Anche chi non è mai stato in Liguria di solito associa l’identità locale ad almeno due stereotipi: la presunta tirchieria e il ricorso assai ricorrente alla parola belin (dal punto di vista etimologico la grafia corretta è bellin, con la pronuncia be ́liŋ). Quest’ultimo termine, che è anche il nome dato all’organo sessuale maschile, viene usato come intercalare dai liguri doc: sia quando si esprimono in lingua genovese – nelle sue varianti da Ponente a Levante – sia quando parlano italiano. Come spiega la linguista Sabina Canobbio (già professoressa ordinaria all’Università di Torino) nell’Enciclopedia dell’italiano di Treccani, gli intercalari sono «sequenze… che il parlante inserisce qua e là nel discorso, come personali forme di routine e, in modo per lo più irriflesso, per punteggiare espressivamente il discorso stesso… Possono ricorrere più volte in una stessa enunciazione come veri e propri tic».

Un tic o un dio dei Celti?

Ai genovesi/liguri è meglio non dire che l'uso della parola belin è un tic. Potrebbero offendersi (in effetti, un terzo stereotipo attribuisce loro una certa irascibilità). In ogni caso, è un’espressione usata con talmente tante sfumature da riuscire a rappresentare vari stati d’animo e punti di vista; inoltre ha generato una serie di varianti e aggettivi, buoni per diverse occasioni. La linguista cita proprio il termine belìn come «una delle interiezioni “costituite da parole oscene o comunque colpite da un tabu linguistico, più o meno eufemizzate e desemantizzate, spesso marcate regionalmente», tanto da segnalare «la provenienza geografica”» (come pota nel caso dei bergamaschi).

La domanda che molti si pongono è questa: come è nata la parola belìn? Il fatto che in Liguria si usi in maniera così sistematica induce tutti – inclusi gli stessi liguri, perlomeno quelli non-addetti-ai-lavori della linguistica – a ritenere che sia tipica della zona dalla notte dei tempi. Basti pensare che, secondo una delle ipotesi “etimologiche” più pittoresche, deriverebbe dai nomi di due divinità “falliche”: Baal o Belo, di origine semitica/fenicia, o Belenos, caro ai Celti. Spiega GenovaToday: “Questo dio veniva adorato anche dagli antichi Liguri, entrati a contatto con le popolazioni celtiche”. Insomma, in Liguria, secondo questa teoria, si direbbe belin da almeno tremila anni. Per altri, invece, il termine è legato a “budello” o “budellino”, la parte dell’intestino crasso di alcuni animali usata per i salumi insaccati.

Dice il dialettologo

In realtà, il linguista genovese Fiorenzo Toso, specialista dell'area ligure, professore ordinario all’Università di Sassari, ha dovuto deludere i fan dei Celti e pure i salumieri. Lo ha fatto già nel 2015, esaminando la questione nel suo Piccolo dizionario etimologico ligure e, più dettagliatamente, nel volume Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia. L’intera questione va rivista alla luce della cronologia. In estrema sintesi, la parola bellin – a dispetto della sua popolarità – ha cominciato a “colonizzare” Genova soltanto nell’Ottocento. Il professore cita un anno preciso: il 1894, quando viene attestata per la prima volta. Mentre la variante savonese abbellinou – cioè ‘ingenuo, credulone’ – era comparsa 52 anni prima.

Paròlle do gatto

«Bellin non è attestato in genovese», scrive Toso, «prima di Carlo Randaccio» (Genova 1827 - Roma 1909), che proprio nel 1894 lo tenne a battesimo nel suo volume Dell’idioma e della letteratura genovese. Anche se il derivato abbellinòu, ‘minchione’, «compare nel 1842 a Savona, intuibile per la rima, essendo sostituito (a parte la lettera iniziale e quella finale), da puntini di sospensione: “Tutte cöse che se fan / con pöchìscimi dinæ... / ma se semmo a......æ!» (‘tutte cose che si potrebbero fare / con pochissimi soldi... / ma se siamo scemi!’)”». I punti di sospensione si spiegano col fatto che durante l’Ottocento in Liguria nei confronti dell’intera famiglia lessicale dei termini considerati volgari (le cosiddette parolacce) c’è stato un ostracismo nell'uso letterario. Sono le espressioni definite simpaticamente in genovese pòule o paròlle do gatto. Il professore spiega: sono «quelle che per diffusa convenzione sarebbe bene non pronunciare pubblicamente, da… dare metaforicamente in pasto alla bestiola di casa», come si fa con gli avanzi.

