02 marzo 2020

Coronavirus, una parola infetta

Dopo venticinque anni passati a osservare gli effetti (diretti e collaterali) dei mezzi di comunicazione di massa sull’opinione pubblica, non è la prima volta che assisto alla tempesta di informazioni connessa a un evento funesto e sconvolgente. Alcuni, su Facebook, hanno stilato una lista semiseria, nella quale compaiono le varie grandi guerre che hanno scosso il mondo (Iran-Iraq, Golfo, ex Jugoslavia), di volta in volta viste come i prodromi della terza Guerra Mondiale, nonché le diverse epidemie (AIDS, mucca pazza, Ebola, aviaria, suina, ecc.), ognuna delle quali avrebbe, secondo alcuni, dovuto portare alla fine della civiltà umana “come la conosciamo”. Rispetto al passato, credo però di poter dire che mai prima d’ora sia stato così rilevante il ruolo giocato dalle fonti di informazione che potremmo chiamare secondarie, in particolare i social network e le piattaforme di messaggistica personale, usati spesso in maniera indebita per condividere appelli, testimonianze o informazioni inesatte, quando non completamente false.

 

Mentre scrivo, non voglio né drammatizzare né minimizzare la situazione attuale, connessa all’espandersi delle infezioni definite COVID-19, provocate dal virus SARS-CoV-2, meglio noto come (nuovo) coronavirus: non sono né medica né virologa, per cui parlerei di una cosa a me pressoché sconosciuta. Da linguista, invece, vorrei osservare come la narrazione mediatica, o meglio, il framing di ciò che sta accadendo (come analizzato dal linguista Federico Faloppa in un suo post, offrendomi lo spunto per questa riflessione), abbia contribuito alla sua percezione e ricezione.

 

Abbiamo, nei giorni scorsi, assistito ad alcuni passaggi mediatici fondamentali. Il primo capitolo risale all’incirca alla fine di gennaio 2020, ed è collegato alla diffusione della notizia allo scoppio dell’epidemia in Cina, a Wuhan, con conseguente narrazione apocalittica (o forse postapocalittica) di quanto stava avvenendo all’epicentro dell’infezione: le imponenti misure di contenimento prese dal governo cinese, l’epopea dei connazionali “intrappolati” dalla quarantena, il prodigio dell’ospedale costruito in dieci giorni, la narratio di un evento sconvolgente ma tutto sommato lontano. Fedeli alla filosofia NIMBY, not in my backyard, ‘non nel mio cortile’, i media “nostrani” hanno, a mio avviso, imbastito una comunicazione a tinte forti, complice il fatto che si trattava comunque di un avvenimento remoto.

 

Ovviamente, di pari passo con questa cornice grandguignolesca, non sono stati pochi i casi di razzismo contro i “cinesi” (tra virgolette perché ne hanno fatto le spese, quasi indistintamente, tutti coloro con fattezze orientali: il razzismo non va mai troppo per il sottile), individuati come veri e propri untori del contagio. Poco è importato a una bella fetta dell’opinione pubblica che in Italia esistano comunità estese di cinesi di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in Italia, che, come ha chiosato un alunno di seconda media da me incontrato in una scuola fiorentina, “hanno visto la Cina solo su Google Maps”. Come ha notato sempre lo stesso ragazzo, identificare gli orientali come untori è servito per rendere riconoscibili e quindi isolabili i supposti vettori del contagio, rassicurando allo stesso tempo tutti gli altri: fintantoché ci si fosse tenuti lontani dai “cinesi”, non sarebbe potuto succedere nulla di male. Si rilevi, in questa fase, l’uso reiterato del termine untore, con chiari riferimenti alla peste, anche se tra le due malattie non esiste alcun nesso. Vale la pena anche di ricordare che nella definizione da vocabolario di untore è originariamente contenuta l’idea che l’azione di contagio venisse compiuta volontariamente: questo, di certo, non ha aiutato una trattazione “distesa” dell’argomento.

