Il diritto ad un reddito di base...

Giuseppe Bronzini


Giuseppe Bronzini,
Il diritto ad un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione,
Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2017

Il volume di Giuseppe Bronzini, Presidente di sezione della Corte di cassazione lavoro e co-fondatore del BIN (Basic Income Network) Italia, Il diritto ad un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Torino, Edizioni Gruppo Abele, uscito a fine 2017 mira in primo luogo a spiegare le ragioni di un rinnovato e travolgente dibattito italiano, europeo e mondiale sull’accesso per tutti alle risorse necessarie per condurre una vita libera e dignitosa. A trascinare questo serrato confronto, di cui le discussioni in corso nel nostro paese sull’introduzione del reddito di cittadinanza (in sostituzione dei Reddito di inclusione varato nel 2017) rappresentano un riflesso sia pure molto tardivo, non vi è dubbio  sia stata l’accelerazione in atto nell’innovazione tecnologica: robot, A.I.(e machine learning), Internet delle cose, Industria 4.O, platform economy, soprattutto nelle loro interazioni, sembrano, infatti, riscrivere profondamente i sistemi produttivi ed anche gli stili di vita contemporanei.

 

Nella prima parte del Volume si cerca di mettere in correlazione questa costellazione di fenomeni con la riflessione filosofica, sociologica, economica e (da ultimo) anche giuslavoristica sull’accesso ai “minimi vitali” che nel corso dei secoli, ma con maggiore determinazione e chiarezza nel 900, ha declinato il tema ponendolo come punto di equilibrio tra la tutela della libertà e dignità della persona e  gli imperativi della crescita economica, come nella ormai classica ricostruzione rawlsiana di Teoria della giustizia. La garanzia di un reddito minimo (per coloro che sono a rischio di esclusione sociale, d’ora in poi RMG) finisce così con il diventare un elemento di completamento e razionalizzazione degli apparati welfaristici dei “trenta gloriosi”, di una società del lavoro nella quale l’equità e la coesione sociale illuminano una serie di misure convergenti nell’assicurare quel minimo di benessere e di sicurezza esistenziale a chiunque sia coinvolto nella cooperazione produttiva. Su questa base questa misura è stata costituzionalizzata in molti paesi occidentali e da ultimo all’art. 34 della Carta di Nizza (ne parla anche la Carta sociale europea) e si ritiene – comunemente – rappresenti a uno dei pilastri della cd. flexicurity europea (insieme al diritto alla formazione ed a quello di accesso a efficienti e gratuiti servizi all’impiego).  Lo scandalo morale sollevato più tardi da Rawls nel corso della presentazione di un suo volume a Parigi contrastando le tesi dell’alfiere  della Scuola del reddito di base propriamente inteso (spettante cioè a tutti, a prescindere dall’obbligo di ricerca di un lavoro e dalle condizioni socio-economiche personali o familiari) Philippe  Van Parijs del “surfista” di Malibù che sfrutta in modo parassitario e egoistico le risorse sociali si situa ancora in un contesto economico-produttivo nel quale il lavoro salariato (e a tempo indeterminato)  è ancora pienamente egemone e con esso anche efficaci quei diritti del lavoro che sono appannaggio dei dipendenti pleno iure. Il Welfare completa questa architettura garantista assumendo questa condizione come normale e quella di disoccupazione come evento transitorio ed eccezionale; lo stato sociale, peraltro, promuove in vario modo la piena occupazione attraverso una politica di investimenti pubblici e talvolta con forme di imprenditorialità