Con Bacigalupo

L’ostracismo durò «almeno fino alla pubblicazione nel 1895 di un’opera che segna per certi aspetti una piccola ‘rivoluzione’ nell’uso scritto del genovese». Succede con la pubblicazione della «parodia dell’Eneide (scritta, appunto, nella lingua locale, ndr) di Niccolò Bacigalupo» (Genova 1837-1904): «Ai toni e ai temi ‘alti’ della tradizione locale comincia a subentrare, come presa d’atto del ruolo ormai debole del genovese come strumento identitario e comunicativo, la piena accettazione della dialettalità, in quanto manifestazione letteraria aperta anche all’utilizzo di voci triviali. In tal modo, la popolarità di una parola come bellin irrompe pienamente nell’uso scritto in tutta la sua complessità semantica». Per esempio, Bacigalupo scrive: «A-o bellin dove semmo? e che manëa / a l’é questa, perdïe, de voei trattâ?» (“Caspita, dove siamo? E che maniera / è questa, perdio, di trattare?”). «Nel poemetto sono anche attestati i principali derivati, alcuni dei quali destinati… ad affermarsi» nel linguaggio usato dai liguri.

Origine settentrionale

Toso quindi chiarisce: «Si deve constatare che, per quanto è dato sapere, nell’intera tradizione letteraria e documentaria dei secoli precedenti la parola bellin non compare mai, neppure in testi nei quali si rinvengono con frequenza voci triviali e metafore oscene. Alla luce di ciò, non sembra irragionevole pensare che il termine si sia affermato in genovese solo in epoca relativamente recente, anche se verosimilmente anteriore all’attestazione savonese. La possibilità che si tratti di un prestito, in particolare, è confermata dal fatto che l’esigua documentazione antica ricollegabile a bellin si limita in realtà a un testo in dialetto astigiano di Giovan Giorgio Alione (ca. 1460-1529)», il cui titolo è Opera piacevole (in altre versioni iocunda, giocosa o gioconda); «qui il termine compare due volte in un contesto dal quale si evince appunto il significato, effettivo o metaforico, di pene».

Scrive il linguista: «Questa circostanza lascia intuire che il termine sia originario dell’Italia settentrionale, considerando anche le corrispondenze che la voce trova nel cremonese belēn, bresciano bilì, parmigiano bilén, reggiano blèin (fèr di blèin ‘trastullarsi con cose frivole’), mirandolese blin, modenese bilìn, mantovano blin, romagnolo bilin, veronese belìne (tutte per ‘balocchi, giocattoli’), cremonese belinon (‘chi ama trastullarsi con i giocattoli’)”. Tutte “derivate di ‘bello’, col significato di ‘giocattolo’, però usate anche per alludere all’organo genitale maschile».

Un bellino a Buenos Aires

Un problema consiste oggi nello scovare la voce che a un certo punto venne sostituita in seguito all’affermazione di bellin. «La letteratura genovese abbonda», sostiene Toso, «di riferimenti all’organo sessuale maschile… ma è difficile individuare un termine prevalente nell’uso pre-ottocentesco». Di certo, bellin era usato all’inizio del Novecento nella comunità rioplatense argentina, animata da tantissime persone di fresca origine ligure; anzi, la prima attestazione in lingua italiana della voce bellino proviene proprio da Buenos Aires, dove, in un articolo pubblicato nel 1914 su O Balilla, scritto essenzialmente in genovese, un politico viene definito, tra gli altri improperi, “bellino (scemo, ndr) in maschera di cavaliere”.

Guarda caso, il termine è utilizzato sporadicamente a Carloforte e Calasetta – sulle isole di San Pietro e  Sant’Antioco, in Sardegna – dove si parla tabarchino (variante del genovese) perché nel XVIII secolo vi si trasferirono i coloni genovesi che avevano abbandonato l’isola tunisina di Tabarca, dov’erano arrivati a metà del XVI. «In quei due paesi la parola bellin è conosciuta. Ma non significa che sia antica, perché i tabarchini hanno assunto molte parole genovesi recenti. Mentre a Bonifacio, in Corsica, e in altre ex colonie genovesi antiche è proprio sconosciuta», spiega il professore a Treccani.it.

