Negli ultimi 30 anni, le riforme del processo civile sono state molte. In ogni occasione, l’aspirazione del legislatore è stata quella di risolvere i problemi cronici del sistema giudiziario, in primo luogo i ritardi e le inefficienze, modificando o integrando le disposizioni relative al processo.

Tra i principali interventi, va senz’altro annoverata la l. 26.11.1990, n. 353, non a caso intitolata Provvedimenti urgenti per il processo civile, che, tra altro, ha (re-)introdotto un sistema processuale cadenzato (preclusioni) e ha uniformato il rito cautelare. A questa legge ha fatto seguito il d.l. 18.10.1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353, relativa al medesimo processo), convertito con modificazioni dalla l. 20.12.1995, n. 534.

In seguito, il d.lgs. 19.2.1998, n. 51 ha soppresso l’ufficio del pretore, istituendo il giudice unico di primo grado.

A partire dal 2005, le riforme hanno iniziato ad intensificarsi, soprattutto per frequenza. Senza pretesa di completezza, meritano menzione:

- il d.l. 14.3.2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito con modificazioni dalla l. 14.5.2005, n. 80, che, tra le molte innovazioni apportate, ha razionalizzato la fase di trattazione della causa, eliminando udienze inutili; ha “scommesso” sulle potenzialità deflattive dei provvedimenti cautelari, attribuendo ad alcuni di essi una perdurante efficacia anche nell’ipotesi di mancata instaurazione del giudizio di merito; ha introdotto la consulenza tecnica preventiva con funzione di conciliazione della lite (art. 696 bis c.p.c.); ha radicalmente modificato il processo esecutivo;

- il d.lgs. 2.2.2006, n. 40, che ha modificato il giudizio di cassazione, col dichiarato intento di rendere più efficiente la funzione nomofilattica (la Cassazione «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge»: art. 65 dell’Ordinamento giudiziario), e ha integralmente sostituito le disposizioni in materia di arbitrato (artt. 806-832 c.p.c.);

- la l. 18.6.2009, n. 69 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile), che, tra altro: ha generalizzato l’istituto della rimessione in termini per la parte incolpevolmente incorsa in decadenze; ha introdotto il cd. “filtro in cassazione” con lo scopo di alleggerire il carico del contenzioso davanti alla Suprema Corte; ha introdotto l’art. 614 bis per perseguire la spontanea esecuzione degli obblighi di fare e di non fare infungibili (ossia quegli obblighi che possono essere adempiuti solo dall’obbligato, senza che ad esso possa sostituirsi l’ufficiale giudiziario); ha introdotto il processo sommario di cognizione ex art. 702 bis ss. c.p.c., rito più snello di quello tradizionale e volto alla rapida definizione delle controversie che non necessitano di una complessa attività istruttoria (per antonomasia, quelle documentali);

- il d.lgs. 4.3.2010, n. 28, che, con lo scopo di favorire soluzioni bonarie delle controversie, ha introdotto la disciplina del procedimento di mediazione, specificando le ipotesi in cui lo stesso deve essere necessariamente esperito prima di agire in giudizio;

- il d.lgs. 1°.9.2011, n. 150, che ha ridotto e semplificato i riti civili, riconducendoli a tre modelli comuni (rito ordinario, rito del lavoro, rito sommario di cognizione);

- il d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24.3.2012, n. 27, che ha istituito il cd. tribunale delle imprese;

- il d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7.8.2012, n.134, che ha introdotto il cd. “filtro in appello” e ha riscritto la legge sull’equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo (l. 24.3.2001, n. 89, cd. legge Pinto);

- la l. 28.6.2012, n. 92, che ha istituito il cd. rito Fornero in materia di impugnative del licenziamento, la cui applicazione è divenuta progressivamente sempre più circoscritta ad opera del d.lgs. 4.3.2015, n. 23;

- il d.lgs. 7.9.2012, n. 155, che ha ridisegnato la geografia giudiziaria;

- il d.l. 21.6.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 9.8.2013, n. 98, che ha limitato l’intervento del p.m. in Cassazione, ha regolato la divisione a domanda congiunta, ha attribuito al giudice il potere di formulare alle parti una proposta transattiva;

- il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla l. 10.11.2014, n. 162, che, oltre a consistenti modifiche del codice di rito, ha introdotto la procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, specificando, ancora una volta, le ipotesi in cui le parti devono necessariamente far uso dell’istituto prima di accedere alla tutela giurisdizionale; anche in questo caso, il legislatore ha inteso favorire la composizione stragiudiziale delle liti, evitando il processo;

- il d.l. 27.6.2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6.8.2015, n. 132, che ha apportato importanti novità al processo di esecuzione forzata;

- il d.l. 3.5.2016, n. 59, convertito con modificazioni dalla l. 30.6.2016, n. 119, che ha posto un termine di decadenza per la proposizione dell’opposizione all’esecuzione;

- il d.l. 31.8.2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25.10.2016, n. 197, che ha nuovamente modificato il giudizio di cassazione;

- la l. 17.2.2017, n. 13, che ha istituito le sezioni specializzate in materia di immigrazione;

- il d.lgs. 13.7.2017, n. 116, di riforma della magistratura onoraria.

Tale rassegna, già di per sé lacunosa, non tiene peraltro conto, se non in minima parte, delle disposizioni relative al processo civile telematico, sparse su una pluralità di fonti, dal codice di rito fino a semplici provvedimenti dirigenziali. Neppure tiene conto di molte altre leggi che, nel regolare specifici istituti di diritto sostanziale, hanno introdotto importanti novità anche nell’ambito processuale: ad es., la l. 20.5.2016, n. 76, sulle unioni civili e le convivenze; la l. 8.3.2017, n. 24, sulla responsabilità professionale in materia sanitaria.

Un’analisi lucida di questo periodo di riforme non è semplice.

Di certo l’impegno profuso dal legislatore si è rivelato sproporzionato rispetto ai risultati conseguiti. Sono stati fatti pochi e incerti passi in avanti nella strada della civiltà giuridica. E quelli effettivamente compiuti devono purtroppo considerarsi come conquiste tardive, non come innovazioni illuminate e lungimiranti (ad es., la misura coercitiva ex art. 614 bis c.p.c., introdotta dalla l. n. 69/2009, di cui supra, § precedente).

Anche sotto il profilo della ragionevole durata dei processi, i risultati non sono stati migliori.

In certi casi, si è tentato di intervenire su aspetti tecnici della procedura (ad es., in materia di esecuzione) oppure correggendo alcune imperfezioni del testo legislativo (non senza il rischio di introdurne di nuove).

Talvolta, in maniera più audace, si è tentato di escludere la predeterminazione dei poteri processuali spettanti alle parti, ampliando direttamente o indirettamente i poteri del giudice e la relativa discrezionalità. L’ultimo e il più incisivo tentativo in tal senso risale al 2017, quando si è proposto di sostituire l’attuale rito ordinario con il rito sommario di cognizione (art. 702 bis ss. c.p.c.): in tale procedimento, infatti, le regole del gioco non sono prestabilite, se non in minima parte. L’iniziativa non ebbe seguito, ma sembra che l’idea di accelerare il processo svincolandolo dalle regole processuali eserciti ancora un certo fascino (v. infra).

Il tutto in un contesto di notevole aumento dei costi del processo, specie sotto il profilo del contributo unificato.

È quantomeno giustificato il sospetto che un simile modus operandi non sia idoneo ad assicurare un miglioramento qualitativo del sistema giudiziario. E ciò per un doppio errore di prospettiva: da un lato, si presume che le regole processuali esistenti costituiscano il vero ostacolo alla buona amministrazione della giustizia; dall’altro, si muove dalla convinzione che esista uno strumento risolutivo delle inefficienze della giustizia che sia, contemporaneamente, a costo zero ed efficace nel breve periodo.

La nuova legislatura e le nuove riforme processuali.

Le nuove forze al governo hanno sovente invocato una radicale discontinuità rispetto al passato.

In materia di processo civile, il Contratto per il governo del cambiamento, al § 12, prevede una «rivisitazione della geografia giudiziaria, con l’obiettivo di riportare tribunali, procure ed uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese», «l’implementazione e la semplificazione del processo civile telematico», «il completamento delle piante organiche di magistratura e del personale amministrativo», «la completa modifica della recente ‘riforma Orlando’» relativa alla magistratura onoraria.

Nel sottoparagrafo dedicato (anche) alla procedura civile, si propone di ridurre i processi a due soli riti (ordinario e del lavoro), l’obbligo di calendarizzazione del processo, l’implementazione della class action, la rideterminazione del contributo unificato per facilitare l’accesso alla giustizia, l’alternatività tra mediazione e negoziazione assistita.

Nella Nota integrativa del DEF 2018 (deliberata il 27 settembre 2018), il progetto appare già più ambizioso, in quanto si preannuncia un intervento sul rito del processo civile «tratteggiando un unico rito semplificato conformato ai principi del case management e di proporzionalità, con i quali risulta incompatibile un sistema processuale contrassegnato dalla predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice».

Quattro sono i punti in cui dovrebbe dipanarsi l’intervento:

«i) l’eliminazione dell’atto di citazione e la sua sostituzione con il ricorso;

«ii) una riduzione dei termini di comparizione;

«iii) l’introduzione di un regime di preclusioni istruttorie già negli atti introduttivi;

«iv) una rimodulazione della fase decisoria».

Negli ultimi mesi del 2018, il Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, ha in più occasioni preannunciato la imminente pubblicazione della prima bozza del testo della riforma (v. intervista a La Repubblica, 26 novembre 2018, pubblicata anche sul sito del Ministero, in cui veniva assicurata la pubblicazione della bozza entro il 1° dicembre).

Il Ministro ne ha anche anticipato alcuni elementi, tra cui la scomparsa dell’atto di citazione in favore del ricorso. Nel giustificare questa novità ha evidenziato l’irrazionalità e l’ingiustizia del sistema là dove l’errore sull’atto introduttivo (es. ricorso in luogo della citazione) può finanche pregiudicare il diritto soggettivo che dovrebbe essere oggetto del processo. Inoltre, il Ministro ha deprecato le udienze inutili ovvero quelle in cui vengono rinviati ad altra udienza atti che potrebbero compiersi immediatamente (ad es., al termine dell’udienza in cui si conclude la fase istruttoria, solitamente viene fissata un’udienza successiva per la sola precisazione delle conclusioni).

La bozza ufficiale non ha ancora visto la luce.

Qualche considerazione.

Nell’attesa di conoscere il testo della riforma, le parole spese dal nuovo Governo, nei documenti ufficiali o tramite il Ministro, sollecitano già ora qualche prima riflessione.

Innanzitutto, si rinnova l’idea, implicita, che il processo ordinario non sia un processo efficiente, ragion per cui appare opportuno creare un unico rito deformalizzato e semplificato, adattabile ad ogni tipo di controversia.

L’impostazione sembra allineata a quella della precedente legislatura sul finire del 2017 (v. supra).

Le premesse non sono condivisibili. La predeterminazione delle forme del processo costituisce una importante garanzia, perché in ogni competizione, anche giudiziaria, è essenziale conoscere in anticipo le regole del gioco.

Vi sono di certo casi in cui, per la semplicità della materia o per l’urgenza di provvedere o per altre specifiche ragioni, è opportuno procedere rapidamente, magari rinunciando ad alcune formalità. È evidente, tuttavia, che la deroga alla garanzia della predeterminazione delle forme processuali si bilancia assecondando altre esigenze parimenti avvertite. Se si generalizzasse il rito non predeterminato, invece, alle parti resterebbe un deficit di tutela privo di contropartite. Peraltro, occorrerebbe anche domandarsi se l’attuale contesto culturale abbia raggiunto un livello di fair play tale da dar luogo in concreto a un processo plasmato dalla leale collaborazione tra le parti e tra le parti e il giudice (cfr. il modello inglese delle cd. Woolf Reforms).

Quanto invece alle cd. “udienze inutili”, queste sono quasi sempre il frutto della prassi giudiziaria e non una necessità imposta dalla legge.

Non è in dubbio che simili procrastinazioni siano percepite come inefficienze del sistema e siano causa di disaffezione del cittadino verso l’amministrazione della giustizia. Tuttavia, è errato attribuirne le colpe alle norme che regolano il processo.

Riprendendo l’esempio, già fatto, dell’udienza di precisazione delle conclusioni, questa è fissata dal giudice allo scopo di gestire il flusso delle cause che transitano dalla fase istruttoria alla fase decisoria, ossia alla fase in cui il giudice è gravato della stesura della sentenza. Si tratta dunque di un problema organizzativo, legato anche al carico di lavoro del singolo magistrato. La legge processuale non la prevede come udienza autonoma: infatti, l’art. 189, co. 1, c.p.c. in maniera assolutamente neutra, stabilisce che «il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio […], invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni…».

La riflessione può declinarsi in termini molto più generali e consente di affermare che il rito ordinario, se calato in un apparato organizzativo efficiente, può concludersi in un arco di tempo compreso tra 6 mesi e un anno.

Altro aspetto interessante della riforma in itinere è, poi, l’incertezza progettuale con cui si è finora espressa. Le parole e i termini concretamente usati sembrano tradire una certa confusione, sintomo forse di un percorso ondivago.

Nel Contratto di governo si prospetta un processo civile con due soli riti, quello ordinario e quello del lavoro. Entrambi, tuttavia, sono caratterizzati da quella predeterminazione legale delle forme di cui la Nota integrativa, al contrario, preannuncia l’abbandono a vantaggio di un rito deformalizzato e conformato al case management.

Viene dunque da chiedersi: si va verso due riti a forme predeterminate o verso un unico modello processuale privo di forme predefinite? E poi: nel secondo caso, come si conciliano, concettualmente, “il regime di preclusioni istruttorie negli atti introduttivi” con il case management, le preclusioni rigide con la deformalizzazione? Infatti, le preclusioni legalmente imposte servono a dare concentrazione a un processo a cognizione piena, con il rischio, tuttavia, che eventuali decadenze a carico delle parti si riflettano sulla giustizia della decisione; la deformalizzazione, invece, rappresenta un coefficiente di sommarizzazione del processo a scapito dei poteri delle parti, non più predeterminati. In definitiva, pur di far presto, si rischia di mettere insieme proprio gli aspetti più critici di entrambi i modelli (a cognizione piena e sommario). Il case management, dal suo canto, non esclude la fissazione di termini perentori e le preclusioni, ma questi dovrebbero discendere da provvedimenti del giudice adottati all’esito di un costruttivo confronto con le parti, non dalla legge.

Ad ogni modo, dal chiarimento dei precedenti dubbi dipende anche la reale portata della annunciata semplificazione dell’atto introduttivo, che dovrebbe sempre essere il ricorso.

Se, come emerge dal Contratto, i riti continueranno ad essere quello ordinario e quello del lavoro, ciò comporterà un rito ordinario da introdursi con ricorso e non più con citazione. In concreto ciò servirà a risolvere alcuni problemi interpretativi, specialmente là dove appare dubbio se un giudizio, specie di impugnazione, debba introdursi nell’una o nell’altra forma (di recente, v. Cass., S.U., 8.11.2018, n. 28575). Tuttavia, l’innovazione avrà un impatto tutto sommato modesto.

Se invece la direzione è quella di un unico modello processuale deformalizzato, allora la questione dell’atto introduttivo sarà risolta a monte dalla mancanza di alternative processuali al modello prescelto.

In definitiva, anche se della riforma del processo civile si è già parlato molto, il quadro entro cui questa si muoverà non è ancora definibile né pronosticabile, a causa delle incertezze e delle contraddizioni evidenziate.

Salvo che i ritardi nella pubblicazione della bozza non siano sintomo dell’abbandono del progetto, non resta che attendere il testo scritto della riforma. Con l’auspicio, fatto proprio anche dal Ministro, che su di esso possa aprirsi un ampio e costruttivo dibattito.

Pubblicato il 23/01/2019