pubblica ed assicura, comunque, un reddito di copertura dei bisogni vitali tra un impiego ed un altro. Gli studi sulla povertà e l’esclusione sociale si sono, sino a poco tempo fa, concentrati sulle forme conosciute di RMG, alcune molto generose soprattutto nel Nord Europa, evidenziandone limiti, difetti di inclusività e/o effetti non voluti come quelli legati all’inattività passivamente subita ed il disincentivo al lavoro, mentre le proposte di reddito di base sono sembrate dover rimanere appannaggio di circoli elitari accademici o di movimenti sociali radicali poco significativi nell’agone politico. Tuttavia questi ultimi anni sembrano aver mutato davvero questo compromesso tacito tra la via riformista e pragmatica del RMG (certamente più fattibile dal punto di vista economico e già riconosciuta in decine di paesi, anche se con modalità molto differenti) e quella più utopistica e progettante del reddito di base. A giocare in tal senso sono state le prime ricerche  pionieristiche di Osborne e Frey  del 2013, seguite da numerosi saggi di grande successo internazionale come quelli di Robert Reich o di Paul Mason  che hanno rilanciato il tema della “fine del lavoro” per  mano tecnologica  nella previsione di un drastico declino del tasso di occupazione non scongiurabile con le politiche pubbliche se non in minima parte (in genere valutato, entro i prossimi 15 anni, tra un terzo e la metà delle occupazioni attualmente disponibili). Si tratta di una previsione che già Marx nel celeberrimo “Frammento sulle macchine” aveva anticipato seguito, anche se in forma più cauta, da Lord Keynes, ma che sembra attualizzarsi oggi nella distruzione delle forme di garanzia sociale conosciute in occidente che alla fine presuppongono, direttamente o indirettamente, la condizione di salariato. Nel diffondersi di un pessimismo di massa e di una aperta diffidenza verso il futuro tecnologico intervengono persino i Tycoon di Internet, che da Bill Gates ad Elon Musk, aprono all’idea di un reddito di base per soddisfare i bisogni dei futuri disoccupati e persino alla tassazione dei robot per il finanziamento di questa misura. Le sessioni 2016 e 2017 del World Economic Forum di Davos vengono in gran parte assorbite da questo tema così come il Parlamento europeo ne fa oggetto di Risoluzioni. Oggi i Report sull’impatto dell’innovazione, soprattutto informatica, sull’occupazione sembrano essere più cauti: più che sulla scomparsa del lavoro sembra emergere una sua mutazione radicale che lo rende sempre più simile ad una attività di tipo comunicativo o formativo, nell’accesso diretto agli spazi di auto-imprenditorialità produttiva nella rete. Nell’economia delle piattaforme vive un’inedita disintermediazione delle prestazioni che non sono più mediate da imprenditori e che, nell’economia circolare, sono veicolate in rapporti orizzontali tra consumatori. Ancora ci si chiede se sia ancora tenibile la contrapposizione tra occupati e inoccupati che ascrive la produzione di ricchezza solo ai primi, posto che anche i secondi su Internet creano comunque quella nuova “linfa” della crescita economica che sono i big data dei quali i colossi come Google o Amazon si appropriano senza restituire nulla alla società che l’ha collettivamente creata.

Appare evidente che questo scenario ancora in piena evoluzione necessiti di una riscrittura delle garanzie di base in quanto l’attuale sistema diventa sempre di più eccentrico rispetto al diffondersi di prestazioni e servizi che trascendono le figure classiche sia del lavoro subordinato che di quello autonomo tradizionale.

 

La seconda parte del Volume cerca invece di individuare delle linee di sintesi e di mediazione tra l’impostazione del welfare novecentesco e le ragioni delle politiche pro-labour  e le proposte più radicali e trasformative, anche alla luce del recente contributo di Philippe Van Parjis e di Yannick  Van Vanderborght (e di altri Autori della loro Scuola) sul reddito di base, una vera e propria summa di quanto si è scritto sin qui sull’argomento. Questi Autori partono infatti dall’ammissione che vi sia ancora un profondo attaccamento al “lavoro” inteso come partecipazione personale alla società nella quale si vive e che non sia stato del tutto fugato l’argomento sul “surfista di malibù”; inoltre le storie ideali del reddito di base e del RMG sono per molti versi coincidenti visto che alla radice di entrambe  c’è la combinazione tra l’idea che la dignità di ciascuno non possa essere compressa e che questa dignità non può, però,  essere salvaguarda se non garantendo la libertà di scelta degli individui, che contempla l’individuazione autonoma del proprio contributo lavorativo o anche la possibilità di rendersi in altro modo utili ai concittadini. Ciò che certamente è nuovo è che il lavoro è sempre meno disponibile e che anche quello disponibile potrebbe non assicurare un reddito decente, oltre ad essere oggi discontinuo e precario (quindi scarsamente utile ai fini welfaristici). Si potrebbe partire, quindi, dagli schemi esistenti di RMG in Europa ove questa misura è più strutturata e costituzionalizzata (ovunque, salvo che in Italia) rendendoli più inclusivi, protettivi, capacitanti nel senso di idonei a rendere il soggetto che percepisce il beneficio più libero di autodeterminarsi e sempre meno “gestito” dalle agenzie amministrative. Si tratta quindi di una linea di rivisitazione critica delle cosiddette “politiche attive” europee malamente interpretate (in spregio delle stesse Carte dei diritti dl vecchio continente) in questi ultimi anni in prevalenza come meccanismi di coercizione al lavoro, irrispettosi della dignità essenziale delle persone, stigmatizzanti ed inutilmente punitivi per una colpa che è della società nel suo insieme, e cioè la mancanza di lavoro. Purtroppo la misura del REI italiano, pur non costituendo un vero RMG, ma un mero sussidio per la povertà estrema e in modo platealmente insufficiente, si è orientato a questa logica perversa che vede il povero come un soggetto che deve essere controllato strettamente e “forzato” al reimpiego. Certamente le persone dovrebbero essere aiutate a trovare attività che siano coerenti con le loro competenze e con le loro aspettative ma con forme ben diverse di “capacitazione” (seguendo la Scuola della “fioritura umana” di Amartya Sen)  dei soggetti e di formazione libera e partecipata, non di addestramento passivo e predeterminato verso improbabili professioni, in gran parte in via di sparizione. I cantori della collaborative economy non mancano mai di prescrivere l’originalità e le creatività delle persone, ma le istituzioni che dovrebbero accompagnarle in questo percorso prefigurano della gabbie rigide di obbedienza e docilità verso gi uffici dell’impiego che ricordano le work- houses dell’800. Questo rilancio (in realtà ridefinizione) di alcuni istituti del welfare dovrebbe accompagnarsi ad un primo riconoscimento del diritto ad un reddito di base per tutti (combinando quindi la tutela selettiva dei soggetti più deboli con quella universalistica dei cittadini) con importi anche piuttosto bassi per ragioni di fattibilità concreta.  Ancora si stanno diffondendo ovunque nel mondo forme di sperimentazione di reddito minimo per soli “bisognosi” ma incondizionato cioè indipendente dall’obbligo di lavorare, un’altra forma di ibridazione tra i due modelli. Si riconoscerebbe a livello istituzionale quindi la portata del problema favorendo una discussione aperta sul nesso tra trasformazioni del lavoro e rivoluzione tecnologica. In tal modo (anche con misure come quelle pensate dl Parlamento europeo di allargamento degli schemi contributi ad attività non post- tradizionali eventualmente con la creazione di un conto unico previdenziale trasversale a tutte le prestazioni o un salario minimo legale per ogni tipo di attività) forse si potrebbe addolcire l’impatto della transizione e ridimensionare quell’ondata di pessimismo e di allarme (secondo molti all’origine della rinascita dei nazionalismi)  che si sta sviluppando e che rischia di bloccare (politicamente) i processi evolutivi anche negli aspetti emancipatori o razionalizzatori, a cominciare dall’eliminazione della fatica umana ormai sostituibile con l’automazione.

 

                                                                   



20 novembre 2018