Gli anni trascorsi dall’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso sono oramai senz’altro sufficienti per farne un ponderato bilancio.

1. Dall’affidamento esclusivo all’affidamento condiviso.

L’obiettivo della riforma del 2006 era chiaro: impedire che la disgregazione del nucleo familiare influisse negativamente sul rapporto genitori-figli, privando questi ultimi del contributo educativo ed affettivo di entrambi i genitori.

La riforma del diritto di famiglia del 1975, infatti, aveva influito ben poco sulla disciplina dell’affidamento; disciplina che nella sostanza era quella delineata dal legislatore degli anni ’40, incentrata sull’affidamento esclusivo quale regime del tutto coerente ad una concezione patriarcale ed autoritaria della famiglia, nonché, soprattutto, ad una ben precisa ripartizione di ruoli tra marito e moglie. Anche la novellazione della legge sul divorzio del 1989 aveva conseguito risultati assai modesti nella prassi, nonostante avesse introdotto la possibilità di disporre l’affidamento congiunto o alternato dei figli minori.

Per esser chiari, nel non lontano 2005, nell’80 per cento delle separazioni i figli venivano affidati in via esclusiva alla madre, spettando al padre un ruolo del tutto secondario.

Rispetto a questo stato di cose la legge sull’affidamento condiviso si presentava come effettivamente rivoluzionaria nel porre a cardine della disciplina il diritto del figlio minore alla bigenitorialità, definito come il diritto «di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi» (art. 155 c.c., ora a seguito della riforma della filiazione, 337 ter c.c.).

2. L’inattuazione della legge sull’affidamento condiviso.

Gli auspici della riforma non hanno – tuttavia – trovato immediato ed appagante riscontro nella prassi giudiziaria.

Le ragioni sono varie: tecnico-giuridiche, ma soprattutto culturali.

Sul primo piano, va innanzitutto preso atto di una disciplina legale che attribuisce al giudice ampi margini di discrezionalità nella determinazione delle condizioni di affidamento. Ciò ha consentito di dare continuità alle precedenti prassi giudiziarie mediante l’introduzione della figura – non prevista espressamente dalla legge – del «genitore collocatario», ovvero il genitore con il quale il figlio trascorre la maggior parte del tempo e presso il quale viene fissata la residenza del minore.

In giurisprudenza si afferma, infatti, il principio stando al quale il diritto alla bigenitorialità non postula una parificazione dei tempi di frequentazione del figlio minore da parte dei genitori, poiché la valutazione del contributo genitoriale all’assolvimento dei doveri parentali va compiuto in termini qualitativi e non quantitativi (cfr. ad es. Cass., 23 settembre 2015, n. 18817).

Questa cornice interpretativa ha, dunque, consentito la determinazione giudiziale di modalità di affidamento poco coerenti con la nuova disciplina e spesso mortificanti l’essenza del diritto alla bigenitorialità: nella stragrande maggioranza dei casi il genitore collocatario è la madre («modalità di affidamento maggiormente tutelante per il minore»: cfr. Trib. Bologna, 18 febbraio 2014); al genitore collocatario spetta l’assegnazione della casa familiare; l’altro genitore è tenuto a corrispondere al genitore collocatario un contributo al mantenimento del figlio minore ed i tempi di frequentazione del figlio sono spesso molto ridotti ed in alcuni casi non prevedono il pernottamento. Nel gergo forense si parla ancora di «diritto di visita» del genitore non collocatario e di «obbligo di consegna» del minore. Opzioni lessicali che a ben vedere mal celano una concezione del minore come oggetto di tutela e non come soggetto di diritti.

Nella sostanza, come confermato dall’Istat nel Report del 14 novembre 2016, Matrimoni, separazioni e divorzi, «al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso, che il giudice è tenuto a effettuare in via prioritaria rispetto all’affidamento esclusivo, per tutti gli altri aspetti considerati in cui si lascia discrezionalità ai giudici la legge non ha trovato effettiva applicazione».

Si celebra, così, il paradosso.

La discrezionalità riconosciuta dalla legge al giudice della famiglia, di per sé funzionale all’adozione di decisioni quanto più possibile aderenti al caso concreto nell’interesse esclusivo del minore, si è tradotta nell’applicazione aprioristica e standardizzata delle suddette regole, tanto da giungere in alcuni tribunali della Repubblica a provvedimenti giurisdizionali vergati a ciclostile, ovvero con il mero inserimento dei dati personali e degli ulteriori dettagli del caso. Prassi, quella relativa all’adozione di «misure automatiche e stereotipate», censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza n. 25704 del 29 gennaio 2013.

Questo stato di cose ha avuto i suoi effetti anche all’interno dei procedimenti a base negoziale (separazione consensuale, divorzio a domanda congiunta, negoziazione assistita), ovvero in quei casi in cui i genitori avrebbero la possibilità di convenire delle condizioni di affidamento maggiormente rispondenti agli interessi dei figli minori e dei genitori stessi. Anche queste condizioni, che non sono calate dall’alto ovvero stabilite dal magistrato, si sono spesso uniformate ai cliché giurisprudenziali. Ciò ha favorito e legittimato l’erronea e pericolosa convinzione che le controversie familiari siano controversie «semplici» e che gli avvocati chiamati ad assistere le parti lungo questo delicato percorso non debbano possedere particolari competenze.