 

Il secondo capitolo è iniziato quando, nella terza decade di febbraio 2020, la malattia è arrivata davvero in Italia (tralasciando quindi il caso di fine gennaio 2020 dei due turisti cinesi ammalatisi e messi in quarantena a Roma) con i focolai del Nord Italia, per l’esattezza in Lombardia e Veneto. Per alcuni giorni, i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto quotidiani e televisione, si sono scatenati in una sorta di vero e proprio sabba incontrollato a chi, francamente, la metteva giù più dura. I titoli delle prime pagine di alcuni dei principali quotidiani (appartenenti a vari schieramenti politici), fotografati dal giornalista Luigi Ambrosio il 22 febbraio 2020, a ridosso della scoperta dei casi italiani, erano: “Italia infetta. In Veneto il primo morto di coronavirus”; “Virus, il Nord nella paura”; “Contagi e morte, il morbo è tra noi”; “Vade retro virus. Primo morto: un 77enne a Padova”; “Avanza il virus, Nord in quarantena”. Ovviamente, nessuna di queste è una fake news tout court, quanto piuttosto il prodotto di una precisa scelta di “cornice narrativa” nella quale, per esempio, si è tralasciato di accennare al fatto che il defunto non era esattamente “morto di coronavirus”, dato che soffriva di patologie pregresse, o che la quarantena non riguardava certo tutto il Nord Italia, ma due zone circoscritte.

 

I mezzi di comunicazione di massa, in quei giorni, hanno contribuito a definire il tono della conversazione pubblica. E non solo le “persone comuni” sui social hanno iniziato ad alimentare il fuoco della paranoia collettiva con contatori di defunti “di coronavirus” (salvo poi scoprire che praticamente nessuno, in Italia, era morto per le conseguenze esclusive dell’infezione, quanto piuttosto per quadri di comorbosità o comorbilità – cioè di coesistenza di più patologie – piuttosto complessi), con ipotesi di complotto (“Non ci stanno dicendo tutto”, “La realtà è ben più grave”), con uscite xenofobe solo in parte giustificate dal sacrosanto e umanissimo timore di ammalarsi; anche numerosi esperti hanno ceduto alla tentazione di richiamare su di sé l’attenzione con dichiarazioni non sempre condivisibili e in più di un caso sopra le righe, talvolta cadendo anche in contraddizione con sé stessi a distanza di pochi giorni, come se una delle caratteristiche di questo presente iperconnesso e ipercomplesso, come lo definisce per esempio Piero Dominici, non fosse quella di rendere impossibile la rimozione delle dichiarazioni fatte in passato. E così, basta fare una ricerca veloce su Google per accorgersi di come anche nomi di primissimo piano abbiano prima minimizzato, poi dichiarato che la situazione era molto grave, poi siano tornati a chiedere un abbassamento dei toni da parte dei media; toni che, in molti casi, avevano contribuito essi stessi a innalzare.

 

Dunque, sono seguiti alcuni giorni di psicosi generalizzata, in cui gli abitanti di molte zone d’Italia, spaventati e disorientati, hanno fatto razzia di mascherine, gel disinfettanti, generi alimentari, come in attesa dell’Armageddon. Diverse regioni hanno chiuso scuole di ogni ordine e grado e molti eventi di massa sono stati o cancellati o rimandati. Si è diffuso un clima di sospetto ostile nei confronti di chiunque esibisse un minimo accenno di malessere, un colpo di tosse. In questo contesto, hanno prosperato anche i mitomani. Due casi particolarmente rilevanti, per quanto mi riguarda, sono stati la falsa ricetta del gel disinfettante fatto in casa (potenzialmente pericolosa, che il chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini ha contribuito a chiarire e rettificare, dando la ricetta corretta) e il messaggio vocale circolato in Toscana per giorni su WhatsApp di una sedicente dirigente della Regione che, affermando di essere appena uscita da una seduta del consiglio regionale, prospettava la chiusura delle scuole invitando le persone a tenere comunque a casa i figli “secondo coscienza”. L’audio ha avuto una diffusione capillare nei gruppi dei genitori delle classi scolastiche e, nonostante la mancanza di una qualifica precisa da parte dell’autrice del vocale, molti l’hanno preso sul serio, contribuendo, ovviamente, a seminare l’incertezza e lo scontento nei confronti degli organi regionali, accusati di non fare abbastanza per arginare l’epidemia. Questo è anche il momento in cui si è iniziato a parlare insistentemente di pandemia nel senso di epidemia impossibile da arginare e contenere, anche se l’OMS ha cercato di chiarire che al momento è improprio parlare della situazione in questi termini.

 

Si giunge, così, pochi giorni dopo, verso il 23-24 febbraio 2020, alla terza fase dell’informazione. Sono arrivati, sia a livello politico che sanitario, inviti ai media ad abbassare e contenere i toni, perché era diventato evidente che la situazione stava sfuggendo di mano. È chiaro che in questo momento si sono sovrapposte varie esigenze: quella di contenere il contagio, certo, ma anche quella di minimizzare i danni economici e politici della situazione: improvvisamente, infatti, gli italiani si sono ritrovati a essere gli “appestati del mondo”, con gravissime conseguenze di immagine. A questo hanno contribuito non poco i succitati toni impiegati dai mezzi di comunicazione di massa.

 

Quella che superficialmente potrebbe sembrare la sostituzione di un certo tipo di notizie con altre è piuttosto un caso di reframing, a dimostrazione di come le stesse informazioni possano essere, con qualche accortezza, date in maniera radicalmente differente, se non opposta, senza che questo comporti per forza una loro distorsione. Per esempio, invece della “conta dei morti da coronavirus” si è passati da una parte a spiegare il quadro patologico delle vittime, spesso anziane o immunodepresse (il che non rende meno tragiche le loro morti, ma serve piuttosto per contestualizzare gli avvenimenti e anche per rendersi conto di quali siano le persone più a rischio dell’insorgenza di complicazioni gravi) e a fare il censimento dei guariti che, per fortuna, sono molti di più dei pazienti con esito fatale.

 

Il problema, a mio avviso, è che questa terza fase si è fatta un po’ attendere e appare in diretta e forzata opposizione alla narratio dei giorni precedenti. Questa opposizione contribuisce a minare la credibilità di molti organi informativi e anche a rendere meno credibili i loro appelli a una “normalizzazione”. Come si fa, del resto, a dare credito a chi ha usato il termine coronavirus come una clava fino a quarantott’ore prima e che adesso richiama alla “sobrietà mediatica”? Il termine coronavirus stesso, peraltro, è stato in larga parte usato impropriamente, dando l’impressione che si trattasse del coronavirus per eccellenza, quando in realtà abbiamo a che fare con un coronavirus, il più nuovo rappresentante della famiglia dei coronavirus, che sono la causa di una parte dei comuni raffreddori oltre che della ben nota SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome).

 

Oltre al termine usato in riferimento al virus, si è abusato forse anche delle parole della “nuvola semantica” circostante: epidemia e pandemia, contagio, infezione e infetto, virus cinese (ottimo assist per episodi di razzismo), contaminazione, psicosi, quarantena, untore, fino all’accostamento arbitrario – e terrificante – con peste. C’è da stupirsi se adesso le persone fanno fatica a credere agli appelli che invitano a un lento, seppur cauto, ritorno alla normalità?

 

Ritengo che i mezzi di comunicazione di massa abbiano una grandissima responsabilità rispetto all’andamento della percezione di quanto sta succedendo in questi giorni. Penso anche che molti abbiano abdicato al loro ruolo di informatori per diventare, spinti forse da voglie di protagonismo, piuttosto deformatori delle notizie. È invece importante, secondo me, che anche in un tempo in cui tutti possono fare del citizen journalism, gli organi “ufficiali” si impegnino a essere fonti autorevoli e affidabili, e soprattutto sobrie.

 

Non è un caso se negli ultimi giorni si è iniziato a parlare sempre di più di infodemia, ossia di epidemia di informazioni spesso contraddittorie, raramente affidabili, mirate non al cervello quanto piuttosto alla parte più bassa e istintiva di noi. Si può arginare, adesso, l’infodemia? Senz’altro, e penso che lo si stia già facendo, ma solo dopo aver assistito alle conseguenze nefaste della rincorsa allo scoop. Che almeno questa sia un’occasione per riflettere, da parte di tutti, sull’importanza della scelta corretta delle parole, che possono essere sempre selezionate per elicitare reazioni istintive oppure, davvero, per informare nella maniera più completa possibile. Penso che, come cittadini di questo presente iperconnesso, abbiamo ancora molto da imparare.

 

Immagine: Disinfezione dei treni della metropolitana di Teheran contro il coronavirus

 

Crediti immagine: Fars News Agency / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)

 


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