Fatto sta che, come sostiene Toso (cui non manca il senso dell’umorismo, altra peculiarità genovese), «l’utilizzo da parte di comici e uomini politici d’origine ligure (con singolare intercambiabilità tra le due categorie), ha diffuso a livello nazionale la conoscenza, per non dire l’utilizzo, del termine bellin ‘pene’, anche con valore di volta in volta esclamativo, eufemistico e sostitutivo». Nel 2015, il professore citava qualche esempio, evocando un comico in attività e un altro che si è dato pure (anzi, soprattutto) alla politica: «Belin... ma c’è il controllore nel treno e non c’è nelle banche?» (Maurizio Crozza, la Repubblica, 15-11-2013); «“Avanti così, belin, la prima Terza Repubblica”, scriveva Grillo» (Il Foglio, 8-5-2012); «Grillo ai ballottaggi: forza belin!» (Il Fatto Quotidiano, 21-10-2012). Noi potremmo aggiungere qualche esempio più recente: «Silvio, alza ‘sta belin di cornetta e chiama Putin!» (dal monologo di Crozza, riferito alla guerra scatenata dalla Russia in Ucraina e ai rapporti di amicizia tra Berlusconi e il presidente russo, nel programma Fratelli di Crozza, puntata del 5 marzo 2022) e «Belin, ma siete iscritti al mio canale Youtube?!» (Beppe Grillo su Twitter, 7 luglio 2018).

Persa la connotazione volgare

Cosicché oggi nell’italiano parlato in Liguria, scrive Toso, «la forma originaria bellin viene usata come intercalare o segnale discorsivo, smarrendo completamente… la connotazione volgare: in tal senso, può costituire una pausa (‘è entrato lui, e bellin, non ha più parlato nessuno’), introdurre frasi interrogative (‘bellin, non verrà mica anche lui?’) ed esclamative (‘bellin se è buono!’), connotare enfaticamente l’azione (‘non so più cosa fare, bellin’), sostituire un’affermazione (‘bellin se ci andrei!’)”; inoltre può “essere usato isolatamente (‘bellin!’) come esclamazione di meraviglia, stupore ecc». Mentre la forma belino, inteso organo sessuale maschile, registrata nel 1999 come regionalismo nel Gradit (Grande dizionario italiano dell'uso, curato da Tullio De Mauro, ndr) «sembra attenuare la valenza volgare in espressioni come: mi hai rotto il belino, mi sta sul belino, portare via il belino (‘andarsene’), me ne batto il belino (‘non mi importa’), mi gira il belino (‘mi arrabbio’), avere il belino di traverso (‘essere arrabbiato)’, tirare il belino a uno (‘sfottere’), averne il belino pieno (‘essere stufo’), ci ho nel belino che... (‘sono convinto che...’), ma cos’hai per il belino? (‘ma che ti gira?’) ecc.; in frasi negative, come il sinonimo italiano, vale ‘niente’, ‘nulla’: non capisce un belino, non ne sa un belino, non conta un belino ecc».

Di certo, oggi, nella costruzione di un’“identità locale” regionale, anche questa terminologia svolge un ruolo significativo. Però a tutti i forestieri si può offrire generosamente una raccomandazione: non improvvisate l’uso di belìn e derivati se non siete liguri; senza la cadenza genovese rischiereste di dire… una belinata.

Bibliografia

Niccolò Bacigalupo, Eneide. Ricordi di un reduce troiano in dialetto genovese, Valenti editore, Genova 1973 (I ed. 1895).

Carlo Randacio, Dell'idioma e della letteratura genovese; studio seguìto da un Vocabolario etimologico genovese, Forzani e C Tipografi del Senato editori, Roma 1894.

Fiorenzo Toso, Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia, Cuec Editrice, University Press - Linguistica, Cagliari 2015.

Fiorenzo Toso, Piccolo dizionario etimologico ligure. L'origine, la storia e il significato di quattrocento parole a Genova e in Liguria, Zona, Lavagna 2015.

Immagine: Una foto panoramica di Genova

Crediti immagine: Gabriel Rinaldi, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons