processo che si sta svolgendo sotto la sua direzione, valutando ai fini della decisione una condotta che i litiganti abbiano posto in essere alla sua stessa presenza – dà, infatti, la misura della opportunità della scelta, operata dalle riforme del 2010, di consentire a quello stesso giudice di tenere conto ai fini del giudizio di un comportamento tenuto dalle parti al di fuori del processo, e lungi da tutte le garanzie che soltanto quest’ultimo comporta. Ebbene, l’argomento di prova che il giudice può trarre, ex art. 116, secondo comma, c.p.c., dal contegno delle parti nel processo, andrebbe annoverato, secondo autorevole dottrina (Montesano L., “Le “prove atipiche” nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile”, in Rivista di diritto processuale, 1980, 233), nella più ampia categoria delle cosiddette “prove atipiche”; l’atipicità, in particolare, deriverebbe dal fatto che il legislatore abbia consentito al giudice di trarre elementi probatori, sia pure lato sensu, da strumenti (nella specie il comportamento processuale delle parti) che, di per sé, una simile funzione non dovrebbero esplicare (Montesano, “Le “prove atipiche” …” cit., 235). Il fondamentale principio della “paritaria difesa” (ripercorrendo in questa sede il ragionamento autorevolmente svolto da Montesano L., “Le “prove atipiche” …” cit., il cui saggio ha guidato questa parte della trattazione), tuttavia, impone che le parti sappiano sempre attraverso quali strumenti, precostituiti per legge, le singole fonti di prova possano essere utilizzate dal giudice, “onde evitare che questi tragga il convincimento sui fatti di causa da un suo processo mentale, alla cui formazione ed al cui controllo – a differenza di quel che accade per il mezzo di prova normativamente “tipizzato” – le parti sono sempre estranee, per insuperabile legge di natura” (Montesano L., “Le “prove atipiche” …” cit., 235). A tale scopo, addirittura, ove il comportamento processuale delle parti fosse usato come strumento per il giudizio in fatto solo al momento della decisione, senza previa apertura del contraddittorio sul punto, e gli stessi argomenti fossero decisivi per la pronuncia in fatto, la sentenza sarebbe nulla, e come tale appellabile o impugnabile per cassazione (Montesano, “Le “prove atipiche” …” cit., 238, 239-240). Fermo restando che, in ogni caso, l’argomento di prova, desumibile dal contegno delle parti nel processo, offre soltanto elementi di valutazione di altre prove tipiche, non potendo giammai costituire unico fondamento per il giudizio in fatto, né, di regola, ed a differenza dell’indizio, offrire la via per l’operare delle presunzioni (Mandrioli C., Diritto processuale civile, XXI edizione aggiornata a cura di Carratta A., vol. II, par. 35, 191 – 192; contra Ruffini G., “ “Argomenti di prova” e “fondamento della decisione” del giudice civile”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1352). Ancora più indicativo, poi, a fini più sopra posti, è il rapporto che l’art. 310 terzo comma, c.p.c., pone tra le prove raccolte in un processo estinto ed il loro utilizzo, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c., nel giudizio in corso (sul punto Montesano, “Le “prove atipiche” …” cit., 249). Muovendo dalla oggettiva “degradazione”, derivante dal suddetto combinato disposto, da prove tipiche ritualmente assunte nel giudizio estinto, a meri argomenti in quello ancora pendente (sia pure tra le stesse parti e per lo stesso oggetto), taluno ha derivato la esclusione, dalle legittime fonti di convincimento del giudice civile, d’ogni prova raccolta fuori dalle sede e con le modalità proprie di quel processo che il giudice è chiamato in concreto a definire con la sua pronuncia di merito (Taruffo M., “Prove atipiche e convincimento del giudice”, in Riv. dir. proc. civ., 1973, 389 e Cavallone B., “Critica della teoria delle prove atipiche” in Riv. dir. proc. civ., 1979, 252, richiamati da Montesano che, però, giunge a diverse conclusioni, “Le “prove atipiche” …” cit., 242). In altri termini, se il giudice, chiamato a definire la controversia portata alla sua cognizione, potrà fare delle prove tipiche ritualmente assunte in altro giudizio il solo uso di argomento di prova, e non già piena prova, lo stesso giudice in nessun conto potrà tenere quelli che già ab origine costituivano meri argomenti di prova, tra cui, per quanto qui di interesse, il contegno delle parti nel processo ormai estinto (sul punto concorda Montesano, che esclude l’utilizzo, quale argomento di prova, del contegno processuale tenuto dalle parti nel giudizio estinto, anche per il tramite del regime delle presunzioni di cui agli artt. 2727-2729 c.c., “Le “prove atipiche” …” cit., 248. Contra, ancora una volta, Ruffini, “ “Argomenti di prova”… cit., 1357). Questo lo stato dell’arte, mai seriamente revocato in dubbio dalla dottrina (salvo quanto supra evidenziato con riferimento a Ruffini, op. cit., ed autori ivi richiamati)o dalla giurisprudenza, sino ai nostri giorni. Già in tempi non sospetti, sia pure nel diverso ambito del tentativo di conciliazione in materia agraria, ex art. 46 della L. 203/1982, la Suprema Corte aveva avvertito che “Il contegno delle parti del quale, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., il giudice è abilitato a trarre elementi indiziari di giudizio, è solo quello tenuto nel corso del processo, rimanendo, pertanto, ininfluente, ai predetti effetti, il comportamento tenuto innanzi al competente ispettorato agrario in sede di tentativo di conciliazione ex art. 46 l. n. 203 del 1982, previsto come onere a carico di chi intenda proporre in giudizio una domanda relativa a controversia agraria” (Cass. 22.06.2001 n. 8596, in Foro Italiano 2001, I, 3120). Ma oggi il vento sembra essere cambiato. Ora, chiusa la breve parentesi sull’art. 116 cpv, e sulla valenza probatoria che dottrina e giurisprudenza prevalenti riconoscono al contegno “processuale” delle parti, è possibile riprendere l’analisi sull’uso che la riforma del 2010 ha fatto dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie, sul punto appena esaminato. Ebbene, al paragrafo precedente si è avuto modo di accennare a quali benefici l’istituto della conciliazione è in grado di apportare, se correttamente inteso ed applicato; sulla base dei caratteri ivi analizzati, in particolare, è inevitabile concludere che il successo di tale strumento passa attraverso delle costanti, dalla cui contestuale sussistenza dipende ineluttabilmente la sua idoneità al raggiungimento dello scopo: a) la spontaneità del ricorso al metodo alternativo di risoluzione delle controversie, frutto di libera e consapevole autodeterminazione; b) la possibilità delle parti di prospettare ogni profilo della controversia rilevante ai fini del suo componimento, senza temere ricadute pregiudizievoli in termini di strategia difensiva, onde consentire l’emersione di quegli interessi irrilevanti in sede giudiziale; c) l’assoluta riservatezza dell’intero procedimento, ivi incluso il contenuto delle eventuali proposte formulate dal conciliatore. Tralasciando in questa sede il profilo sub a) – nell’attesa del pronunciamento del Giudice delle Leggi sul d.lgs 28/10 sollecitato dall’ordinanza di rimessione del Tar Lazio (Tar Lazio, sez.I, ord. 12 aprile 2011, n. 3202, in Foro Italiano, n.5, maggio 2011, III, 274) – e rinviando al prosieguo qualche breve notazione su quello sub c), in quanto indissolubilmente connesso al tema qui affrontato, deve adesso spendersi qualche riflessione sull’idoneità della disciplina, derivante dal combinato disposto degli articoli più sopra richiamati, a realizzare il presupposto di cui al punto b) e, per l’effetto, l’obiettivo proprio della conciliazione rettamente intesa. Ebbene, la relazione illustrativa del d. lgs 28/10, pur adottando la soluzione cerchiobottista di favorire forme tanto aggiudicative quanto facilitative di risoluzione delle controversie, è poi chiara nel prendere posizione a favore di queste ultime che, stando ai proclami ivi contenuti, verrebbero ad essere incentivate proprio dalla disciplina in commento (sul punto, si veda il commento all’art. 5, comma 1, Relazione Illustrativa cit.). I conti non tornano; come può il legislatore con una mano introdurre il pesante sistema sanzionatorio di cui al combinato disposto degli artt. 8, 11 e 13 del d.lgs 28/10 (nella sostanza, salvo quanto verrà osservato infra, replicato con gli artt. 411 e 420 c.p.c. come modificati dal Collegato Lavoro), e con l’altra osannare la conciliazione facilitativa, ed inneggiare alla possibilità di soluzioni della controversia che guardino al complessivo rapporto tra le parti? È vero, la conciliazione facilitativa reca in sé il grande pregio di dar corpo e dignità ad interessi delle parti spesso sommersi, o comunque irrilevanti in sede di giudizio, preservando la continuità dei rapporti, al di là della isolata ricerca del torto e della ragione; ma la conciliazione facilitativa, appunto, con le conseguenze che ne derivano in termini di procedura e contenuti, non certo quella di cui al d.lgs. 28/10 o, tanto meno, alla L. 183/10, che con il modello in esame hanno veramente poco a che spartire. Come più sopra si è notato, infatti, taluni caratteri intrinseci della conciliazione facilitativa la contrappongono nettamente a quella di tipo aggiudicativo, permeando di sé l’intera fisionomia del procedimento e, soprattutto, determinando la diversa predisposizione d’animo e collaborazione delle parti: l’assenza, cioè, di qualsivoglia interferenza con l’eventuale processo (anche nella eventualità in cui si giunga alla formulazione di una vera e propria proposta), unitamente all’assoluta libertà delle parti di “confidare” ogni interesse di cui sono titolari al conciliatore, pur a prescindere dalla connessione, tecnicamente intesa, con il petitum e la causa petendi della futura ed eventuale domanda giudiziale, e dalla necessità di dimostrare ad ogni costo dove risiede il torto e dove la ragione. Ora, se il legislatore del 2010 avesse introdotto, a mezzo delle due riforme qui in commento, un modello di conciliazione rispondente ai tratti appena delineati, questo breve scritto avrebbe poco altro da aggiungere, e potrebbe probabilmente concludersi con un plauso alla consacrazione, in dato positivo, di un metodo realmente alternativo di risoluzione delle controversie. Ma così non è. La disciplina derivante dal combinato disposto delle norme sopra richiamate, tanto del d.lgs 28/10 quanto della L. 183/10, è ormai stancamente nota a tutti, e non sarebbe utile ripercorrerla qui per l’ennesima volta; ci limiteremo, quindi, in un’analisi comparata delle due riforme in commento, ad evidenziarne i tratti di maggiore criticità, ancora elevando a parametro unico di valutazione il contegno delle parti nella fase extragiudiziale, ed i conseguenti riflessi nella eventuale fase processuale.

3. Le riforme del 2010 a confronto alla luce del contegno delle parti. Come già sopra evidenziato, l’art. 411 c.p.c., nella formulazione conseguente alla riforma operata dalla legge 183/10, non richiama espressamente l’art. 116 c.p.c., in ciò divergendo dalla disciplina della mediazione ed, in particolare, dal disposto di cui al comma 5 dell’art. 8 D. lgs 28/10. Le differenze, in vero, non si limitano a tale profilo. È proprio l’impostazione di fondo, infatti, a porre una prima importante soluzione di continuità tra le distinte fattispecie, potendo soltanto il procedimento di cui al D. lgs 28/10 svolgersi nella “contumacia” di una delle parti. Nelle conciliazioni lavoristiche, infatti, la fissazione della comparizione delle parti per l’espletamento del tentativo in tanto avviene in quanto la parte invitata alla conciliazione abbia aderito all’invito, depositando la memoria di cui all’art. 410 c.p.c.. La procedura di cui all’art. 8 D. lgs 28/10, per converso, prende avvio e giunge ad epilogo a prescindere dalla partecipazione della controparte, cui la domanda di mediazione viene comunicata successivamente alla fissazione del primo incontro tra le parti. In tale differente presupposto di fondo, taluno (Bove, “Conciliazione e arbitrato…” cit., 137) scorge la ragione del mancato richiamo dell’art. 116 c.p.c. da parte del legislatore del Collegato Lavoro: se dalla astratta possibilità di una “mediazione contumaciale” deriva la sussumibilità della mancata partecipazione al procedimento, senza giustificato motivo, nell’art. 116, II co., c.p.c., una simile previsione non avrebbe senso nella conciliazione lavoristica che, in assenza dell’adesione della controparte, non prende proprio avvio. Il punto, tuttavia, continua a non essere questo: il problema è che, tanto il legislatore del collegato lavoro, quanto quello della mediazione obbligatoria, abbiano ritenuto, in una logica palesemente punitiva, di poter “tenere conto”, ai fini del giudizio, del contegno tenuto dalle parti in una fase extraprocessuale che, per essere funzionale agli obiettivi che sarebbero propri della conciliazione, dovrebbe rimanere avulsa dal processo o, quantomeno, priva di riflessi negativi su quest’ultimo. E ciò tanto più ove l’intento, evidentemente non riuscito, del legislatore fosse quello di promuovere la cultura della mediazione, rendendola agli occhi delle parti un’alternativa appetibile al deflazionando contenzioso civile. D’altra parte, non può non lasciare quanto meno perplessi lo stridente contrasto tra la forte, e talvolta eccesiva (si pensi alla possibilità per il contumace costituitosi tardivamente di disconoscere le scritture prodotte contro di lui, ex art. 293 c.p.c., facendo così regredire il processo a prescindere da problemi di notifica dell’atto introduttivo del giudizio), tutela riservata dal legislatore alla parte contumace nel processo civile e le conseguenze devastanti che dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione fa derivare il legislatore del d.lgs. 28/10 (Borghesi D., “Prime note...”cit.). Se è vero, infatti, che quest’ultima riforma ha, in qualche misura, inteso mitigare l’operatività dell’art. 116, II co, consentendo al giudice di desumere l’argomento di prova unicamente dalla mancata partecipazione al procedimento “senza giustificato motivo” (e non si vede come avrebbe potuto disporre diversamente!), è altrettanto vero che di una simile, doverosa, precisazione non vi è tuttavia traccia nella norma con cui il legislatore delegato ha spazzato via, in un sol colpo, il criterio della soccombenza per le spese del giudizio, in favore del criterio di causalità: l’art. 13 (significativo, sul punto, il commento all’art 13 contenuto nella Relazione illustrativa cit.). A mente di tale ultimo articolo, come noto, la parte che sia risultata integralmente vittoriosa in sede giudiziale, non avrà diritto a ripetere le spese processuali sostenute, e dovrà essere piuttosto condannata a rifondere quelle sostenute dal soccombente, ed a versare all’entrata del bilancio dello Stato un importo corrispondente al contributo unificato, se il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde integralmente al contenuto della proposta. Il messaggio è “violentemente” chiaro: concilia…o la pagherai! Ora, nel rimpiangere amaramente i principi di chiovendiana memoria (Chiovenda, ne La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935, 157, notoriamente afferma che il processo deve dare a chi ha un diritto praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto a conseguire, poiché “…tutto ciò che fu necessario al riconoscimento del diritto è concorso a diminuirlo e deve essere reintegrato al subbietto del diritto stesso, in modo che questo non soffra detrimento dal giudizio”), ciò che ci preme evidenziare con riferimento al rapporto tra l’art. 8, V comma, e l’art. 13, è che quella stessa parte che non ha partecipato al procedimento per un giustificato motivo, e che quindi sfugge alla “punizione” dell’art. 116 c.p.c., dovrà comunque rassegnarsi, pur in presenza di quello stesso giustificato motivo, ad andare incontro alle pesantissime conseguenze economiche di cui all’art. 13 per il caso in cui il mediatore, avvalendosi della facoltà concessagli dal decreto n.28, formuli comunque una proposta all’esito del procedimento di mediazione “contumaciale”, e questa coincida integralmente con il contenuto del provvedimento che definirà il giudizio. L’eventualità è piuttosto remota, si potrebbe replicare. Ma, in primo luogo, non è affatto detto che lo sia poi così tanto, per le ragioni di cui subito infra nel testo, e, in secondo luogo, già la mera eventualità costituisce una criticità del sistema. Il grave vulnus risiede, infatti, nella circostanza che il legislatore abbia ideato un meccanismo che, anche solo astrattamente e potenzialmente, è in grado di portare a conseguenze di siffatta specie, a prescindere dalla percentuale di casi in cui il “male minacciato” si concretizzerà praticamente.

3.1 Il contenuto della proposta. Nella paventata necessità di una rispondenza tra la proposta – sia del mediatore del decreto 28, che della commissione del collegato lavoro – ed il provvedimento che definisce il successivo ed eventuale giudizio, si riscontrerebbe poi un’altra falla delle riforme del 2010, specie ove si voglia dar credito alla tesi, espressamente propugnata nella relazione illustrativa del decreto 28/10, che l’obiettivo del legislatore fosse quello di incentivare la conciliazione facilitativa, proprio perché in grado di consentire l’emersione e la tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli deducibili in giudizio. Come più sopra notato, la possibilità che il componimento della controversia passi anche attraverso la concessione di beni e/o utilità aggiuntivi rispetto a quelli oggetto della domanda costituisce il vero cuore della conciliazione; le parti potrebbero determinarsi all’accordo, per esempio, perché l’una rinunci ad una parte della originaria pretesa in cambio di un diverso bene, che ha interesse pari o poziore a ricevere. Ebbene, tale prerogativa della conciliazione sarebbe impedita in nuce dalla disciplina apportata dalle riforme del 2010 se convenissimo con chi (Scarselli, “La nuova mediazione…”cit., 148, sub 5; Capobianco, “I criteri di formulazione…” cit., pag. 4 e 5) postula la necessaria correlabilità tra proposta e decisione del futuro giudizio, alla luce delle conseguenti ricadute sul regime delle spese sopra richiamate (conseguenze espressamente sancite nel d. 28/10, implicitamente dal collegato lavoro se intendiamo, con Bove, il riferimento di cui all’art. 411 al contegno delle parti limitato al solo regime delle spese processuali). Se la proposta è parametro per la regolamentazione delle spese del giudizio, infatti, il mediatore e la commissione di conciliazione sarebbero legittimati a formularla unicamente entro i termini del contendere, con la surrettizia introduzione di quella necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato propria del processo strettamente inteso, e fisiologicamente estranea alla logica della conciliazione pura, specie se facilitativa. Anche sotto tale profilo verrebbe dunque confermata la confusione del legislatore del 2010, che ha fatto un uso promiscuo di categorie concettuali, quali la conciliazione aggiudicativa e la conciliazione facilitativa, che andrebbero in realtà tenute ben distinte, proprio perché fondate su presupposti diversi, e teleologicamente orientate ad obiettivi differenti.

3.2 La riservatezza La “minaccia” derivante dal combinato delle norme che disciplinano – tanto nel decreto sulla mediazione, quanto nel collegato lavoro – la proposta ed il regime delle spese, ancora, crea un grave vulnus ad una altra della caratteristiche proprie ed indefettibili dello strumento conciliativo puro: la riservatezza. Come più sopra si è notato, infatti, in tanto un metodo eteronomo di risoluzione delle controversie può avere serie prospettive di successo, in quanto le parti possano fare legittimo affidamento sulla circostanza che quanto rivelato in sede conciliativa rimanga coperto dal più assoluto riserbo e, in ogni caso, non abbia ad influire, neanche indirettamente, sul futuro ed eventuale processo. E ciò tanto più ove, come nel caso della mediazione obbligatoria in materia civile e commerciale, sia prevista la possibilità di sessioni separate delle parti con il terzo autonomo ed imparziale, che potrà, dunque, formare il proprio convincimento al di fuori della logica del contraddittorio (cfr. Caponi R., “La ricerca di una giusta…” cit., p. 22). Di una simile esigenza, peraltro, il decreto 28 sembra aver tenuto conto, approntando una disciplina (si veda, con riferimento specifico al d .lgs 28/10, la disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 9, 10, ed il commento alle stesse norme contenute nella relazione illustrativa, sub art. 10) che, quantomeno nelle intenzioni del legislatore, perseguirebbe l’obiettivo di tutelare la riservatezza del procedimento, al fine di garantirne la possibilità di riuscita nell’esclusivo interesse delle parti. Ancora una volta, tuttavia, tra i proclami della riforma, ed i risultati pratici cui la stessa è strutturalmente idonea a condurre, si registra un abisso che con molta difficoltà anche la più cauta applicazione potrà colmare. Basti pensare che il legislatore – avuto ancora riguardo alla mediazione, e salvo quanto verrà notato subito appresso con riferimento allo stato dell’arte, ancora più allarmante, nel collegato lavoro – ha configurato il dovere di segretezza sulle dichiarazioni rese dalle parti, come oggetto della loro disponibilità negoziale. Le stesse parti, dunque, potranno liberamente derogarvi, anche con riferimento alle dichiarazioni rese nelle sessioni separate, ed il mediatore potrà darne atto nella proposta, quella stessa proposta, cioè, che produce i pesanti effetti sopra descritti. Se, quindi, è vero che ciascun contendente non può produrre in giudizio le dichiarazione rese nella fase di mediazione dalla controparte, è pur vero che può senza limiti produrre le proprie con ciò rendendo quasi obbligata per la controparte, anche al solo fine di replicare nel pieno contraddittorio, l’allegazione di quelle dichiarazioni che avrebbero dovuto rimanere coperte dalla invocata riservatezza; non è difficile immaginare un uso distorto della disciplina (Scarselli G., “La nuova mediazione…”cit., 150). Ma, come anticipato, il vulnus alla riservatezza ed alla impermeabilità delle due fasi diventa ancora più preoccupante nella disciplina di cui alla legge 183/10. Ciò che nel decreto 28 è un rischio da scongiurare, infatti, nel collegato lavoro è una certezza ineluttabile: l’influenza del contegno delle parti nella fase di conciliazione extragiudiziale rispetto al successivo contenzioso giudiziario è addirittura in re ipsa; e ciò per due distinti ordini di ragione. Innanzitutto, perché la “possibilità” (con riferimento al dubbio che il mediatore sia tenuto a fare la proposta, in ogni caso, anche nel decreto 28, si veda Zucconi Galli Fonseca E., “La nuova mediazione…” cit, p.669) contemplata dal decreto 28/10 che il mediatore formuli una proposta alle parti cede il posto nel collegato lavoro ad un “dovere” di analogo contenuto per la commissione (Art. 411 c.p.c. “Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio”). In secondo luogo perché, “Ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi dell’art. 415 devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito”(art. 411 c.p.c., terzo comma). E se una simile interferenza è assiomaticamente deleteria già in astratto, ancor più lo diventa nel caso concreto del collegato lavoro, la cui disciplina – consentendo che i contendenti, preso atto della infruttuosità dell’esperito tentativo di conciliazione, affidino alla commissione il mandato di risolvere in via arbitrale la lite (art. 412 c.p.c.) – arriva a colpire un nervo scoperto dei metodi di risoluzione alternativi delle controversie, consentendo quella commistione di ruoli che i cultori della materia hanno sempre scongiurato. Quello stesso organismo chiamato, fino ad un momento prima, a fare opera maieutica al fine di favorire l’incontro di volontà delle parti, e che in tale qualità ha assommato in sé informazioni e conoscenze cui, in un sistema di conciliazione pura, dovrebbe rimanere estraneo, si trova infatti a dover ius dicere, ponendo esso stesso la norma concreta, vincolante per le parti, che metterà fine eteronomamente alla controversia (sul punto, Nascosi, “Un ritorno al passato…”cit., 224). È la negazione di ogni più basilare insegnamento della conciliazione pura, ontologicamente fondata sulla riservatezza interna ai procedimenti di risoluzione alternativa delle controversie, proprio a sostegno della necessità di separare la funzione di mediatore da quella di arbitro (Cfr. Borghesi D., op. cit., al richiamo alla nota 8). Sotto tale peculiare profilo pare che il legislatore del collegato lavoro abbia reso all’istituto della conciliazione un servizio ancora peggiore di quello riservato dal decreto 28; in quest’ultimo, infatti, che pure è permeato da una logica impositiva e punitiva sostanzialmente maggiore, resta comunque ferma la distinzione ontologica tra mediatore ed arbitro, essendo espressamente previsto che il primo non possa assumere la veste del secondo, sia perché incorrerebbe in una causa di ricusazione, sia perché lo vieta espressamente l’art. 14, comma 1, d. lgs. 28/10.

3.3 La forma del procedimento. Ma v’è un ulteriore profilo in cui il legislatore della legge 183/10, re melius perpensa (!!!), ha fatto della conciliazione un uso ancora peggiore, se possibile, di quello prescelto appena sei mesi prima con il decreto n. 28. Il riferimento è, stavolta, ad un eccesso di forma, o formalismo, tale da far apparire la conciliazione lavoristica come un mini processo, ben lungi da quel prototipo di flessibilità e funzionalità allo scopo che è proprio di un autentico metodo alternativo di risoluzione delle controversie. Se, infatti, il legislatore del 2010, all’art. 3, comma 3, d.lgs. 28, è chiaro nel disporre che “Gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità”, precisando nel commento alla stessa norma contenuto nella relazione illustrativa che “…la semplificazione e deformalizzazione dell’attività di mediazione, che costituisce una della leve su cui fare maggior affidamento per la diffusione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie…”, quello stesso legislatore pare poi, a distanza di appena sei mesi, perdere di vista un simile obiettivo, fornendo all’art. 410 c.p.c. una disciplina della richiesta di conciliazione e della relativa memoria di risposta che in poco, o nulla, differisce dal ricorso e comparsa di cui agli art. 414 e 416 c.p.c. È sufficiente una superficiale lettura di queste ultime norme, infatti, per convenire con chi (M. Bove, “Conciliazione e arbitrato…”, cit., pag.133) ravvisa nei due atti di parte, rispettivamente, una domanda giudiziale ed una comparsa di costituzione minor, echi di quel processo che, da proclami, vorrebbe evitarsi, ma di cui evidentemente non si riesce a fare a meno. L’esigenza deflazionistica è comprensibile; lo snaturamento di un istituto in sé prezioso, attraverso la compressione di ogni caratteristica e garanzia che gli è propria, è operazione dubbia e controproducente, in grado unicamente di mietere sfiducia e discredito nei consociati intorno ad un rimedio che, ove sapientemente utilizzato, avrebbe potuto essere risolutivo.

4. Considerazioni conclusive. La conciliazione è un prezioso strumento di risoluzione delle controversie, alternativo e non suppletivo rispetto alla giurisdizione. Quella delle riforme del 2010 sarebbe stata una buona occasione per incentivarne l’uso agli occhi dei consociati, in un ottica premiale, e non certo punitiva. A pochi mesi dall’entrata in vigore della Legge 183/10, per un verso, e del D. lgs 28/10, per altro verso, nulla può essere affermato con certezza, andando al di là di mere congetture e prognosi che solo la concreta esperienza applicativa potrà confermare o smentire, ma che certo non si fondano sui migliori auspici. Un dato oggettivo, tuttavia, sembra possa già allo stato rilevarsi: quell’occasione è stata mancata. Ed a tale conclusione deve pervenirsi proprio alla luce del criterio qui elevato a metro di valutazione della riforma: il contegno delle parti nella fase della conciliazione, alla luce dei riflessi sul futuro ed eventuale processo. Il sillogismo cui abbiamo fatto riferimento a chiusura delle considerazioni introduttive, il cui termine medio è dato dalla verifica del rispetto (rectius del potenziamento) del diritto di difesa delle parti, giunge in queste note conclusive alla fase dei riscontri che, ancora una volta, non possono che avere esito negativo. Ed il bilancio si fa ancora più pesante ove si consideri che la stessa esigenza deflattiva del contenzioso risulta frustrata dalla disciplina promiscua che il legislatore del 2010 ha dato della conciliazione. Abbiamo già cercato di evidenziare quali sono le condizioni essenziali che devono ricorrere perché il metodo di risoluzione autonomo delle controversie possa dirsi efficace e, quindi, realmente alternativo alla giurisdizione: la spontaneità e libertà del ricorso allo strumento conciliativo; l’assenza di riflessi pregiudizievoli nel futuro ed eventuale processo; la riservatezza del procedimento; la flessibilità delle forme. È soltanto la presenza simultanea di tali indefettibili requisiti che condiziona la proficuità del ricorso alla conciliazione, e la riduzione dell’accesso al contenzioso quale effetto spontaneo di una deliberata scelta di qualità, e non via di fuga dalla inefficienza della giustizia. In assenza di tali presupposti, infatti, la fase stragiudiziale di componimento bonario scade al livello di passaggio burocratico autoritativamente imposto, con prospettive di riuscita pressoché inesistenti, e puntuale elusione della crescente domanda di giustizia di cui ogni consociato è portatore. L’esame comparato delle due riforme in commento lascia fondatamente presagire proprio un epilogo di questo tipo; lo stesso sguardo d’insieme, però, rivela al contempo un dettaglio inaspettato: il legislatore sembra aver colto, sia pure a compartimenti stagni, taluni caratteri congeniti della conciliazione rettamente intesa, dettando una disciplina volta a fornirne tutela per un verso, salvo poi smentirsi con previsioni di segno opposto, per altro verso. Così, ha colto (seppur tardivamente) l’importanza della spontaneità del ricorso allo strumento conciliativo, rendendo facoltativo nel campo lavoristico quello stesso tentativo che, pochi mesi prima, aveva imposto quale condizione di procedibilità per l’accesso alla più grande fetta del contenzioso civile; si è mostrato sensibile alla riservatezza del procedimento, elevandola a vero e proprio dovere nell’art. 9 del decreto 28, salvo poi svuotarla di contenuto nel collegato lavoro imponendo all’art. 411 c.p.c. l’allegazione dei verbali e delle memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito al ricorso introduttivo ex art. 415 c.p.c.; ha mostrato di comprendere la necessità di semplificazione e deformalizzazione, disciplinando una mediazione scevra di formalismo nel decreto 28, per poi strutturare qualche mese dopo il tentativo di conciliazione lavoristico come un vero e proprio processo minor. Verrebbe quasi da augurarsi che un terzo intervento possa “conciliare”, è proprio il caso di dire, gli intervalli di lucidità del legislatore, dando vita ad un dettato normativo realmente in grado di rispondere alla sempre crescente domanda di giustizia. Certo, un profilo di allarmante coerenza c’è: la previsione della possibilità di tener conto del contegno delle parti in fase conciliativa nel successivo processo, cui segue ineluttabilmente la mortificazione di ogni più alta potenzialità dell’istituto, e tanto basta a far scemare grandemente anche la più ottimistica delle previsioni.

* Avvocato

Pubblicato il 20/10/2011