3. La rivalutazione del genitore non collocatario ed il ruolo del figlio minore.

Se, come visto, la prassi applicativa della legge sull’affidamento condiviso ha spesso tradito la ratio legis della riforma, va d’altro canto preso atto della progressiva affermazione di un nuovo approccio culturale alle controversie attinenti alla crisi familiare ed in particolare a quelle che coinvolgono anche i figli minori.

Il quadro è ancora estremamente disarticolato e come tale difficilmente riconducibile ad unità, tuttavia ciò non esclude la possibilità di indicare alcune linee di tendenza particolarmente rilevanti.

In primo luogo, vanno ricordate le pronunce giurisprudenziali dirette a dare pari dignità ai tempi di frequentazione del genitore non collocatario mediante il riconoscimento a suo favore di un assegno perequativo nel caso di capacità economiche asimmetriche o in ragione dell’aggravamento della posizione del genitore non collocatario determinatosi dall’esigenza di trovare una diversa abitazione in cui risiedere e frequentare i figli.

Si afferma, infatti, che sarebbe «lesivo del diritto alla bigenitorialità, regolare i rapporti economici di modo che un bambino da un genitore possa godere di ogni utilità e benessere (alimentazione, abbigliamento, riscaldamento, internet, tv privata, giochi, etc.) e dall’altro non possa nemmeno avere utilità minime (la garanzia della casa): si tratta di una lesione della bigenitorialità perché, in questo modo, il bambino, tendenzialmente, sarebbe meno incoraggiato a frequentare il genitore debole e certamente identificherebbe il suo maggiore benessere allorché si trova con il genitore economicamente più forte» (così, Trib. Milano, 3 novembre 2014, ma in precedenza App. Milano, 11 agosto 2014).

Ancora in questa direzione, va affermandosi l’idea che i genitori, a prescindere dal genere, abbiano pari capacità di accudimento dei figli minori, anche quando questi sono ancora in tenera età, riconoscendosi – anche in tali casi, appunto – il pernottamento con il genitore non collocatario (Trib. Roma, 11 marzo 2016, con riguardo ad un minore di sedici mesi).

Sotto diverso profilo, sembra in via di superamento la tendenza a stabilire il contributo al mantenimento del figlio minore a carico del genitore non collocatario mediante determinazioni a forfait, spesso basate su mere percentuali del reddito, cioè senza un previo accertamento in concreto dei reali bisogni del figlio.

In conformità a quanto disposto dall’art. 337 ter, comma 4, c.c., secondo cui ogni genitore provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, dovendosi tener conto, tra l’altro, delle «attuali esigenze del figlio», le Linee guida sul contributo al mantenimento dei figli, adottate dal Gruppo Famiglia e minori nell’ambito dell’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia civile il 20 maggio 2017, «invitano gli avvocati a specificare, in maniera dettagliata, nei rispettivi atti introduttivi le voci di spesa inerenti ai figli …, indicando le esigenze correnti di natura primaria (tra cui, ad es., quelle alimentari, abitative, di cura della persona e di abbigliamento), nonché quelle di natura sanitaria, scolastica, parascolastica, sportiva e sociale, così da consentire al giudice, funzionalmente competente, di provvedere … alla imputazione dei costi diretti a carico di ciascun genitore e alla quantificazione dell’assegno di mantenimento».

In una cornice più generale, merita menzione anche il diverso ruolo riconosciuto al minore nelle controversie familiari. Si è, infatti, passati da una concezione in cui il minore è oggetto di tutela (cfr., esemplarmente, C. cost., 14 luglio 1986, n. 185) ad una opposta concezione in cui il figlio minore è titolare di diritti soggettivi nei confronti dei genitori e soprattutto titolare del diritto ad essere ascoltato in tutti i procedimenti giurisdizionali che lo riguardano (cfr. gli artt. 315 bis, co. 3, 336 bis, 337 octies, c.c., recentemente introdotti dalla riforma della filiazione). In parole povere, anche il figlio ha il diritto di esprimere – sebbene in termini non necessariamente vincolanti (Cass., S.U., 21 ottobre 2009, n. 22238 e successiva giurisprudenza conforme) – la propria opinione su una vicenda che influirà per anni sulla propria esistenza. Ed in questa prospettiva di rivalutazione della posizione del figlio nelle cause sulla crisi familiare, assume un particolare rilievo anche il ruolo dell’avvocato dei genitori, che la giurisprudenza più avvertita ritiene investito di un compito «protettivo» degli interessi del minore; compito volto ad arginare la conflittualità genitoriale e ad evitare che questi sia esposto alle conseguenze dannose dalla crisi (Trib. Milano, 13 aprile 2016).

4. Le nuove aperture a favore dell’affidamento materialmente condiviso.

In una prospettiva di superamento più radicale delle prassi giudiziarie in precedenza ricordate (cfr. retro, § 2), va segnalata la Risoluzione n. 2079 del Consiglio d’Europa del 2 ottobre 2015, in cui si è preso atto che «i padri devono spesso confrontarsi con leggi, pratiche e pregiudizi che possono arrivare a privarli della relazione con i loro figli», nonostante «lo stare insieme» costituisca «un elemento essenziale della vita familiare per un genitore e il proprio figlio».

La sollecitazione agli Stati membri proveniente dal Consiglio d’Europa è, dunque, stata quella di introdurre nelle legislazioni nazionali il principio della «shared residence», definita nella Relazione preliminare alla Risoluzione (doc. 13870, § 12) «an arrangement whereby the child lives alternately with each parent for more or less equal amounts of time, which may be fixed in days or weeks, or even months».

Si apre, quindi, una nuova prospettiva di riforma legislativa a favore dell’affidamento il più possibile paritario; prospettiva che peraltro potrebbe trovare attuazione nella Legislatura appena avviatasi (cfr. § 12 del cd. Contratto per il Governo del cambiamento), tenuto conto che, anche in quella precedente, erano già numerose le proposte di legge – peraltro provenienti dalle rappresentanze politiche più varie – dirette ad una rivisitazione della disciplina dell’affidamento condiviso.

Nella medesima direzione, fermo l’attuale quadro normativo, si è peraltro rivolta anche una parte minoritaria della giurisprudenza in alcuni provvedimenti giudiziari (cfr. a titolo puramente esemplificativo Trib. Catania, 2 dicembre 2016; Trib. Salerno, 29 giugno 2017; Trib. Civitavecchia, 9 aprile 2018, in un caso caratterizzato dalla notevole distanza tra i luoghi di residenza dei genitori) o nell’elaborazione di linee guida e protocolli.

Va a tal proposito ricordato il Protocollo per il processo di famiglia del Tribunale di Perugia del 25 novembre 2014 e soprattutto le più recenti ed articolate Linee guida per la Sezione famiglia del Tribunale di Brindisi del 30 marzo 2017, che appunto individuano nell’affidamento paritario – anche sulla base di recenti ricerche sviluppate in ambito internazionale – la modalità di affidamento maggiormente conforme all’interesse del figlio minore; modalità che – si badi bene – non implica tempi di frequentazione necessariamente identici, bensì postula la garanzia di un’equilibrata presenza dei genitori nella vita del figlio (comunque con tempi di frequentazione di un genitore non inferiori ad 1/3 del totale).

Viene, così, accantonata la figura del genitore collocatario, con pieno riconoscimento dei costi affrontati per la locazione o l’acquisto di una diversa abitazione per il genitore che si trova ad abbandonare la precedente. Inoltre, il mantenimento cd. diretto si sostituisce al mantenimento indiretto, ovvero ciascun genitore, fermo il ricordato principio di proporzionalità, provvede direttamente al pagamento delle spese necessarie ai bisogni del figlio, eventualmente per capitoli di spesa. Soluzione quest’ultima, che responsabilizza maggiormente i genitori e favorisce una più corretta osservanza degli obblighi di mantenimento.

5. Rilievi conclusivi.

La promozione e la cura della famiglia, sia essa fondata o meno sul matrimonio, costituisce uno dei compiti primari dello Stato. Al contempo, la disgregazione del nucleo familiare rappresenta oramai, per le dimensioni proprie del fenomeno e per gli effetti sul benessere dei minori, un problema di salute pubblica.

Di conseguenza, l’approvazione di una disciplina dell’affidamento che possa rendere la crisi familiare la meno traumatica possibile per tutti i soggetti coinvolti ed al contempo preservare il rapporto genitoriale nell’interesse dei figli minori è un obiettivo di politica del diritto costituzionalmente imposto.

Recenti studi, come visto, promuovono in questa prospettiva l’affidamento materialmente condiviso (per approfondimenti, v. Vezzetti, in Camerini, Le nuove frontiere dell’affidamento condiviso, Santarcagelo di Romagna, 2018, 11 ss.), ritenuto il regime di affidamento maggiormente idoneo a garantire il benessere psicofisico dei figli minori.

Di certo, è sempre più diffusa la consapevolezza che il contributo educativo e formativo di un genitore non può prescindere dalla quotidianità, ovvero da quella dimensione intima e ordinaria, che si traduce nel confronto sulle piccole cose e nella condivisione delle difficoltà di tutti i giorni. Il che consente di mettere a disposizione del figlio quella «riserva tecnica» che è frutto dell’esperienza. Di quell’esperienza che, prima del figlio, ha reso il genitore adulto. Sicché, garantire un’adeguata frequentazione di entrambe le figure genitoriali risponde non tanto all’interesse dei genitori, quanto piuttosto all’interesse dei figli stessi, ovvero ad un loro diritto fondamentale della persona di primaria rilevanza costituzionale ben emergente dal coordinato disposto degli artt. 2, 3 co. 1 e 2, 30, co. 1, Cost., 147, 315 bis, co. 1, 316, co. 1, 337 ter, co. 1 e 2, c.c.

Pubblicato il 19-07-2018